Si parla di vintage se un capo ha più di 20 anni, è definibile second hand invece è qualsiasi oggetto abbia già avuto un precedente proprietario.
L’incompatibilità tra ambiente e fast fashion
Che la fast fashion inquinasse, si sapeva. Ora giungono dati ancor più precisi (e inquietanti) su catena di approvvigionamento e abitudini dei consumatori.
È ora di guardare in faccia la realtà: il costo ambientale di quella che viene definita fast fashion non è più sostenibile. Non lo è da anni, eppure l’industria della moda continua inesorabilmente a crescere. Incurante dell’impatto ambientale e sociale che ha in tutto il mondo, è responsabile del 10 per cento dell’inquinamento globale, aggiudicandosi il secondo posto come settore più inquinante al mondo, dopo quello petrolifero. È ora dunque di ripensare il modello che vi sta alle spalle. E una moda più lenta – e consapevole – sembra essere il futuro.
È necessario rallentare i ritmi di produzione, garantire una maggiore qualità dei prodotti, che di conseguenza possono avere un ciclo di vita più lungo, investire in pratiche più sostenibili, ridurre gli sprechi e iniziare a pensare alla sostenibilità come a un’assoluta priorità. Ma, si sa, da sempre è la domanda a trainare l’offerta, dunque è fondamentale che anche i consumatori cambino approccio nei confronti degli acquisti, privilegiando capi magari più costosi ma sicuramente più duraturi.
L’impatto ambientale dell’industria moda
Una nuova ricerca pubblicata su Nature reviews Earth and environment esamina l’impatto ambientale di ogni passaggio della catena di approvvigionamento dell’industria tessile, dalla produzione al consumo, concentrandosi nello specifico sull’uso dell’acqua, sull’inquinamento chimico, sulle emissioni di carbonio e sui rifiuti tessili.
I dati sono sconcertanti: ogni anno vengono consumati 1.500 miliardi di litri d’acqua, la lavorazione e la tintura dei tessuti sono responsabili di circa il 20 per cento dell’inquinamento idrico industriale, circa il 35 per cento (cioè 190mila tonnellate all’anno) delle microplastiche che popolano gli oceani è attribuibile ai lavaggi dei capi in fibre sintetiche e i rifiuti tessili superano i 92 milioni di tonnellate ogni anno. Rifiuti che non sono solamente prodotti giunti al termine del loro ciclo di vita, ma comprendono anche l’invenduto dei marchi di abbigliamento che devono fare posto alle nuove collezioni. Ebbene, tali scarti, per essere smaltiti, molto spesso vengono bruciati o mandati nelle discariche.
Ma questi dati, da soli, rappresentano una parziale fotografia del quadro attuale, che si completa analizzando le abitudini di acquisto dei consumatori. È innegabile che negli anni ci sia stato un sostanziale incremento degli acquisti di abiti, cui risponde un aumento della produzione tessile, che è passata da 5,9 a 13 chilogrammi pro capite all’anno nel periodo 1975-2018. Allo stesso modo, il consumo globale è salito a circa 62 milioni di tonnellate di prodotti tessili all’anno e si prevede che raggiungerà i 102 milioni di tonnellate entro il 2030. Ecco perché oggi i marchi di moda producono quasi il doppio della quantità di abbigliamento rispetto a prima del 2000, quando è cominciato il fenomeno della fast fashion.
La filiera dell’industria della moda
Una delle principali cause dell’inquinamento dell’industria della moda è data dalla dispersione globale dei processi che caratterizzano la catena di approvvigionamento. La produzione e la manifattura si sono notoriamente spostate verso aree in cui la manodopera ha un basso costo, contribuendo a un sostanziale declino, se non all’estinzione, della produzione in molti paesi sviluppati. Aumenta dunque la complessità e si riduce la trasparenza: spesso è difficile per i produttori a valle sapere da dove provengano le materie prime e come siano state lavorate. Spesso ogni processo della filiera avviene in luoghi diversi.
Il fattore chiave? La convenienza economica. Se la produzione avviene principalmente nel sud del mondo, del design si occupa il nord – Europa e Stati Uniti in primis –, dove si trovano gli uffici principali dei marchi. E a questo primo nodo logistico si aggiungono gli sprechi pre consumo dovuti a errori durante la pianificazione. Ma non è finita: dopo la produzione, i capi vengono spediti in grandi quantità ai centri di distribuzione al dettaglio e, in un secondo momento, ai rivenditori più piccoli, spesso nel Regno Unito, in Europa e negli Stati Uniti. Il trasporto tradizionalmente avveniva con navi container, ma sempre più spesso la merce viene spedita con aerei cargo, che permettono di risparmiare tempo soprattutto negli acquisti online, ma che hanno un impatto ambientale notevolmente maggiore. Vien da sé dunque che più la filiera è lunga, più probabilità ci sono che i capi si muovano da un paese all’altro nel processo di lavorazione, generando ulteriori emissioni di gas serra.
Il modello di business della moda veloce
Abiti nuovi e freschi, prezzi bassi, capi accessibili e alla moda. Il modello di business della fast fashion gioca attorno ad acquisti ricorrenti e, molto spesso, di impulso, facendo leva sulla sensazione di urgenza che accompagna l’acquisto. Il suo successo è noto a tutti ed è ampiamente dimostrato dalla sua crescita sostenuta, dalle performance eccezionali dei venditori al dettaglio e dall’ingresso nel mercato di nuovi attori, come i rivenditori online. Così, all’aumento della produzione, la cui domanda si stima cresca del 2 per cento annuo, corrisponde una diminuzione della qualità dei prodotti e dei prezzi.
Sembrerà paradossale ma, nonostante sia aumentato il numero dei capi posseduti, è diminuita la spesa media per persona in abbigliamento e calzature in Europa e nel Regno Unito: dal 30 per cento degli anni Cinquanta a circa il 12 per cento del 2009, per raggiungere il picco al ribasso del 5 per cento nel 2020. Ma i costi bassi facilitano gli acquisti, alimentando un circolo vizioso che sta a cuore a chi chiude i bilanci d’azienda. Negli Stati Uniti, il consumatore medio oggi acquista un indumento ogni 5,5 giorni e in Europa è stato osservato un aumento del 40 per cento negli acquisti di abbigliamento nel periodo 1996-2012. E anche se si compra di più, si usa di meno: il numero di volte in cui un capo viene utilizzato è diminuito del 36 per cento rispetto al 2005. Ecco perché, se questo è il trend, l’industria della moda rappresenta una minaccia ambientale che va presa seriamente in considerazione.
Una moda più green
“La moda lenta è il futuro, ma abbiamo bisogno di comprendere a livello di sistema come passare a questo modello, che richiede creatività e collaborazione tra designer e produttori, stakeholder e consumatori finali”. A parlare è Kirsi Niinimäki, co-autrice della ricerca e professore associato alla Aalto university, che non ha dubbi su quale possa essere una possibile soluzione per una moda più green. Bisogna cercare di invertire una tendenza che si è ormai radicata tanto nei consumatori quanto nei produttori. E cioè la convinzione di avere a disposizione risorse illimitate, che va di pari passo con consumi sconsiderati, un’eccessiva produzione di rifiuti e, in generale, con pratiche poco sostenibili. Non è così, bisogna rallentare e prevedere una contrazione economica pianificata associata a una diminuzione dei volumi di produzione a livello globale.
“Il passaggio dalla fast fashion alla slow fashion richiede un rallentamento dei volumi di produzione – spiega la Dottoressa Patsy Perry della University of Manchester che ha contribuito alla ricerca –, l’introduzione di pratiche sostenibili lungo tutta la catena di approvvigionamento e un diverso approccio dei consumatori nei confronti degli acquisti: è necessario ridurre la quantità di nuovi capi e aumentarne la durata. Questi cambiamenti sistemici potrebbero migliorare la sostenibilità a lungo termine di tutta la filiera dell’industria della moda”. È una sfida complessa, se si pensa soprattutto che una decrescita della produzione in alcuni paesi in via di sviluppo potrebbe portare a problemi sociali ed economici. In più è un cambiamento che colpisce al cuore la cultura del consumismo. Che è esattamente ciò che va debellato.
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