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Biodiversità, cosa ci dice l’aggiornamento della Lista rossa dell’Iucn sulle specie marine
La biodiversità marina è quella più minacciata dalle attività umane. Lo svela il recente aggiornamento della Lista rossa di Iucn a Montreal.
- È stata aggiornata la Lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn).
- Il riflettore è puntato sulle specie marine.
- Abalone, dugongo e corallo pilastro tra gli organismi più in pericolo.
Dopo l’ultimo aggiornamento della Lista rossa delle specie minacciate, presentato nel corso del Congresso mondiale tenutosi a Marsiglia nel settembre del 2021, alla Cop15 di Montreal l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), torna a far sentire la sua voce. E non ci sono buone notizie. La Lista rossa, ossia la fonte di informazioni più completa al mondo sullo stato e il rischio di estinzione delle specie animali, fungine e vegetali, comprende ora 150.388 specie, di cui ben 42.108 sono a rischio di estinzione.
Nella Lista rossa il grido d’allarme di mari e oceani
All’interno di quello che possiamo considerare un vero e proprio barometro della biodiversità, a preoccupare maggiormente sono gli organismi marini: più di 1.550 delle 17.903 piante e animali che vivono nelle acque salate del Pianeta sono infatti a rischio di estinzione. Gli impatti sono tutti riconducibili alle attività umane: a partire dai cambiamenti climatici che hanno conseguenze negative su almeno il 41 per cento delle specie marine considerate, proseguendo con l’inquinamento e il sovrasfruttamento. Considerati dei pozzi senza fondo dai quali attingere e nei quali sversare ogni sostanza inquinante – dai prodotti chimici ai rifiuti di plastica – gli oceani sono sempre più il teatro di una corsa all’accaparramento dell’ultima risorsa disponibile.
A contribuire sono l’industrializzazione del settore ittico e la crescente complessità della filiera agroalimentare. Tra il 1950 e la fine del ventesimo secolo, infatti, la quantità di pescato annuale è aumentato di circa sei volte e vede primeggiare per catture in alto mare paesi come Cina, Indonesia, Perù, India, Russia, Stati Uniti e Vietnam, che contano per il 50 per cento del totale (che, a sua volta, nel 2018 è stato di 84,4 milioni di tonnellate). Il paradosso è che il 25 per cento del pescato globale è utilizzato per quella che viene chiamata “produzione di pesci”, un’espressione che racchiude in sé l’incapacità tutta umana di accordare alle specie diverse dalla propria il diritto a un’esistenza autonoma.
Nel 2018 il settore dell’acquacoltura ha prodotto 114,5 milioni di tonnellate di pesci d’acqua dolce o salata, crostacei e molluschi, con un valore economico di 263,6 miliardi di dollari. Oltre a quelli associati direttamente all’industria alimentare, moltissimi altri animali rientrano in quella che viene chiamata “bycatch”, ossia la pesca accidentale che, ogni anno, è responsabile della cattura di 300mila albatros appartenenti a 17 specie diverse, di 250mila tartarughe marine, di cui la maggior parte sono Caretta caretta e le tartarughe liuto (gravemente minacciate), e 300mila tra delfini e balene. Senza contare il traffico marittimo che, dal 1992 ad oggi è aumentato di oltre il 300 per cento e, secondo una ricerca condotta da Friends of the sea, è responsabile della morte di almeno ventimila cetacei all’anno che entrano in collisione con mercantili, navi da crociera e pescherecci.
Dugongo, abalone e corallo pilastro: a un passo dall’estinzione secondo la Lista rossa
Tra le specie su cui punta i riflettori Iucn nella lista presentata a Montreal, ci sono anche i dugonghi, conosciuti come mucche di mare per le loro abitudini alimentari. Con un areale di distribuzione che comprende circa 37 nazioni tra l’Oceano indiano e l’estremità occidentale del Pacifico, nel settembre del 2022 questo mammifero marino è già stato valutato come funzionalmente estinto in Cina a causa della caccia spietata che l’ha perseguitato per secoli, della distruzione del suo habitat e della scomparsa della sua principale fonte alimentare: le praterie di fanerogame. Queste ultime, infatti, stanno lentamente scomparendo a causa delle attività di esplorazione ed estrazione di gas e petrolio in Mozambico, e di inquinamento da nichel nel Pacifico.
A rischiare l’estinzione è anche l’abalone, un mollusco gasteropode che ha un grande valore non solo economico ma anche culturale in moltissimi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove è considerato una specie iconica delle coste californiane. Considerato come un alimento di lusso, l’abalone è venduto a prezzi da capogiro in tutto il mondo tanto che, oggi, ben 20 delle 54 specie esistenti sono a rischio di estinzione. Tuttavia, a minacciarlo non sono solo la pesca intensiva e il bracconaggio ma anche i cambiamenti climatici e l’inquinamento. Nel 2011, infatti, in Western Australia le ondate di calore hanno causato la morte di ben il 99 per cento degli individui di abalone rosso (H. roei), oltre ad aver contribuito alla diffusione di malattie che hanno colpito duramente l’abalone nero (H. cracherodii) – una volta diffuso in California e Messico e ora considerato a rischio critico di estinzione – e quello verde (H. tuberculata), classificato come vulnerabile e presente nelle acque del canale d’Inghilterra, nel Mediterraneo e in Africa nordorientale.
A rischio critico di estinzione anche 26 specie di corallo che vivono nell’Oceano Atlantico, tra cui Dendrogyra cylindrus, dell’ordine delle Sclerattinie, coralli duri la cui popolazione è diminuita dell’ottanta per cento nella maggior parte del suo areale di distribuzione in soli trent’anni. Le cause sono da collegare ai cambiamenti climatici di origine antropica e, in particolare, al noto fenomeno dello sbiancamento e alla diffusione di patologie. Nel 2017, un gruppo di ricerca della James Cook University ha considerato il tasso di sbiancamento dei coralli in cento barriere situate in 54 Paesi diversi. I siti più colpiti sono risultati quelli dell’area Indopacifica, dal Madagascar alle Hawaii, passando per Maldive, Malesia, Indonesia e Australia.
A preoccupare i ricercatori è la velocità con cui questi eventi si ripetono nel tempo, essendo passati da intervalli di 25-30 negli anni Ottanta a un evento ogni sei anni a partire dagli anni 2000. Questi luoghi ospitano più specie per unità di superficie di qualsiasi altro ambiente marino, per un totale stimato di più di 830mila specie di pesci. Senza contare il loro valore economico visto che gli ecosistemi corallini forniscono servizi per un totale di 375 miliardi di dollari l’anno da cui dipendono, a livello globale, 500 milioni di persone. Uno studio recente evidenzia che se i coralli dovessero scomparire dal Pianeta, la ricchezza ittica in tutto il mondo sarebbe circa la metà di quella attuale, con effetti devastanti per chiunque ma tanto più gravi per i Paesi non industrializzati, dove le barriere contribuiscono a fornire circa un quarto del pescato e costituiscono la fonte principale di proteine per un miliardo di persone nel solo continente asiatico.
L’allarme suona ed è tempo che l’umanità risponda
Per molte persone che vivono in ambienti fortemente antropizzati e lontani dai naturali meccanismi della natura, l’idea che tutto ciò che abbiamo attorno a noi sia, o dipenda, dalla biodiversità, può apparire bizzarra. Questo è ancora più vero per mari e oceani, luoghi misteriosi e considerati distanti dalla nostra vita terrestre. Eppure, ben il 99 per cento della biosfera si trova sott’acqua. All’oceano dobbiamo un respiro su due di quelli che facciamo e questo enorme tampone naturale, insieme alle migliaia – probabilmente milioni – di specie che lo abitano ci aiutano a difenderci dai cambiamenti climatici. Ecco perché la Lista rossa aggiornata a Montreal deve essere un campanello d’allarme per tutti noi. La speranza è che, contrariamente a quello che si fa con la sveglia della mattina, saremo capaci di scendere dal piedistallo e agire al più presto.
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