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Le sfide della Uni Iso 26000 e il ruolo del Responsabile Csr
Le linee guida della norma Uni Iso 26000 sono sempre più utilizzate dalle imprese italiane e multinazionali per integrare la responsabilità sociale d’impresa (CSR) nelle strategie e nelle operazioni; la sua attuazione viene affidata alla figura professionale del Responsabile Csr. Dallo studio sull’implementazione in Italia della norma, che Uni e Fondazione Sodalitas hanno realizzato insieme
Le linee guida della norma Uni Iso 26000 sono sempre più utilizzate dalle imprese italiane e multinazionali per integrare la responsabilità sociale d’impresa (CSR) nelle strategie e nelle operazioni; la sua attuazione viene affidata alla figura professionale del Responsabile Csr.
Dallo studio sull’implementazione in Italia della norma, che Uni e Fondazione Sodalitas hanno realizzato insieme presentandolo nel corso dell’evento Misurare per migliorare. UNI ISO 26000, è emerso che condizioni di lavoro e ambiente sono i due ambiti di impegno prioritario. I risultati della ricerca sono stati approfonditi dai relatori di Bureau Veritas, Certiquality e DNV GL Business Assurance, che ha potuto contare sulle testimonianze di cinque aziende impegnate a seguire proprio le linee guida Uni Iso 26000: Diadora, Gruppo Sostenya, Intesa Sanpaolo, Radici Group e Technip.
Le realtà che hanno preso parte alla rilevazione – 87% imprese, 5% pubbliche amministrazioni, 4% società di ricerca e consulenza – impiegano complessivamente oltre 100mila persone e operano nei settori manifatturiero (48%), bancario (18%), agroalimentare e dei servizi (entrambe al 13%), coprendo nel 48% dei casi, anche contesti europei ed extraeuropei. Le imprese sono in prevalenza grandi (44%) e medie (39%).
Chi segue i principi della Uni Iso 26000 lo fa sia perché considera questa norma un documento di rilevanza internazionale (48%) – “Un valore che dà particolare forza alla funzione CSR nei rapporti con le aree/funzioni meno disponibili ad assecondare le richieste e supportare i progetti di responsabilità sociale” secondo Claudia Brini di Intesa Sanpaolo – sia perché la ritiene uno strumento completo in termini di contenuti e di approccio integrato (39%) e modulabile nella sua implementazione (26%). Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente importante per chi si avvicina al tema della Responsabilità Sociale per la prima volta.
Tra i sette ambiti di responsabilità sociale declinati nella Uni Iso 26000 – governance, diritti umani, rapporti e condizioni di lavoro, ambiente, corrette prassi gestionali, rapporto con i consumatori, coinvolgimento e sviluppo della comunità – le aree di impegno prioritario riguardano i rapporti e le condizioni di lavoro (4,35 in una scala da 1 a 5) e l’ambiente (4,3). Seguono poco distanti la governance e le corrette prassi gestionali (4,2).
La funzione responsabile dell’implementazione della UNI ISO 26000 nell’organizzazione è molto spesso il Responsabile CSR (48%), anche se non di rado questo processo viene seguito direttamente dalla Direzione Generale (30%). Meno frequente l’assegnazione del compito ai Responsabili Qualità/Sicurezza/Ambiente (22%) o ai Responsabili Risorse Umane (17%).
L’applicazione delle linee guida contenute nella norma riguarda e raggiunge, quasi sempre, l’intera organizzazione (78%). Ma è ancora basso il livello di coinvolgimento degli stakeholder esterni: solo il 17% delle organizzazioni include infatti gli stakeholder esterni (clienti, fornitori, la comunità locale e sociale…) nel processo di applicazione della UNI ISO 26000. Se per il 61% del campione l’applicazione della UNI ISO 26000 è utile a condurre un’accurata gap analysis in materia di Responsabilità Sociale, il 50% delle aziende intervistate segnala che la maggiore difficoltà è passare ad un’analisi di materialità che permetta di definire Piani d’azione e obiettivi di miglioramento. Un’ultima area di miglioramento riguarda l’accountability: il 41% delle organizzazioni che applicano la UNI ISO 26000 non comunica le performance di Responsabilità Sociale agli stakeholder esterni.
“Applicare i principi della CSR non significa gestire le organizzazioni in modo filantropico – ha puntualizzato Alessandro Beda di Fondazione Sodalitas – bensì cercare ulteriori elementi di competitività per le imprese riconducibili al concetto di sostenibilità (sociale, ambientale, economica). Solo 4mila organizzazioni italiane hanno fatto una qualche esperienza nel campo: decisamente troppo poche anche solo rispetto a chi opera in regime di qualità o di gestione dell’ambiente”.
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