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La legge Basaglia chiuse i manicomi 45 anni fa. Cos’è cambiato da allora
“Mi no firmo”, diceva Franco Basaglia rifiutando di firmare il registro dei legati al letto in manicomio. Cos’è cambiato dall’introduzione della legge 180, o legge Basaglia.
La malattia mentale non si è mai scrollata di dosso l’uniforme di vergogna e stigma che ci riporta in quei luoghi dove veniva chiusa e isolata, per essere nascosta ‘ai normali’: i manicomi. Una divisa che rappresentava uno scandalo sociale e classificava chi la indossava come ‘matto’. Nonostante i grandi e legittimi passi in avanti, quella con la salute mentale non si può dire sia una questione risolta: parlarne al passato significherebbe rimuovere gli ostacoli moderni, le difficoltà contemporanee, le contraddizioni – e concezioni – che ancora oggi resistono alle leggi e alla cultura. Nel trattare l’argomento va rievocato quello che fu il punto di rottura tra la concezione di ‘malato’ e ‘malattia’: la legge di Riforma, conosciuta come legge n.180/1978 o legge Basaglia.
45 anni fa la legge Basaglia e la chiusura dei manicomi
Entrata in vigore 45 anni fa, il 13 maggio 1978, la legge Basaglia sancì la chiusura dei manicomi, riformando il sistema di cura per il disagio mentale, e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici. Figlia degli anni ’70, periodo ricco di ricerche, dibattiti, e di importanti riforme socio-sanitarie, questa prende forma in un contesto dove la psichiatria aveva ancora un approccio strettamente organicistico: più che curato, il malato veniva preso in custodia, allontanato dalle proprie relazioni personali. Nei manicomi si veniva rinchiusi perché ritenuti pericolosi per sé o per gli altri, perché si dava pubblico scandalo, perché improduttivi, poveri, affetti da dipendenze, perché malati di epilessia. Madri, figlie, sorelle definite “spudorate”, “libertine”, donne che si ribellavano ai dettami del matrimonio o che commettevano adulterio, potevano essere internate.
In Italia la maggior parte dei manicomi venne costruita come alternativa al carcere: edificati ai margini delle città, in periferia, in queste strutture i contatti con l’esterno erano ridotti all’osso, si veniva relegati all’isolamento, alla coercizione e alla contenzione fisica, e si veniva divisi non per solo ‘pericolosità’, ma anche per sesso. Un annullamento fisico e psichico che culminava nelle cure e nei trattamenti: elettroshock, docce gelate, camicie di forza, lobotomie, insulino-terapia e letti di contenzione.
L’approccio rivoluzionario di Franco Basaglia
A mettere l’accento sui metodi e le logiche manicomiali fu Franco Basaglia, che il 16 novembre 1961 arriva a Gorizia come nuovo direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale, dopo un’esperienza come docente all’Università di Padova. Non allineato al clima del periodo, criticato e giudicato rivoluzionario per le sue tesi, la sua fu una ‘punizione’ mascherata da promozione: a Gorizia, a fronte di individui senza più volto, nome e storia, ‘matti’ costretti all’emarginazione e alla cattività, sottoposti alla violenza dell’oblio, Basaglia decise di ‘aprire le porte’. Promuovendo un innovativo metodo di cura e ascolto che sosteneva il rispetto della persona umana, poneva al centro l’individuo e non la malattia, e metteva tra parentesi la diagnosi, restituendo valore e dignità alla storia del singolo, Basaglia dà il via a un cammino rivoluzionario. Lo psichiatra sostiene che gli aspetti sociali siano essenziali per definire la malattia mentale, alla cui origine ci sarebbero delle cause biologiche non ancora conosciute. I pazienti non sono più solo persone da riabilitare, ma soggetti che vivono e abitano la città: la terapia, quindi, deve partire dalla costruzione di un rapporto reale tra medico e paziente, che permetta e favorisca il dialogo e il confronto. Basaglia restituisce ai ‘malati’ le vesti di esseri umani.
Nel dopoguerra si contano decine di migliaia di pazienti internati nei manicomi. Ne ‘I giardini di Abele’ di Sergio Zavoli, un reportage che il giornalista Rai gira nel 1967 a Gorizia, si parla di oltre 100mila persone. In un’intervista Zavoli chiede a Basaglia: “E’ interessato più al malato o alla malattia?”. La replica è secca: “Decisamente al malato”. Ai tempi era ancora in vigore la legge Giolitti, la legge n.36 del 14 febbraio 1904: ‘Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati’. Secondo la normativa, il malato era tale per intrinseche caratteristiche genetiche, biologiche e fisiche, ed era per questo ritenuto pericoloso: il soggetto veniva privato dei diritti civili, e iscritto al casellario giudiziale.
Tra il 1961 e il 1968, Basaglia si circonda di un nutrito gruppo di psichiatri affini alle sue tesi, che si approccia alla malattia mentale con nuovi presupposti: nella struttura gestita dallo psichiatra veneziano, i pazienti vengono lasciati liberi di passeggiare tra il giardino e i diversi edifici, di consumare i pasti all’aperto e di frequentare la società. Un passo verso la riformazione dei manicomi avviene con la legge Mariotti, la n.431 del 18 marzo 1968 che, tra le tante modifiche, consente il ricovero volontario dei pazienti senza la perdita dei diritti civili, finanzia l’ampliamento del budget per il personale medico e psicologico a spese dello Stato e, col fine di rendere più dignitose le condizioni di vita all’interno degli ospedali psichiatrici, fissa un numero massimo di posti letto in ciascuna struttura per tentare di sopperire al sovraffollamento. Non da ultimo, Basaglia costituisce delle cooperative di lavoratori: ciò permette ai pazienti delle strutture non solo di ricevere uno stipendio, ma anche di conquistare una propria indipendenza e una rinnovata dignità. L’insieme di tutte queste posizioni, e dinamiche, porterà nel 1973 alla creazione del movimento ‘Psichiatria democratica’.
Sono diversi i manicomi che seguono l’esempio di Gorizia: in un clima di radicale trasformazione culturale, il lavoro di Basaglia riesce a intercettare l’interesse dell’opinione pubblica, di fotografi, intellettuali e scrittori, ribaltando il concetto di disturbo mentale. La nuova sensibilità che si fa spazio nelle istituzioni culmina con l’approvazione della legge 180, che contraddice le conoscenze scientifiche dell’epoca e rompe il paradigma psichiatrico.
La 180 è legge
Simbolo della lotta etica, sociale, medica e politica di questa riforma, nonché icona del superamento di una forma di contenzione e di considerazione dell’individuo, fu Marco Cavallo, un enorme cavallo azzurro di legno che dal 25 febbraio 1973 “gira il mondo”. In senso più ampio, questa scultura fu il simbolo della libertà di espressione e della riappropriazione dell’indipendenza di tutti i ‘malati’, nascosti e rinchiusi fino a quel momento. Quando Franco Basaglia muore il 29 agosto 1980 per un tumore al cervello, la 180 è legge. Assorbita successivamente dalla legge n.883/1978 che istituisce il Sistema sanitario nazionale, la riforma Basaglia viene limitata: nonostante questo, vengono istituiti dei reparti di psichiatria negli ospedali, centri diurni e ambulatori gestiti da psicologi, psichiatri, assistenti sociali e infermieri, case di supporto e aiuto alle famiglie.
Tuttavia, si accumulano ritardi nella chiusura degli ospedali psichiatrici, così come nell’organizzazione dei servizi territoriali, adibiti per sostituirli. Seguirono critiche, la più aspra quella di aver ‘scaricato’ i pazienti psichiatrici sulle famiglie, ma anche di aver legiferato una norma incompleta e incompiuta. Sulla scia delle disuguaglianze sanitarie che caratterizzano il Sistema sanitario italiano, a 45 anni dalla legge Basaglia la situazione sul territorio nazionale, da nord a sud, appare disomogenea: a fronte di una richiesta d’aiuto crescente, mancano le risorse, il personale, le strutture. La concezione del concetto di ‘cura’. La 180 eliminò dalla normativa sanitaria la parola ‘pericolosità’ che, tuttavia, è un aggettivo che rimane ancora legato al paziente psichiatrico. A calcare la mano sul concetto di ‘folle uguale pericoloso’ sono, e sono stati, i mezzi d’informazione, che tendono ad attribuire alla ‘pazzia’ il movente degli omicidi più efferati o che, ancora, tendono a usare aggettivi che richiamano la malattia mentale, e le psichiatrie, nei racconti di cronaca nera.
A che punto siamo ora
La recente morte della psichiatra Barbara Capovani, avvenuta per mano di uomo affetto da un disturbo mentale, ha riacceso il dibattito a un pugno di giorni dall’anniversario della 180. Oltre alle mancanze strutturali e le carenze note, è necessaria una riflessione sul tema che tocchi l’aspetto culturale della legge: la trasmissione dei saperi. Secondo Vito D’Anza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale di Pescia, in provincia di Pistoia, c’è un “nodo di fondo che si è posto nel momento in cui è stata fatta la riforma”.
Si è passati “da una psichiatria asilare e privata ambulatoriale, a una psichiatria territoriale dei pubblici servizi”. Ciò doveva presupporre una formazione degli operatori completamente nuova. “L’università ha continuato a insegnare come si usano i farmaci e come si fa una diagnosi: ci siamo trovati centinaia di operatori con una formazione esclusivamente medicalizzata, ma la salute mentale non è solo ‘parte sanitaria’, perché il farmaco da solo non è la cura”, la soluzione. E non è “facile decostruire un modello pratico in testa ad un operatore quando arriva in un servizio con quella formazione”, ma la 180 insegna che la salute mentale è ben altro.
Per Peppe Dell’Acqua, psichiatra, collaboratore di Franco Basaglia, ed ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, “sembrerà paradossale, ma la legge è viva e continua a esserlo in tutte le latitudini del nostro Paese”. Per Dell’Acqua, i malati di mente sono “cittadini che non ricevono cioè che di diritto gli spetterebbe, ciò che per legge è stato stabilito. Queste persone, con i mezzi che sono a nostra disposizione – psicologici, sociali, di tipo abitativo o lavorativo – devono poter essere supportati per vivere nella loro condizione di malattia senza pagare un prezzo doppio che nessun altro cittadino vive”, ma non è così. La regressione è iniziata da circa vent’anni, “perché c’è stato un disinvestimento progressivo”. E da un’immagine di normalità ‘larga’, di cura che si estendeva al sociale, a “quello che erano le politiche che in qualche modo dovevano permettere a tutte queste persone di poter vivere adeguatamente la loro vita, si è passati di nuovo a quest’identità ristretta di malati di mente.
È tornata come un’onda la pericolosità, l’incurabilità, l’incomprensibilità: quei pregiudizi che c’erano, e ci sono sempre stati, adesso sono tornati più prepotenti”. Proprio perché la legge Basaglia è considerata un traguardo di civiltà, “la sofferenza psichica è una delle sofferenze di cui il servizio può e deve farsi carico”, afferma Alberta Basaglia, figlia di Franco Basaglia. Lo dimostra Trieste, ma non solo. La 180 fu prima di tutto un fatto politico, poi tecnico: fu una tensione umana, politica e culturale spinta da profonda ideali, che scansò conformismi e burocrazie. Fu ancora prima Franco Basaglia, neoarrivato a Gorizia, che trovandosi di fronte al registro delle contenzioni – un volume in cui venivano scritti i nomi di chi la notte prima era stato legato al letto – dichiara all’ispettore capo del nosocomio Michele Pecorari: “Mi no firmo”.
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