Il concerto milanese per Gaza, un successo di pubblico e raccolta fondi, è stata la presa di posizione più forte contro il genocidio della scena musicale italiana.
La musica ha sempre un ruolo politico, intervista all’artista Laila Al Habash
Long Story Short è il nuovo Ep dell’artista italopalestinese Laila Al Habash. L’abbiamo incontrata per parlare di musica, attivismo e del genocidio nella Striscia di Gaza.
Laila Al Habash è un’artista a tutto tondo. Fa musica, ma si considera anche una stilista. Ha passato gli ultimi mesi a cucire, tagliuzzare, rammendare e ora è pronta a indossare il suo nuovo vestito. Quel vestito si chiama Long Story Short, é il suo nuovo Ep in uscita il 7 giugno. Ha già iniziato a mostrarlo nei suoi primi live, come il Mi Ami Festival di fine maggio, e lo porterà in giro per l’Italia per tutta l’estate. “Il live è come indossare cose che hai disegnato per molto tempo, che sono state un’idea e vederle poi realizzate”, sottolinea.
Long Story Short è una fotografia di un momento della vita di Laila Al Habash, classe 1998. Dentro c’è tutta la ricchezza del suo 2023, l’anno che l’ha portata in tour fino in Brasile, ma anche ad aprire i Coldplay allo stadio Maradona di Napoli. Ma dentro c’è anche qualche sparuto richiamo al mondo arabo. Laila Al Habash ha madre italiana e padre palestinese, è un’artista e sa che l’arte ha un ruolo politico. Fin dal liceo si è spesa con tutta se stessa per raccontare le difficili condizioni del popolo palestinese e negli ultimi mesi è sempre stata in prima linea per tenere i riflettori accesi sul genocidio in corso nella Striscia di Gaza per mano di Israele. “Se esporsi su quanto sta succedendo a Gaza è una cosa rischiosa è un rischio che ho sempre preso. E continuerò a farlo“, puntualizza.
Dagli inizi musicali alla genesi del nuovo Ep Long Story Short, passando per le sue origini palestinesi e il senso dell’attivismo per un’artista, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Laila Al Habash.
Qual è stata la tua gavetta e cosa significa per una ragazza di 25 anni sgomitare nel mondo della musica indipendente italiana?
Il mio percorso è stato lungo e con diverse fasi. Io scrivo canzoni da quando ho 13-14 anni e l’ho fatto per molto tempo senza prendere minimamente in considerazione l’idea di una carriera vera e propria nella musica. Poi però le cose che ho fatto hanno attirato le persone giuste e lì è iniziata un po’ tutta la faccenda, avevo circa 19 anni. Questa fase faccio fatica a chiamarla gavetta. È arrivata, l’ho affrontata, ho imparato a conviverci. Avevo per esempio poca esperienza con i live, avevo sempre e soltanto suonato chitarra e voce con una tastiera nei palchi del Pigneto quando ero piccolina.
Fare un tour vero e proprio è stata una cosa molto importante per me perché mi ha permesso di capire tanti aspetti della mia musica, è stato come indossare degli abiti che avevo disegnato. Vedere cosa ti piace, dove vuoi aggiustarli, dove hai creato una cosa interessante o meno. Essere un’artista indipendente, senza Sanremo, senza talent, richiede uno sforzo diverso ma che sinceramente preferisco. Se questa è la mia gavetta, la faccio con piacere.
Qual è stato l’anno più importante per te, quello della svolta, del giro di boa per la tua carriera?
Non vedo ancora la boa all’orizzonte però sicuramente un anno che mi ha dato enormi soddisfazioni inaspettate è stato il 2023. Sono successe tante cose, ho fatto due tour all’estero – uno in Germania e uno in Brasile – ho recitato in un film che è andato nei cinema e al Giffoni festival (“Noi Anni Luce”), ho aperto i Coldplay allo stadio Maradona di Napoli.
È stato un anno in cui pensavo di rimanere ferma a scrivere e invece la vita mi ha portato in una stanza che non avevo visto. È stato un anno che mi ha insegnato tante cose, mi ha messo alla prova e mi ha fatto scoprire che mi piace farlo e provare cose che non ho mai fatto, perché fondamentalmente mi diverto. Se una cosa mi diverte, mi fa imparare qualcosa o mi spinge in posti dove non sono stata, fisici e non, di solito mi interessa, mi piace.
Com’è stata l’esperienza in Brasile?
Da quando sono tornata dal tour in Brasile ho iniziato a prendere lezioni di portoghese e oggi lo parlo. Andare in Brasile è un’esperienza che ti ribalta se sei occidentale e anche, ma non necessariamente, se sei interessato alla musica.
Io ho voluto imparare il portoghese per capire cosa dicono nelle canzoni, voglio stare in quell’energia. In Brasile la musica viene vissuta in tutt’altro modo rispetto a noi e questa percezione non è solo mia. D’altronde “Anima latina” di Lucio Battisti nasce da un viaggio in Sud America. C’è un modo che hanno i brasiliani di vivere la musica che è commovente. Il Brasile ti regala una polvere che vedi soltanto lì e che quando la risenti ti ritorna tutto quanto. In me è nata una passione per la musica popolare brasiliana, il funk e altre mille derive della cultura brasiliana, cose che mi hanno davvero entusiasmato.
Qual è stata la genesi del tuo nuovo Ep, Long Story Short? Come è nato e che influenza ha avuto nella sua creazione il tuo ultimo anno, Brasile compreso?
Adesso che mi ci fai pensare c’entra anche il Brasile. Un pezzo in particolare, In breve, dove ho inserito molti elementi musicali di diverso genere e insoliti come strumenti tribali, clacson, il rumore della retromarcia di una camioncino del netturbino. Questo approccio alla musica più sperimentale mi è nata dopo aver ascoltato molto funk brasiliano.
Long Story Short nasce però in un periodo di tempo un po’ più grande, è stato scritto in vari momenti degli ultimi anni. Più che sulla quantità mi sono concentrata sulla qualità delle tracce e della mia produzione. L’ho ironicamente chiamato Long Story Short perché ironicamente è un album molto ricco a livello di storie e di mie cose personali, ma è breve. Quindi l’ho chiamato così, per farvela breve.
Uscendo dal tema musicale, vorrei andare sulla tua storia personale e le tue origini. Quanto la cultura palestinese paterna ha influito nella tua crescita personale e artistica?
È una domanda che non ha una risposta lineare. Se ascolti i miei dischi ci sono pochi elementi arabi. Nel nuovo Ep ce n’è qualcuno, sono molto contenta per esempio di aver inserito un grido popolare delle donne arabe. Nel mio disco Mystic Motel citavo il deserto del Wadi rum, che sta in Giordania e di cui ho molti ricordi. Ma per il resto non si trova altro.
Io come tantissimi figli di profughi palestinesi non parlo arabo, cioè lo parlo molto poco. Sono cresciuta con due genitori di due culture diverse, due religioni diverse, mia madre è italiana cristiana e mio padre palestinese musulmano. Ho sempre vissuto tutto questo in modo estremamente naturale, avere due culture molto ricche da cui poter attingere, dentro casa. La cultura palestinese l’ho respirata anche perché tantissimi miei parenti stanno in Giordania, stato limitrofo della Palestina dove quasi l’80% della popolazione è fatta di discendenti palestinesi o palestinesi.
Per me è sempre stato normalissimo avere la tv accesa sui canali arabi con La Mecca, vedere mio padre che pregava mentre mia madre andava a messa. Questa apertura mentale per me è stata molto importante, mi fa soffrire tanto l’islamofobia che c’è negli ultimi anni, questo odio razziale che c’è nei confronti degli arabi. Non si riesce a riconoscere le persone arabe musulmane e palestinesi come meritevoli dei più basilari diritti umani, c’è una disumanizzazione della cultura araba, quasi una paura che si respira per le persone di religione islamica che mi fa stare molto male nonostante io non sia musulmana.
Crescere in questa cultura mi ha arricchita tantissimo e poi se forse c’è una cosa che mi porto dietro dell’eredità palestinese e che ho avuto modo di toccare specialmente dopo il 7 ottobre è l’avere un’eredità quasi genetica, impercettibile, nel subconscio, di essere figlia di una persona che non ha uno stato. E quindi sentirsi sempre un po’ apolide, che non c’è un posto giusto o anche un senso di essere sempre un pochino fuori posto. È complicato avere un’identità mista, è complicato quando sei palestinese e non hai uno stato e le tue origini si mescolano con quelle di persone che hanno resistito, che hanno visto tutto distrutto, che hanno ricostruito, che non demordono e che continuano a resistere.
Nei tuoi concerti si vedono bandiere palestinesi, nel pubblico e anche sul palco. Senti una sorta di responsabilità come artista prima ancora che come persona italopalestinese nel tenere i riflettori accesi su quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza, di far arrivare un messaggio?
Credo molto in questo. Le bandiere nel pubblico ai miei concerti è una cosa nuova, nella data del Mi Ami Festival l’avevo portata perché ci tenevo a fare questo gesto, nella data successiva me l’hanno letteralmente lanciata sul palco. È una cosa nuova questa reazione del pubblico, questa voglia di esprimersi, di dare un segnale forte.
Sulla responsabilità, io l’ho sempre fatto, continuerò a farlo e lo facevo anche quando non facevo la musicista e non stavo sui palchi. Avevo 16 anni, stavo nel mio liceo di provincia in periferia di Roma, ero rappresentante di istituto e nelle assemblee che organizzavamo io chiamavo esponenti ed attivisti palestinesi. Io sono sempre stata così e che questo avvenga con un telefono puntato o meno per me non cambia niente. La cosa che mi preoccupa è che cambia per le persone, nel senso che sento un’aspettativa nei miei confronti da parte del pubblico, anche da quello pro Palestina. Ho ricevuto un sacco di messaggi anche accusatori, tipo “Perché non ne stai parlando?”, e questa cosa mi spaventa tantissimo perché c’è un’aspettativa di performance sui social nei miei confronti che a me non piace e preoccupa.
Io per esprimermi utilizzo la musica, che è una forma dell’arte. E chiunque si esprime utilizzando l’arte ha un ruolo politico.
Io vado alle manifestazioni, tutte quelle che posso, vado ai presidi, cerco di essere il più attiva possibile nel mio impegno per quello che posso fare. Però mi rendo conto che per le persone quasi se non lo faccio vedere non esiste. Allora mi chiedo: che cosa stiamo facendo? Se non lo faccio vedere non l’ho fatto? Che cosa mi state chiedendo? E non so darmi una risposta anche perché è tutto nuovo anche per me. Quindi non sento una responsabilità nel senso negativo del termine, sento una voglia di farlo, quello sì, ma c’è qualcosa da collaudare ancora.
Chi ha preso posizione, per esempio a Sanremo, si è portato dietro un po’ di polemiche. Tu hai mai pensato che il fatto di prendere posizione possa creare dei problemi per la tua carriera?
Dire che non si devono uccidere 40mila persone, decapitare bambini e uccidere innocenti o rinchiuderli in quelli che sono campi di detenzione orrendi non può essere problematico. Se questa cosa è problematica per qualcuno questo dà la misura di quanto siano disumanizzati i palestinesi e di quanto le persone arabe, non bianche, islamiche siano declassate. Quindi per me non può neanche esistere un’ipotesi in cui per fare una cosa che voglio devo precludermi di credere alle cose in cui credo davvero come questa, perché altrimenti cambierei lavoro. Se esporsi è una cosa rischiosa è un rischio che ho sempre preso. E continuerò a farlo nella misura in cui mi sento a mio agio, ci credo e ha senso per me.
Cosa significa per una persona come te di 25 anni, donna, per metà palestinese, vivere oggi in Italia, un paese che ha il mirino puntato sui giovani, sui diritti delle donne e su chi non rispetta a pieno gli stereotipi dell’italianità?
Al giorno d’oggi abbiamo talmente tanta diversità, ricchezza e omologazioni che io quando sento la parola giovani non so bene che cosa individuare perchè siamo tanto diversi gli uni dagli altri. Che i giovani non siano visti bene penso sia sempre stato così, non mi aspetto niente di diverso. Mi dà molto fastidio che tutti si sentano estremamente liberi di dire pesta e corna ai giovani e se i giovani provano a fare un’obiezione o una critica a persone più anziane questa cosa non va bene. I giovani possono accollarsi tutte le critiche di questo mondo, anche stereotipi che non sono calzanti e non può succedere il contrario.
Vedo un’Italia rassegnata, non capisco perché non siamo tutti i giorni in piazza a protestare per le cose che succedono e mi dispiace tanto questa narrativa dell’Italia. Tendiamo sempre a ridere delle cose che vanno male, a diventare meme, gag mentre secondo me dovremmo un attimo fermarci e avere più reazione. Vedo quello che succede fuori dall’Italia, in Francia per esempio. Mi fa stare male vedere un atteggiamento rassegnato. Tanto siamo in Italia, c’è il mare, il buon cibo, gli amici e quindi va bene così. Questa cosa mi fa arrabbiare, la rassegnazione.
Torniamo alla musica. Cosa ti aspetti dal nuovo Ep Long Story Short e che estate sarà per te?
Con questo Ep spero di arrivare a più persone possibili, auguro che sia molto trasversale e non si rivolga a una nicchia. Mi aspetta un’estate di live, che è la parte viva del fare musica, come dicevo prima è come indossare cose che hai disegnato per molto tempo, che sono state un’idea e vederle poi realizzate. La dimensione live ti regala delle emozioni che non possono arrivare con il disco perché non sei lì, non interagisci col pubblico, non vedi le loro facce.
È complicato avere un’identità mista, è complicato quando sei palestinese e non hai uno stato e le tue origini si mescolano con quelle di persone che hanno resistito, che hanno visto tutto distrutto, che hanno ricostruito, che non demordono e che continuano a resistere.
Long Story Short è un Ep in ho cercato di affermare e mettere al meglio che ho potuto una crescita e uno studio di quello che faccio che c’è stato negli ultimi tempi grazie a tutte le cose che mi sono capitate e arrivate e che ho colto molto volentieri.
Dove ti vedi dopo questo Ep, più a lungo termine? Hai tracciato una linea da seguire?
Sicuramente c’è una linea, un filo rosso. Un pensiero a lungo termine per quanto riguarda la continuità musicale del mio stile. Non mi piace neanche troppo però fare programmi perchè mi piace molto smentirmi. Sicuramente Long Story Short è una foto di me in un momento particolare della mia vita. È come rimarrò per sempre? Assolutamente no. È il meglio che ho potuto fare? Certo. Mi auguro anche che un giorno arrivi un disco che è un’altra foto di me, completamente diversa. Sono curiosa anche riguardo a me stessa, di scoprire dove sarò e cosa farò. Non mi piacciono gli spoiler in generale, quindi neanche sulla mia musica.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
I Massive Attack hanno chiuso l’edizione 2024 del Todays festival con uno show unico, dove la musica si è mescolata alla mobilitazione politico-sociale.
Dopo quasi quindici anni, il sogno dei fan si realizza: i fratelli Gallagher hanno fatto pace, gli Oasis tornano a suonare insieme.
Hard art è il collettivo interdisciplinare fondato da Brian Eno per combattere i cambiamenti climatici e le crisi globali del nostro tempo.
Il progetto Sounds right consente agli artisti di accreditare la natura come co-autrice quando utilizzano i suoi suoni nelle loro composizioni.
La techno diventa voce di protesta contro i cambiamenti climatici nelle strade di Parigi grazie al collettivo Alternatiba Paris.
“Sulle ali del cavallo bianco” è il nuovo album di Cosmo, a tre anni dall’ultimo. Un periodo in cui il musicista di Ivrea è cambiato molto, tranne su un punto. La voglia di lottare per i diritti civili.
La commissione nazionale tedesca per l’Unesco ha dichiarato la scena techno di Berlino patrimonio culturale della Germania, riconoscendo il ruolo di musica, club e rave nei processi di trasformazione sociale.
Con Un segno di vita, Vasco Brondi torna con dieci canzoni “d’amore e d’apocalisse”, in bilico tra il particolare e l’universale. L’abbiamo intervistato.