Sui 180 paesi monitorati da Reporter senza frontiere, ben 132 non garantiscono pienamente la libertà di stampa. Una situazione peggiorata nell’ultimo anno.
Anche il giornalismo, “il vaccino contro la disinformazione”, esce gravemente indebolito dall’anno della pandemia. A dirlo è l’edizione 2021 dell’Indice globale della libertà di stampa pubblicato dalla ong francese Reporter senza frontiere (Rsb). Scandagliando la mappa della libertà di stampa, infatti, si nota che in ben 73 paesi la situazione è “molto seria” o “difficile” e in altri 59 risulta “problematica”. A conti fatti, su un totale di 180 paesi monitorati, significa che il 73 per cento limita il diritto dei cittadini a conoscere i fatti e maturare un pensiero critico. In termini percentuali, sono quasi tre su quattro.
L’infodemia mette in bilico la fiducia nei giornalisti
Nel 2020 l’enciclopedia Treccani ha inserito tra i neologismi la parola infodemia, definendola come “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”. Un’epidemia di informazioni, appunto. Sarebbe difficile descrivere in modo più puntuale ciò che è accaduto in questi mesi di emergenza sanitaria, tra indiscrezioni scambiate per certezze e legittimi timori evoluti in teorie complottistiche.
“In risposta alla viralità della disinformazione attraverso le frontiere, nelle piattaforme digitali e nei social media, il giornalismo fornisce il mezzo più efficace per garantire che il dibattito pubblico si basi su una vasta gamma di fatti accertati”, spiega Cristophe Deloire, segretario generale di Reporter senza frontiere. O meglio, così dovrebbero andare le cose. Nella realtà, invece, la pandemia da coronavirus è stata spesso sfruttata per impedire ai giornalisti di accedere alle fonti e indagare sul campo. Mentre ipotesi incontrollate rimbalzano da una bacheca Facebook all’altra e i giornalisti seri sono impossibilitati a fare il loro lavoro, la fiducia da parte dei cittadini crolla. Fra le 33mila persone interpellate dall’Edelman trust barometer in 28 paesi, il 59 per cento crede che i giornalisti diffondano volutamente informazioni false per fuorviare l’opinione pubblica.
La “zona bianca” dalla libertà di stampa non è mai stata così piccola
Nella mappa sono colorati in bianco i paesi che assicurano ai giornalisti condizioni di lavoro ottimali, o perlomeno positive. Questa zona bianca è al suo minimo dal 2013: appena 12 paesi su 180. Rispetto all’anno scorso ne è uscita la Germania, dove di per sé la legge offre solide tutele, ma alcuni giornalisti sono stati aggrediti fisicamente nel corso delle manifestazioni contro le misure di contenimento della Covid-19. A spartirsi il podio dei virtuosi sono Norvegia (prima per il quinto anno consecutivo), Finlandia e Svezia (che nel 2020 aveva ceduto il suo terzo posto alla Danimarca, ora quarta).
Preoccupano Cina, Egitto e Brasile. Violenze in Africa
Bollino nero invece per la Cina, dove sette giornalisti sono ancora detenuti per aver documentato la pandemia e oltre 450 persone sono state arrestate per aver condiviso sui social media “indiscrezioni false”. In tutto, oltre 120 giornalisti sono dietro le sbarre, “spesso in condizioni che minacciano le loro vite”. Anche in Egitto il governo al-Sisi ha vietato la pubblicazione di qualsiasi statistica sulla pandemia che non provenisse dal ministero della Salute. Anche così si spiega il poco invidiabile 166mo posto su una graduatoria di 180.
#RSFIndex: RSF unveils its 2020 World Press Freedom Index: 1: Norway 🇳🇴 2: Finland 🇫🇮 3: Sweden 🇸🇪 13: Germany 🇩🇪 33: United Kingdom 🇬🇧 34: France 🇫🇷 41: Italy🇮🇹 44: United States 🇺🇸 67: Japan 🇯🇵 111: Brazil 🇧🇷 142: India 🇮🇳 146: Algeria 🇩🇿 180: Eritrea 🇪🇷https://t.co/DplP3IsTsupic.twitter.com/a31BxusUwu
Sprofonda in zona rossa il Brasile, soprattutto per un atteggiamento ostile che il report descrive senza troppi giri di parole: “Insultare, denigrare, stigmatizzare e umiliare i giornalisti è diventato il marchio di fabbrica del presidente Bolsonaro”. L’aggressività verbale va di pari passo con quella fisica, soprattutto nelle piccole città in cui i giornalisti provano a fare luce su episodi di corruzione o criminalità organizzata. Il continente più violento nei confronti dei giornalisti resta comunque quello africano, nonostante i passi avanti a cui si è assistito in Burundi, Sierra Leone e Mali.
L’Italia resta in 41ma posizione
L’Italia conferma la sua 41ma posizione restando in zona gialla, il che indica una condizione soddisfacente anche se non ottimale. Nel loro insieme, le restrizioni disposte dal governo Conte – scrive Reporter senza frontiere – non hanno compromesso il lavoro degli organi di informazione. Il report cita però i 20 giornalisti sotto scorta per le minacce da parte della criminalità organizzata, le aggressioni da parte dei gruppi neofascisti, gli attacchi fisici e verbali subìti durante le manifestazioni di piazza.
L’Europa, di per sé, garantisce ai giornalisti un clima di diritti e libertà incomparabile con quello di altre zone del mondo. Ma “le pressioni e le censure stanno aumentando, e con esse i rischi”, ha sottolineato Pavol Szalai, responsabile del distretto della penisola balcanica di Reporter senza frontiere, commentando sulle pagine del Guardian l’assassinio di Georgios Karaivaz. Il cronista, che stava lavorando a un importante caso di pedofilia, è stato freddato il 9 aprile nei pressi della sua casa di Atene, in pieno giorno.
Profilazione razziale, xenofobia nel dibattito politico e omofobia nel report dell’Ecri. Tra le sue richieste c’è quella di rendere indipendente l’Unar.
La “liana delle anime” è un decotto della medicina indigena dell’Amazzonia che può alterare lo stato psichico di chi la assume, e per questo affascina milioni di persone nel mondo.