I giudici italiani hanno ribadito che la Libia non è un porto sicuro
Un barcone di migranti partito dalla Libia Ⓒ Carlos Gil/Getty Images
La Cassazione ha stabilito che i migranti possono rifiutare il respingimento in Libia mentre la gip di Agrigento ha archiviato le accuse contro Carola Rackete.
Un barcone di migranti partito dalla Libia Ⓒ Carlos Gil/Getty Images
Due sentenze a loro modo rivoluzionarie hanno aperto uno squarcio nella politica italiana dei respingimenti dei migranti e dei porti chiusi.
Carola Rackete ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare.
Riportare i migranti in Libia viola il diritto delle persone soccorse a essere trasferite in un luogo sicuro.
Chiamata a pronunciarsi su un episodio del 2018, la Cassazione ha stabilito che è diritto di chi fugge dall’inferno libico opporsi al suo rimpatrio nel paese una volta intercettato in alto mare. La gip di Agrigento più o meno in contemporanea ha decretato che la comandante Carola Rackete non ha violato la legge nazionale e internazionale del mare nel caso dell’episodio di salvataggio del 2019, che si concluse con la collisione in porto con una motovedetta della Guardia di Finanza.
Sono due sentenze a loro modo rivoluzionarie quelle con cui i giudici italiani hanno aperto uno squarcio nella politica italiana dei respingimenti dei migranti e dei porti chiusi. Sconfessando una lunga stagione di accuse e strumentalizzazioni portate avanti da un pezzo di politica italiana, quella di matrice sovranista.
Carola Rackete è innocente
Il 29 giugno 2019 la comandante della Sea Watch 3, nave non governativa impegnata nel pattugliamento del mar Mediterraneo e nel salvataggio dei migranti, venne arrestata. L’accusa era che nonostante i divieti del governo italiano a entrare nelle proprie acque territoriali per sbarcare alcune decine di persone salvate nel Canale di Sicilia, Carola Rackete aveva forzato il blocco entrando nel porto di Lampedusa, dove c’era stata anche una lieve collisione con una motovedetta della Guardia di Finanza.
“Pirata, criminale, sbruffoncella”, fu il modo in cui l’allora ministro degli Interni, Matteo Salvini, definì la comandante della Sea Watch 3. Epiteti che gli costarono anche una denuncia per diffamazione presso la Procura di Roma ma che non placarono l’accanimento del leader leghista contro Rackete, proseguito fino ai giorni nostri. Quando però la gip di Agrigento ha deciso una volta per tutte che la comandante non può essere ritenuta colpevole riguardo al famoso episodio del 2019.
“Carola Rackete ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare”, scrive la giudice Micaela Raimondo a proposito della sua decisione di entrare nelle acque territoriali italiane per sbarcare una cinquantina di migranti nonostante il blocco dello stato italiano. Una sentenza che si somma a quella della primavera, quando sempre dal tribunale siciliano si era stabilito che anche nelle fasi concitate del porto di Lampedusa non vi era stata alcuna violazione del diritto nazionale, decretando così l’archiviazione delle accuse contro la comandante di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra.
Il diritto di opporsi al respingimento
Il 10 luglio 2018 una sessantina di migranti vennero messi in salvo nel mar Mediterraneo dal mercantile Vos Thalassa. Erano sempre gli anni di Matteo Salvini a capo del ministero dell’Interno, quelli in cui l’accesso ai porti italiani per le navi con a carico migranti era molto difficile se non impossibile. E anche in quell’occasione il Viminale vietò l’ingresso della nave in acque territoriali italiane, ordinandole di riportare le persone soccorse in Libia.
Prima di concedere qualsiasi autorizzazione, attendo di sapere nomi, cognomi e nazionalità dei violenti dirottatori, che dovranno scendere dalla nave #Diciotti in manette. pic.twitter.com/rfiL8Nav7t
Ci furono ore di tensione e una sorta di rivolta in mare aperto, con un gruppo di migranti che protestò contro la prosecuzione della navigazione affinché il mercantile non tornasse lì da dove erano scappati. Due di queste persone sono finite a processo con diversi capi d’accusa, tra cui favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e resistenza a pubblico ufficiale. Questo mentre il ministro Salvini li definiva “dirottatori” e “sabotatori”. Una visione confermata dalla Corte d’appello di Palermo, che nel 2020 li ha condannati a tre anni e sei mesi di reclusione e 52mila euro di multa. Ma che ora è stata ribaltata dalla Corte di Cassazione.
I giudici hanno riconosciuto che alcune norme relative ai diritti umani non ricadono nel diritto nazionale ma in quello internazionale, e tra queste c’è il diritto al non respingimento per le persone che in caso contrario vedrebbero a rischio la propria incolumità fisica e psichica. Non è insomma l’Italia a decidere se un migrante può tornare in un paese, ma decisivi in questo senso sono la storia della persona e quella del paese stesso di rimpatrio. Se il respingimento può causare dei rischi per la persona, la sua opposizione al respingimento rientra nella legittima difesa, secondo i giudici.
La Libia non è un porto sicuro
Il giudice che ha archiviato le accuse contro Carola Rackete scrive che “non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli”, definendo la Libia un luogo dove “migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti versano in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture”. Un riconoscimento giudiziario che il paese non è un porto sicuro, come da anni sottolineano le organizzazioni non governative impegnate in mare e fior fior di rapporti internazionali, redatti anche dalle Nazioni Unite.
I giudici della Corte di Cassazione hanno detto più o meno lo stesso nel caso dei due migranti che nel 2018 si erano opposti al rimpatrio, facendo esplicitamente riferimento alle problematicità dello stato libico per l’incolumità dei migranti. “Le operazioni di soccorso in mare che si concludano con il rimpatrio dei naufraghi in Libia violano il diritto delle persone soccorse ad essere portate in un posto sicuro dove la loro vita non sia più minacciata e sia garantito il rispetto dei loro diritti fondamentali”, hanno commentato gli avvocati difensori a margine della sentenza.
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Tanto nel caso Rackete che in quest’ultimo, insomma, i giudici hanno stabilito un principio molto importante, e cioè che la Libia non può essere considerata un porto sicuro e che la messa in salvo dei migranti sul territorio italiano anche in mancanza di un assenso di quest’ultimo non è da considerarsi un reato. Una regola che sconfessa diversi anni di comunicazione e politiche di stampo sovranista tenute in Italia e ricorda che la solidarietà non può essere messa sotto processo, dal momento che c’è il diritto internazionale a tutelarla, qualunque sia l’approccio degli stati nazionali in materia.
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