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Land grabbing in Myanmar. Qui il fenomeno è usato anche come persecuzione
Il fenomeno del land grabbing è presente anche in Birmania. Qui, però, l’accaparramento delle terre viene usato come arma di persecuzione delle minoranze.
Da decenni in Myanmar (ex Birmania) il land grabbing si espande a macchia di leopardo, intrecciandosi con le condizioni di povertà e sottomissione dei contadini, l’ingiustizia ambientale e le trattative di pace fra governo, rappresentante della maggioranza buddista, e alcuni gruppi etnici e religiosi.
I villaggi dei rohingya, minoranza musulmana nello Stato Rakhine della Federazione birmana, al centro delle cronache degli ultimi giorni, sarebbero stati incendiati da militari birmani e da estremisti buddisti anche (ma non solo) per confiscarne i terreni, fra i più ricchi di risorse del Paese asiatico. Si tratterebbe – come ipotizzato da The Guardian – di uno dei casi più recenti, ma già praticato da decenni e altrove dall’esercito birmano, in cui nel land grabbing è stata utilizzata l’arma di guerra della persecuzione etnica e religiosa, la quale finora tra i Rohingya ha prodotto centinaia di morti, centinaia di migliaia di sfollati, profughi, lager, fame e – secondo alcuni osservatori dell’Onu e Human rights watch – “pulizia etnica”.
In questo caso particolare, però, certamente “la pulizia etnica non avviene solamente per motivi religiosi, ma questi ultimi sono un fattore determinante”, ci spiega Phil Robertson di Human rights watch, uno dei quattro esperti intervistati da Lifegate sul land grabbing. “Il governo e l’Esercito birmano rifiutano l’esistenza dei Rohingya come gruppo etnico e religioso di un milione di persone e si stanno mobilitando per mandarli via. La questione della terra è importante, ma secondaria. Molte ragioni spiegano le confische, ma non possiamo dire che avvengano solo per business o pregiudizi religiosi ed etnici. Piuttosto si tratta di un mix di cause, che varia di caso in caso”. Infatti, la stessa popolazione Rakhine è afflitta dalle confische, pur non essendo vittima di persecuzione.
Il settore dell’agricoltura minato dal land grabbing e dai nuovi progetti industriali
Da quando nel 2010 è iniziata la transizione dalla giunta militare alla democrazia, le aree a rischio di land grabbing sono le neonate Special economic zone (Sez – Zona economica speciale), anche se appena “pacificate” dalle varie guerre fra esercito birmano e guerriglieri delle minoranze . Leggendo il quotidiano Irrawaddy si capisce che il passaggio da zone di guerra a zone industriali andrebbe sorvegliato e dovrebbe essere graduale. L’amministrazione congiunta di funzionari statali e organizzazioni etniche armate, come la Karen national union, può tradursi in istituzioni deboli o corrotte, inadatte a gestire enormi investimenti di aziende straniere. Si registrano, infatti, inquinamento incontrollato, dispute con gli indigeni, indebitamento e sfruttamento degli operai, tra i quali anche bambini.
Più a sud, sul mare delle Andamane, la zona economica speciale di Dawei viene ormai descritta come una “zombie area”. Inaugurata nel 2008 in pompa magna assieme al governo tailandese, non è mai decollata. I motivi sono vari: non creerebbe occupazione sufficiente per i locali, non sarebbe adeguatamente collegata al resto del Paese e arricchirebbe soprattutto la Thailandia che, secondo il New York Times, lì esporterebbe le sue “industrie sporche”. Il principale sviluppatore del progetto, l’Italian-Thai Develompment, a dispetto del nome da decenni completamente thai, è stata inserita dall’Agenzia di cooperazione internazionale giapponese – che ne aveva finanziato l’ampliamento dello “skytrain” di Bangkok – nella lista nera degli standard di sicurezza.
Nella Federazione birmana, tanto ricca di risorse, lo Stato più colpito dal land grabbing sarebbe lo Shan, seguito dal Kachin, dallo Chin, dal Karen, dal Mon, dal Kayah e dal già citato Rakhine. Espropriazioni e sfollamenti forzati sono attualmente praticati per lasciare posto a disboscamento, lavorazione di legname pregiato come il tek, estrazioni minerarie di nichel, ferro, rame, carbone e pietre preziose, piantagioni di olio di palma e banani, gasdotti, centrali idroelettriche, porti e dighe. Gli interessi di imprenditori privati autoctoni, detti “cronies” perché legati all’élite al potere, del governo ancora largamente guidato dai militari, dei capi-guerriglia e di investitori stranieri (fra i quali cinesi, malesiani, tailandesi, ma anche europei e americani) potrebbero compromettere la sopravvivenza dei contadini, che costituiscono il 70 per cento della forza lavoro del Myanmar. Una questione non di poco conto, dato che secondo l’agenzia McKinsey & Co. l’agricoltura produce il 44 per cento del prodotto interno lordo.
Jose Maria Arraiza, esperto di diritti delle minoranze del Norwegian refugee council in Myanmar
“In Birmania il land grabbing è praticato sin dall’indipendenza (dal Regno Unito 1948, ndr) seppure in modi differenti. Il Paese ha attraversato decenni di guerre civili e di regimi militari che hanno provocato sfollamenti forzati di massa e land grabbing di vario tipo. Per fortuna, negli ultimi anni e nel contesto di sforzi verso la transizione democratica, il governo ha dichiarato che restituirà le terre acquisite erroneamente ai proprietari originari. Come abbiamo argomentato nel report Restituition in Myanmar (Restituzione in Myanmar, ndr) realizzato da Scott Leckie e dal sottoscritto, già 162mila ettari sono stati restituiti. È, tuttavia, l’inizio di un lungo processo di miglioramento che dipende dal rafforzamento della legislazione in materia”.
“Fra il 1947 e il 1988 la politica agricola di tipo socialista si basava sulla proprietà statale e la gestione in cooperative. I contadini avevano il diritto di coltivarla e utilizzarla. Furono aboliti i latifondi, redistribuite le terre e incluse alcune tutele per i contadini poveri. A partire dal 1988, la giunta diede priorità alla crescita economica e alle riforme di mercato. Il controllo socialista si allentò e furono incoraggiati gli investimenti locali e stranieri. Queste politiche sono state rafforzate dalle riforme legali del 2012, che includono la Vacant, fallow and virgin law (legge sulle terre libere, incolte, vergini, ndr), la Farmland law (legge sulle terre agricole, ndr.) e le Foreign investment laws (leggi sugli investimenti stranieri, ndr.). Esse formalizzano l’uso individuale della terra e consentono gli investimenti nella terra. Il problema è che mancano di sufficienti tutele, non riconoscono il sistema di utilizzo de facto e quello consuetudinario. Perciò, sono aumentate le confische e i conflitti legati alla terra in varie parti del Paese”.
“Una vecchia storia. Ci sono stati vari tipi di land grabbing, ma ora serve un piano di restituzione”
“Dall’inizio della transizione democratica, nel 2010, il Myanmar sta attraversando un veloce, profondo, multiplo cambiamento in politica, economia, giurisprudenza, che però non è sfociato nella protezione dell’ambiente e degli individui colpiti dalle guerre civili. Le tendenze in atto sono contraddittorie e riflettono la natura bicefala del sistema birmano. Il governo ha due teste, una militare e l’altra civile (guidata dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che è attualmente Consigliere di Stato della Birmania -una sorta di primo ministro -, ministro degli Affari esteri e ministro dell’Ufficio del Presidente, ndr). Le nuove leggi del 2012, purtroppo, non considerano i diritti acquisiti e consuetudinari alla terra, l’uso informale della stessa, la coltivazione itinerante, gli sfollamenti e l’abbandono forzato dei terreni a causa dei combattimenti. Come procedere? All’interno del processo di pace, in consultazione con gli attori della società civile, il governo deve creare un un’organizzazione e un programma nazionale di restituzione, attraverso una nuova legislazione più adeguata”.
Tom Kramer, responsabile in Myanmar del Transnational institute
“Dalla fine della prima decade del 2000, le confische di terreni per l’agro-business sono aumentate. In totale 2 milioni di acri sono stati assegnati al settore privato dall’allora giunta militare. Con l’arrivo del presidente Thein Sein, nel marzo 2011, il diritto alla terra è stato collocato in alto nell’agenda politica. L’alleggerimento delle restrizioni ai media e alle organizzazioni hanno portato a maggiori proteste da parte delle comunità contadine contro il land grabbing. Alcune si riferivano a casi antichi.
“Dal 2012 si è abbattuta una nuova ondata di land grabbing con grandi rischi per i contadini e l’ambiente”
Altre manifestazioni contadine erano il sintomo di una nuova ondata di confische di proporzioni mai viste dall’inizio delle riforme democratiche. Ovvero, nuove leggi e l’istituzione di un mercato legale della terra (soprattutto sulle colline e montagne) al posto di un’implementazione di investimenti locali e stranieri nella terra stessa. Esistono forti preoccupazioni che tali cambiamenti compromettano la sostenibilità e la sicurezza alimentare di una gran parte della popolazione, che dipende dalle coltivazioni e dalle foreste per il suo sostentamento. Perciò, sta crescendo la resistenza locale. Solamente la rete multietnica Lioh (Land in our hands), fondata nel 2014, raggruppa oltre 60 organizzazioni di contadini”.
Phil Robertson, vice-direttore della divisione Asia di Human rights watch
“Contadini e attivisti per la terra vengono messi in un angolo da un’alleanza di aziende corrotte, funzionari provinciali e comunali, poliziotti che stanno impunemente sequestrando terre di valore. O tornano a lottare, o perdono tutto. E quando si battono, vengono incriminati. Contadini con poche disponibilità economiche e senza influenza politica sono maltrattati, intimiditi e imprigionati per ordine di una élite di interessi con i giusti contatti in loco. Sono cacciati dalle terre in cui hanno vissuto per generazioni e incriminati se cercano di rientravi. Se manifestano davanti a un ufficio governativo, sono accusati di aver organizzato un’assemblea pubblica illegale. Se parlano o commentano online, diventano diffamatori per l’articolo 66(d) della legge sulle telecomunicazioni. In qualsiasi modo cerchino di opporsi, li aspetta un viaggio verso il carcere”.
“Contadini sotto tiro e l’impotenza del partito di Aung San Suu Kyi”
“Quando ho parlato con il, primo ministro dello stato Karen, designato dalla National democracy league (Ndl), mi disse che se in un caso di land grabbing era coinvolto l’esercito, non poteva fare assolutamente nulla. Fu un’esplicita confessione sui limiti del suo potere e sull’impunità di cui godono i militari, nonostante la restaurazione della democrazia e la vittoria di Aung San Suu Kyi e della Ndl al voto del novembre 2015. Le aziende straniere non dovrebbero beneficiare delle confische. Le ambasciate straniere nell’ex Birmania hanno il compito di monitorare le loro attività e di condannarle pubblicamente qualora siano coinvolte nel furto di terre. Le stesse aziende devono darsi un regolamento interno, ma senza la pressione dei loro governi è davvero improbabile che le aziende si impegnino contro il land grabbing”.
Cecilia Brighi, fondatrice di Italia-Birmania, ex coordinatrice Cisl per l’Asia e autrice di vari libri sul Paese asiatico
“In passato ci sono state molte aziende italiane che hanno lavorato in Birmania anche in violazione di leggi e diritti internazionali. Ho seguito la questione delle sanzioni alla Birmania dal 1996. Nel 2000 l’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo, International labour organization), all’interno della quale lavoravo come rappresentante Cisl, ha approvato una risoluzione che chiedeva ai governi, alle imprese e alle istituzioni internazionali di non fare affari con la giunta militare birmana perché usava il lavoro forzato. Abbiamo, quindi, avviato un monitoraggio semestrale per controllare che venisse rispettata. Le istituzioni internazionali si sono attenute alla risoluzione, eccetto per il Green Economy Basin, che si occupava di trasporti e comunicazione.
“La mia lotta contro il lavoro forzato e il ruolo degli italiani”
Poi nel 2008, dopo la Rivoluzione Zafferano, la Commissione Europea rafforzò le sanzioni economiche vietando la collaborazione con tutti i settori produttivi birmani tranne quello del gas e del petrolio, per il quale la Total aveva sempre fatto grandi pressioni di lobby in Commissione UE. Fu allora, che grazie ad amici che lavoravano alle dogane, pubblicammo per tre anni la lista delle imprese che violavano il regolamento europeo. Molte appartenevano al settore del legno, visto che la Birmania è uno dei più grandi produttori di tek di alta qualità, e delle pietre preziose. E c’erano anche marchi italiani, come Bulgari, Coin e Danieli. Nonostante le sanzioni, Danieli è stata sempre presente lì con i suoi impianti siderurgici e la produzione di attrezzature militari”.
“Con la transizione democratica e la cancellazione delle sanzioni di Stati Uniti e Unione Europea, è cominciato un nuovo corso. Fra gli italiani non si ha notizia di violazioni. Eni ha vinto alcuni lotti sia nell’area della Regione di Magwe che nel mare delle Andamane. Il nuovo governo sta cercando di restituire le terre, espropriate durante la dittatura. In Birmania molti contadini, ora senza terra, non hanno mai avuto il certificato di possesso. E’ molto difficile dimostrare che sono state vittima di confische, anche se all’Ilo noi abbiamo sempre denunciato questo fenomeno all’interno della problematica del lavoro forzato. Nel settore dell’agricoltura, vi sono alcuni piccoli imprenditori italiani trapiantati in Birmania che producono ortaggi biologici in vendita nei supermercati di Yangon, ma non vi sono importazioni ad oggi di prodotti agricoli. In realtà, nessuna grande azienda si arrischia a investire in un Paese ancora instabile, tanto più che non vi sono rapporti con le banche italiane. Non c’è alcuna garanzia sovrana e se alcuni gruppi sperano di lavorare nelle gare per la costruzione di grandi infrastrutture e di real estate, scoprono settori altamente sensibili.
Le gare sono opache e molto costose. Nel settore turistico vi sono alcune agenzie italiane e miste che operano lì da alcuni anni, come Opera travel. L’Italia è molto in ritardo e la gran fetta degli affari è in mano ai cinesi e ai giapponesi, il cui governo sta investendo miliardi di dollari nel settore delle infrastrutture, delle reti e dello sviluppo urbano. Ora tutti hanno cambiato casacca, ma con risultati discutibili, soprattutto quando le imprese sono di proprietà cinese. Si ricordi il caso di Century tex., che lavorava per H&M e non ha pagato per 15 mesi, dal dicembre 2015, il salario minimo e gli straordinari a molti lavoratori”.
Con il land grabbing ci si gioca la democrazia, le conclusioni
Attraverso queste quattro testimonianze, si scopre che in Myanmar il land grabbing esiste dall’indipendenza e in modo sistematico da quando era oppresso dalla dittatura militare (1962-2012), ma che una nuova ondata è cominciata con la transizione verso la democrazia e l’economia globalizzata. Il land grabbing è la spia di quanto sia complessa e difficile la trasformazione dell’ex Birmania in un luogo dove vengano rispettati i diritti fondamentali, civili e ambientali. Aung San Suu Kyi e il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, appaiono “con le mani legate”. I militari terrebbero stretto il potere sui vari stati della federazione. I contadini sono i nuovi prigionieri politici. Al tempo stesso, nelle nuove zone industriali, si chiede di essere “responsabili” ad ambasciate e aziende straniere appena entrate nel paese asiatico. È necessario un continuo monitoraggio contro lo sfruttamento e il lavoro minorile. Il processo di pacificazione, laddove esistono oltre 130 etnie, fra esercito nazionale e guerriglie separatiste, deve spegnere alcuni focolai e occuparsi del disarmo. E i rohingya senza terra e senza patria sono solo l’ultimo capitolo di questa lunga e drammatica storia.
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