Un viaggio alla scoperta dell’Amazzonia. Un’avventura costellata di incontri con chi vive, studia e protegge il polmone verde del nostro pianeta.
Francesco Magistrali è piacentino, ma il Sudamerica ce l’ha nel cuore. Ha 45 anni, è un esploratore ed esperto di sopravvivenza e, appena ne ha l’occasione, parte. Il suo approccio, che lui chiama Beyond Exploration, è quello degli avventurieri del passato: tecnologia ridotta al minimo, lunghi tragitti senza mezzi motorizzati, un contatto intenso e senza mediazioni con la natura e con le comunità locali.
La sua ultima spedizione, però, non è andata come sperava. A novembre 2019 era atterrato a Santiago, pronto ad attraversare Cile, Argentina e Uruguay in solitario. Un totale di tremila chilometri da percorrere a piedi nell’arco di sei mesi; non a caso, aveva ribattezzato la sua spedizione Walking South America. Sappiamo tutti, però, cosa è successo a febbraio 2020. Quando la Covid-19 è arrivata anche in America Latina, Francesco è rimasto bloccato per due mesi in una cittadina dell’Uruguay. Impossibile sapere quando sarebbe stato riaperto il confine con l’Argentina. Così, appena i voli internazionali sono tornati parzialmente a regime, non ha avuto altra scelta se non quella di tornare a casa, in Italia.
Custodi del sapere è un documentario realizzato da Francesco Magistrali, insieme al fotografo e filmmaker Marco Giometti, nella terra della tribù dei Saterè Mawè, nell’Amazzonia brasiliana.
Custodi del sapere
A due anni di distanza, Francesco è ripartito per una nuova sfida. L’orizzonte è sempre quello che ha imparato a conoscere e amare, l’America Latina. È cambiata però la destinazione: stavolta è il turno della foresta amazzonica brasiliana, il polmone verde del Pianeta. Un ecosistema imponente e misterioso che in questi ultimi anni appare più fragile che mai, indebolito dalla siccità, ferito dagli incendi e deturpato dalla deforestazione illegale. L’idea è quella di raggiungere lo stato di Amazonas, la cui capitale è Manaus, per poi navigare alcuni tratti del Rio Negro in kayak, effettuare rilievi scientifici per il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ed essere tra i primi stranieri a incontrare i popoli indigeni del luogo dopo lo scoppio della pandemia, grazie alla preziosa mediazione delle ong. Un viaggio reso possibile anche dai partner Cressi, Europ assistance, Studio Cammi, Comeser, Sara Ponzini Private Banker Fideuram (Piacenza) e Nikon (partner tecnico).
La sua Amazon Expedition 2022 è diversa da altre avventure vissute in passato anche perché, stavolta, Francesco ha con sé dei compagni di viaggio. Ad avvicendarsi tra febbraio e marzo 2022 sono Igor D’India, videomaker outdoor già autore di documentari in quattro Continenti; Luca Meola, fotografo che in Brasile è di casa; e infine Giovanni Sgorbati, musicista e operatore video per passione. Una squadra che vive quest’esperienza insieme a lui e lo aiuta a documentarla passo dopo passo.
Il Rio Negro nasce in Colombia, dove è chiamato Guainía, e attraversa la foresta amazzonica per circa duemila chilometri fino a sfociare nel più celebre Rio delle Amazzoni, proprio nei pressi di Manaus. Come si intuisce dal nome, le sue acqua sono scure; non a causa dell’inquinamento, ma semplicemente della decomposizione della materia vegetale che viene trasportata dalla corrente.
Con la sua portata d’acqua di 28mila metri cubi al secondo, il Rio Negro è un fiume imponente, placido ma non privo di insidie. Francesco e Igor, che lo accompagna in questa prima parte della spedizione armato di camera e GoPro, ne percorrono circa 150 km. In parte pagaiando a bordo del sup e del kayak testati sul campo per Cressi, entrambi gonfiabili; in parte, quando le condizioni lo impongono, a bordo dei barconi. Gli iconici delfini rosa (Inia geoffrensis) li accompagnano per giornate intere, mentre sopra le loro teste volano pappagalli e tucani e ogni tanto, in lontananza, si intravede qualche caimano.
Descritto così, il Rio Negro sembra un paradiso incontaminato. E se le microplastiche fossero arrivate anche lì, dopo aver raggiunto le cime delle Alpi e i ghiacci dell’Artico? Dare una risposta a questa domanda è il compito che il Cnr ha assegnato a Francesco. “Da tempo le varie Arpa (Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente) eseguono campionamenti delle acque superficiali attraverso le mante, grandi reti con una maglia di 333 micron che vengono trainate dalle imbarcazioni a motore, ad almeno un miglio di distanza dalla costa”, spiega a LifeGate Marco Faimali, direttore dell’Istituto per lo studio degli impatti antropici e sostenibilità in ambiente marino del Cnr (Cnr-Ias). “Filtrando l’acqua per un tempo determinato, si fa una stima della densità di microplastiche presenti in un determinato transetto (cioè un tratto di mare), misurato in numero di item per metro cubo. Poi, con la spettrometria Ftir, si capisce qual è il polimero di origine”.
“Il viaggio di Francesco ci è sembrata una bella opportunità per sperimentare una nuova metodologia: la mini-manta”, continua Faimali. Cioè uno strumento che replica su piccola scala le caratteristiche della manta e che può essere trainato dalla canoa, oppure posizionato su un albero lasciando che sia la corrente a trasportare l’acqua. Un progetto di citizen science, quindi, che si caratterizza per un forte rigore metodologico. “La citizen science è una bellissima opportunità. Quando una persona non addetta ai lavori raccoglie un campione, e le analisi al microscopio rilevano i livelli di inquinamento, l’impatto può essere scioccante. Prima della pandemia, per esempio, abbiamo circumnavigato la penisola italiana con Greenpeace e abbiamo riscontrato notevoli livelli di microplastiche nell’area marina protetta di Portofino, simili a quelli delle zone industriali. Scoprirlo da soli, con le proprie forze, può essere un forte sprone per cambiare i propri comportamenti”.
“È vero anche però che spesso la citizen science viene lasciata un po’ all’improvvisazione”, sottolinea Marco Faimali. Per evitare che le imprecisioni involontarie compromettano la qualità dei dati, il Cnr ha investito tempo, energie e competenze su questo strumento. I ricercatori hanno sviluppato una metodologia solida, hanno validato i dati ottenuti con le mini-mante e hanno messo nero su bianco un protocollo che spiega per filo e per segno non soltanto come raccogliere il campione, ma anche come prepararlo evitando contaminazioni. “L’esperienza di Francesco si innesta in questa fase di validazione perché ci sembrava interessante vederlo in azione in acqua dolce”, conclude. “Questa potrebbe essere una nuova linea di ricerca dedicata alla citizen science, caratterizzata da una grande attenzione alla qualità del dato”. E chissà, magari tra non molto nei fiumi e nei mari italiani ci saranno centinaia di volontari che, dopo una breve formazione sulle mini-mante, potranno dare il loro valido contributo alla ricerca scientifica.
Novo Airão è una cittadina di circa 15mila abitanti che si trova sulla sponda destra del Rio Negro, a circa 4 ore di autobus da Manaus, la capitale dello stato brasiliano di Amazonas. Durante la loro permanenza in città, Francesco, Luca e Giovanni conoscono Surara, leader della comunità di Caioezinho che si trova a un centinaio di chilometri di distanza. Si tratta di uno dei tanti insediamenti sul Rio Negro dei cosiddetti ribeirinhos, popoli che vivono sulle sponde dei fiumi e, dal 2007, godono delle stesse tutele già previste dalla Costituzione per gli indigeni e i quilombolas (i discendenti degli schiavi africani).
Surara nasce 58 anni fa in un villaggio del Rio Solimões, il fiume che incontra il Rio Negro di fronte a Manaus, formando il Rio delle Amazzoni. Fin da bambino impara dal padre a pescare e all’età di 13 anni inizia a lavorare come carpentiere. A vent’anni abbandona il suo paese natale, si separa dalla moglie e trova impiego a bordo dei pescherecci. Una volta arrivato a Caioezinho, decide di stabilirsi lì. È una scelta che anche altri hanno fatto prima di lui, soprattutto per la minor presenza di carapanà (zanzare) le quali invece infestano le zone in cui scorre l’altro grosso fiume amazzonico. Surara incontra Joana, figlia di uno dei fondatori della comunità, rimasta vedova da poco. I due si conoscono e, dopo qualche tempo, decidono di sposarsi. “Qui, grazie a Dio mi sento felice: ho i miei figli, mia moglie, sono 21 anni che abitiamo qui”, racconta Surara. “I miei genitori ormai sono anziani e mi hanno passato come testimone questo stile di vita. Sono venuto a vivere qui perché mi piace molto abitare nell’entroterra. Io qui ho pace, amore, vivo felice e lavoro con l’agricoltura. Mi alzo la mattina presto, vado nei campi e mi sento contento”.
Oggi la comunità di Caioezinho è composta da circa 26 famiglie, cioè un centinaio di persone in totale. La loro è una piccola economia autosufficiente, basata su pesca, caccia e agricoltura. L’elettricità viene garantita quotidianamente, dalle 18 a mezzanotte, da un vecchio generatore a motore diesel. In quelle ore l’intera comunità si anima: si accendono le televisioni e il silenzio della giungla viene interrotto dalle casse che diffondono a tutto volume la música sertaneja, una sorta di country statunitense in chiave brasiliana.
Nella comunità le possibilità di comunicazione sono ridotte a zero, perché mancano il telefono e internet. Per arrivare a Novo Airão, la città più grande nei dintorni, bisogna viaggiare per circa 12 ore a bordo di un barcone. Questa, a detta di Surara, è la difficoltà più tangibile. “Possono succedere imprevisti di ogni genere, ma non abbiamo a disposizione un’imbarcazione di quelle rapide; se ci fosse un incidente, sarebbe un problema. A me è già successo di sfuggire per poco alla morte e già è successo che persone siano morte a causa di questa mancanza di velocità”, spiega. “Attualmente stiamo sentendo la mancanza di questo tipo di supporto”.
Una volta al mese, Surara e la sua famiglia approdano in città per vendere i prodotti delle loro coltivazioni: banane, cupuaçu (un frutto parente del cacao, ma dalla polpa cremosa simile a quella di un ananas), açaí (frutto che cresce soltanto in Amazzonia), limone, mais, castanhas do parà (noci del Brasile) e manioca. Per molti anni si sono dedicati principalmente alla pesca, ma tale attività è diventata molto meno redditizia perché ormai di pesce ne viene pescato addirittura troppo e capita che, almeno in parte, resti invenduto.
È una vita faticosa, e Joana non ne fa mistero. “È molto difficile perché devi cogliere dal campo la banana e la farina da vendere in città. Tu devi quindi aspettare di vendere quel prodotto per riuscire ad avere dei soldi. Spesso i soldi che si ottengono non sono molti, e poi bisogna mantenere la casa, l’alimentazione, comprare del cibo, a volte c’è bisogno di un pantalone e di comprare vestiti. È davvero difficile mettere da parte dei soldi”.
Da giovane Joana aveva ben altre ambizioni per il suo futuro. “Il mio sogno era quello di studiare per avere un buon lavoro, ma all’epoca di mio papà questo non era possibile. A volte passano molte cose nella mia testa. Se io fossi una persona che sa leggere e scrivere, probabilmente oggi non sarei qua”, ammette. E si emoziona quando svela di essere riuscita a raggiungere un traguardo che, nella comunità di Caioezinho, non è da tutti: far studiare i suoi figli. “Una mamma che è rimasta vedova nell’entroterra e dopo anni riesce ad avere una figlia in una facoltà universitaria è la realizzazione di un sogno”, rivela.
Tutti e sei i suoi figli hanno frequentato la scuola di Caioezinho. La sua costruzione è stata uno dei cambiamenti più rilevanti per la vita della popolazione locale, alla pari dello scavo del pozzo e dell’arrivo della corrente elettrica (trent’anni fa, quando il padre di Joana vi si è stabilito, c’erano solo lampade a petrolio). La piena di ottobre 2021 però ha reso inagibile l’edificio, oltre a costringere molte persone a lasciare le loro case e vivere per alcuni mesi a bordo delle loro barche. La ong Fundação Almerinda Malaquias ha avviato un progetto di ricostruzione di questa e altre 25 scuole in varie comunità lungo il Rio Negro. Oltre a questo, il progetto Educação Ribeirinha prevede anche di formare gli insegnanti che prenderanno servizio in queste strutture.
Quello di Amazonas è un territorio che LifeGate conosce bene. Qui, fin dal 2012, ha dato vita al progetto Foreste in Piedi per la tutela di 560 ettari di foresta amazzonica, in collaborazione con la onlus italiana Icei e l’associazione Moradores de São Pedro de Capivara. L’area di intervento si trova nel municipio di Silves, a 340 chilometri di distanza da Manaus, dove 41 comunità si sostentano grazie all’agricoltura e alla pesca.
Tra di esse c’è la comunità di São Pedro, composta da una cinquantina di famiglie che abitano lungo le sponde del fiume Igarapé Capivara. Formalmente, la legge le assegna questi 560 ettari e garantisce che l’80 per cento della foresta rimanga inviolato; gli abitanti sono autorizzati a cacciare, estrarre il breu (una resina molto richiesta per i cosmetici) e tagliare legname, ma soltanto in una quantità strettamente funzionale alla loro sussistenza. Nei fatti, però, l’area è molto isolata (si può raggiungere soltanto via fiume) e le risorse pubbliche stanziate per monitorarla sono carenti. Foreste in Piedi nasce proprio con l’intento di sostenere le famiglie e presidiare il territorio, evitando che diventi facile preda di chi vuole disboscarlo, cacciare di frodo gli animali o appiccare incendi.
Dopo due anni di comunicazioni farraginose per via dell’emergenza sanitaria, a ottobre 2021 l’ingegnere forestale Philippe Schmal è riuscito a visitare la comunità di São Pedro do Capivara, costituitasi in un’associazione di residenti. Di problemi da risolvere, riferisce, ce ne sono ancora. Ad oggi per esempio i confini delle proprietà non sono ben definiti, ci sono alcune sovrapposizioni e diverse famiglie sono in attesa che venga riconosciuto il loro titolo di proprietà.
Ma c’è anche una vittoria da festeggiare. A differenza di quanto accaduto a pochi chilometri di distanza, nei pressi della Estrada da Várzea (AM363) e sul basso fiume Maquarazinho, nemmeno un ettaro compreso nel progetto Foreste in Piedi è stato deforestato per essere convertito in pascoli o terreni agricoli. Questo anche nel bel mezzo della pandemia, un periodo che ha messo a dura prova i residenti. “Abbiamo dovuto sospendere il lavoro, non potevamo fare riunioni, abbiamo sofferto un impatto molto grande che ha addirittura fermato le nostre attività. È stato difficile”, testimonia Amarildo, che si occupa di estrazione di risorse non legnose. “Oggi per fortuna, ringraziando che siamo vivi, stiamo ritornando alle nostre attività. Per fortuna la nostra foresta non ha avuto grandi problemi, è rimasta intatta”.
“Il progetto è molto importante perché intende preservare la natura dell’Amazzonia che è il polmone del mondo”, conferma la presidentessa della comunità di São Pedro do Capivara, Maria Alcilene Viana dos Santos. “Ha un focus sia ambientale sia economico. I produttori che hanno i terreni nell’area interessata riescono a preservare ma anche a estrarre (in modo sostenibile) i prodotti da vendere e con cui vivono”. Oltretutto, spiega, si genera una contaminazione positiva: “Il progetto permette di mostrare i risultati anche ad altre comunità. Per questo, quando si parla di preservazione, le altre comunità sanno già di cosa si sta parlando. E questo fa sì che cerchino anche loro di tutelare la natura”.
Il progetto è molto importante perché intende preservare la natura dell’Amazzonia che è il polmone del mondo.
Maria Alcilene Viana dos Santos, presidentessa della comunità di São Pedro do Capivara
E ora? “Per il biennio 2022-2023, la quarta fase di Foreste in Piedi prevede la piena ripresa delle attività di monitoraggio e mappatura delle risorse forestali”, spiega Philippe Schmal. Ma non solo: sono previsti anche “lo sviluppo di piani d’uso per la gestione delle risorse forestali non legnose, la formazione tecnica in silvicoltura e apicoltura, la raccolta di semi forestali, la produzione di piantine e l’estrazione di olio di copaiba (dalle proprietà antisettiche e antinfiammatorie, ndr), il supporto alla promozione della legalizzazione dei terreni”. Tutto questo sarà possibile “facendo un’indagine sulle risorse forestali abbinata a un’attività di sensibilizzazione ed educazione ambientale nella comunità di São Pedro e nelle comunità vicine”.
Considerato il numero di minacce che incombono sull’Amazzonia, è rigorosamente vietato abbassare la guardia. All’indomani dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, per esempio, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha presentato come una “buona opportunità” l’espansione dell’attività mineraria nelle terre indigene alla ricerca di potassio, da impiegare per produrre fertilizzanti agricoli in seguito allo stop alle esportazioni imposto da Mosca. Un’argomentazione apertamente contestata da uno studio dell’università federale di Minas Gerais. In realtà, sostengono i ricercatori, le riserve brasiliane di potassio sono già sufficienti fino alla fine del secolo, senza bisogno di toccare le terre indigene. Dove, peraltro, i giacimenti sono ben pochi.
“In realtà il Brasile avrebbe già risolto: ha appena firmato un accordo con il Canada per queste forniture”, spiega a Francesco l’ingegnere forestale Philippe Schmal. Nonostante ciò, la proposta di legge sullo sfruttamento minerario nelle terre indigene dovrà essere esaminata “con urgenza” dalla Camera dei deputati. A suo parere, la motivazione di urgenza è stata un pretesto per bypassare l’ampia consultazione pubblica necessaria prima di decidere su una questione così delicata. La sua previsione? “Ora la legge sarà votata alla Camera e poi al Senato. È probabile che il Supremo tribunale federale la rigetti, facendola tornare indietro alla Camera. Nel frattempo, resterà in vigore una misura provvisoria che ha un anno di validità. Qualora Bolsonaro non venisse riconfermato alle elezioni di ottobre, il nuovo governo potrebbe cancellare la legge”.
A dire il vero, continua l’ingegner Schmal, le grandi imprese non sono poi così interessate allo sfruttamento minerario dell’Amazzonia. Per operare legalmente, infatti, dovrebbero sottostare a un lungo iter autorizzativo. Il grosso rischio che la proposta di legge porta con sé è quello di legalizzare di fatto i garimpeiros, cioè i cercatori d’oro e di pietre preziose già presenti in modo massiccio nella cosiddetta provincia aurifera dell’Amazzonia, una zona indigena compresa tra il rio Xingu e il rio Tapajos. “Non tutti sono illegali. C’è anche chi costituisce una cooperativa ed emette una nota fiscale; il governo ci guadagna sia in termini di tasse sia in termini di consenso elettorale”, precisa Philippe Schmal. Molti, però, non hanno alcuna autorizzazione e non si curano delle conseguenze sul territorio e chi lo abita. “A São Gabriel da Cachoeira, a nord del rio Negro, c’è un grosso problema con i garimpeiros, con frequenti conflitti e invasioni delle terre Yanomami”, continua. “L’impatto sull’ambiente è devastante. I garimpeiros gettano fango e residui nei fiumi, tant’è che le acque del fiume Tapajós sono diventate bianche. Per non parlare del mercurio: arrivano camion e camion pieni di mercurio che viene riversato nel rio Madeira, contaminando i pesci e arrivando fino al corpo degli uomini che se ne cibano”.
L’unico interesse delle etnie indigene dell’Amazzonia è quello di mantenere il proprio stile di vita e partecipare a un’economia basata sull’uso sostenibile delle risorse.
Henrique dos Santos Pereira, professore universitario
“L’unico interesse delle etnie indigene dell’Amazzonia è quello di mantenere il proprio stile di vita e partecipare a un’economia basata sull’uso sostenibile delle risorse”, conferma Henrique dos Santos Pereira, professore presso la facoltà di Scienze agrarie e il centro di Scienze ambientali dell’università federale di Amazonas, dove lavora come membro del coordinamento del programma post-laurea in Scienze ambientali e sostenibilità in Amazzonia. “L’estrazione mineraria va nel senso contrario e, verosimilmente, li esclude dal processo di controllo e decisione”. In aggiunta all’enorme rischio di degradazione dell’ambiente, entra in gioco infatti anche la questione economica. “Nel mondo ci sono esempi che dimostrano quanto il pagamento di royalties si sia tradotto in una dipendenza economica, con un cambiamento negativo e drastico nello stile di vita di questi popoli”.
La foresta amazzonica influisce sul clima regionale e globale e, a sua volta, ne è influenzata. Sappiamo infatti che è un serbatoio naturale di gas serra; di conseguenza, bruciare o distruggere gli alberi significa non solo sacrificare la biodiversità, ma anche rilasciare questa CO2 in atmosfera accelerando il riscaldamento globale. Alcuni studi recenti, però, sembrano suggerire che questa capacità di immagazzinare CO2 abbia raggiunto il suo picco. “Il riscaldamento globale e la maggiore incidenza di eventi meteo estremi ha incrementato la mortalità degli alberi. In parallelo, l’aumento della deforestazione fa sì che questa regione abbia iniziato a emettere una grande quantità di CO2”, spiega il professor Henrique dos Santos Pereira.
In Amazzonia, i cambiamenti climatici si vedono già a occhio nudo. “Nel sud est e nel sud ovest si è prolungata la stagione secca. Visto che la foresta si adatta, in futuro la vegetazione avrà caratteristiche diverse, più simili a quelle della savana”, continua. “Se continuerà a essere protetta, l’Amazzonia in qualche modo si adatterà al nuovo clima. Il nordest del Brasile, invece, rischia di diventare un deserto. Ad aggravare questa situazione si aggiunge il degrado del suolo, dovuto alla deforestazione e a un uso non sostenibile. A soffrirne le conseguenze più dirette è l’agricoltura che, tuttora, dipende dalle piogge; l’irrigazione è ancora una parte minoritaria”.
Fino a non molto tempo fa, anche la portata dei fiumi era molto prevedibile. “Per esempio il rio Negro, qui a Manaus, ha una differenza media di 13 metri tra il livello più alto e quello più basso. Tutta la vita si organizza in funzione di questo. Negli ultimi anni invece abbiamo assistito a grandi inondazioni e grandi secche, il che provoca conseguenze dirette anche sulla vita sociale. I fiumi sono le nostre strade: se sono secchi per un lungo periodo, le comunicazioni si interrompono”, ricorda Henrique dos Santos Pereira. Tutti dovranno adattarsi, nella foresta e in città: umani, piante e animali. Per alcuni sarà più dura rispetto ad altri. “Le persone più agiate a livello socio-economico abitano nelle aree più sicure delle città e hanno i mezzi per proteggersi. Al contrario, le persone più vulnerabili sono esposte a maggiori rischi. Ogni anno sempre più persone muoiono o perdono la casa a causa di crolli e smottamenti del terreno”, continua il professore. “In città anche una differenza di mezzo grado può rendere le case inabitabili. Per climatizzare gli ambienti serviranno grossi investimenti e un notevole consumo di energia. Le persone più povere non se lo potranno permettere”.
Le temperature elevate inoltre accelerano l’evaporazione, facendo sì che la materia organica della foresta diventi secca. E, di conseguenza, infiammabile. “Tradizionalmente facciamo uso del fuoco per preparare le aree ma, con la siccità, si perde facilmente il controllo sulle fiamme”, spiega. “Alcune piante tradizionali non danno più frutti. I contadini sono stati costretti a cambiare il loro orario di lavoro per sfruttare le ore meno calde della giornata. L’acqua della superficie dei fiumi è più calda, contribuendo alla morìa dei pesci. Questi fenomeni, tutti oggetto di studi scientifici, si sono intensificati a partire dagli anni Novanta”.
Queste innumerevoli questioni ambientali sono legate all’attività umana? “Ovviamente”, risponde il professor dos Santos Pereira. È vero infatti che la superficie dello stato di Amazonas è per il 95 per cento area protetta, ma è vero anche che, specialmente nel sud, “avanza un’occupazione predatoria basata sul disboscamento per fare spazio ad allevamenti e coltivazioni in cui si fa un imponente uso di agrotossici. Siamo quindi di fronte a un conflitto per la terra che ha conseguenze sull’ambiente, pur essendo di origine economica”.
La sua opinione sul governo è netta: “È a favore dell’occupazione predatoria di questa regione. Ne deriva una diffusa sensazione di impunità che spinge alcuni attori economici ad avanzare nella foresta. Nell’anno che si è chiuso ad agosto 2021, il nostro stato di Amazonas è stato disboscato più che nei dieci anni precedenti. Abbiamo assistito alla totale disarticolazione degli organi che si occupano di ambiente. C’è la sensazione che non ci sia più legge né controllo, e non solo in ambito ambientale”. Anche molte politiche pubbliche di sicurezza e di protezione sociale sono venute meno negli ultimi quattro anni, come dimostrano le maggiori difficoltà vissute dalle fasce vulnerabili della popolazione.
“Quando viene meno il governo federale, quello locale dovrebbe acquisire importanza”, conclude. “Soprattutto in Amazzonia, però, le amministrazioni locali sono molto dipendenti da quella nazionale, anche perché non posseggono il suo bagaglio di tradizione, conoscenza e competenza. Oltretutto, sono molto pressate dagli interessi locali. Un esempio emblematico è quello dei garimpeiros: la maggior parte dei comuni ritiene che siano una presenza positiva per l’economia e il commercio”, nonostante invadano le terre indigene per estrarre risorse, salvo poi andarsene lasciando in eredità inquinamento e malattie infettive.
A gennaio 2021, dopo un durissimo anno in balìa della Covid-19, ha preso il via l’attesissima campagna vaccinale. Un video, tra i tanti, ha fatto il giro del mondo. Ritraeva una giovane donna indigena, in abiti tradizionali, salire sul palco per farsi somministrare la sua dose. Era Vanderlecia Ortega dos Santos, per tutti Vanda Witoto Ortega, infermiera e prima vaccinata nello stato di Amazonas. Francesco e Luca la incontrano al Parque das tribos di Manaus, la prima comunità indigena riconosciuta in Brasile in contesto urbano. Vive lì da quando è stata occupata, nel 2016.
A loro svela un aneddoto legato proprio all’improvvisa notorietà regalatale da quell’episodio. Dopo qualche giorno, l’ha contattata sui social network una professoressa universitaria che lavora da oltre quarant’anni con i Witoto colombiani. Lei non sospettava nemmeno che in Brasile ne esistessero ancora. Così, dopo 116 anni, lei, suo padre e il cacique (leader della comunità) hanno incontrato altri discendenti del loro popolo, originario proprio della Colombia e sterminato a partire dai primi del Novecento, l’era della fiebre del caucho, il boom dell’estrazione della gomma nell’Amazzonia.
I ricchi commercianti peruviani “prendevano tutta la comunità indigena per estrarre la gomma. Ogni uomo doveva consegnare una certa quantità all’impresa. Chi non lo faceva veniva percosso, affogato e ucciso”, racconta Vanda Ortega. “Il problema è che gli alberi si esaurivano ed era difficile raggiungere questo traguardo. Quindi gli uomini portavano con sé donne e bambini per raggiungere quella quantità e non morire. Molti morivano di fame”. Come risultato del genocidio del Putumayo, “il censimento del popolo Witoto dice che nel 1886 c’erano più di 100mila persone. Dopo il periodo di conflitti legati all’estrazione della gomma, scese a 20mila. Oggi non arriviamo a 12mila, divisi tra Brasile, Perù e Colombia. Qui in Brasile siamo 178 famiglie, i sopravvissuti”.
Per decenni i Witoto hanno nascosto la loro identità. “Noi vivevamo in mezzo alla giungla e l’unica cosa che sapevamo era che eravamo Witoto e che la nonna non ci lasciava parlare di nulla in relazione a questo. Questo sempre fu un argomento privato, tabù. Se questi peruviani ci avessero trovato, saremmo morti. Io mi ricordo del tempo della cajonera, una barca gigante nera che cercava per il fiume chi era fuggito. La nonna sempre ci diceva che non potevamo farci riconoscere. E quando queste barche passavano davanti alle comunità, di notte soprattutto, si spegnevano le torce”, racconta.
Vanda Ortega è rimasta nella comunità fino a 16 anni. Poi, come molte altre donne indigene, è stata portata a Manaus per lavorare come domestica per 100 reais al mese (meno di 20 euro al cambio attuale), più vitto e alloggio. Con il rischio, concreto, di subire violenze e umiliazioni. “Ero molto isolata, sentivo di essere libera soltanto quando andavo a scuola. Non mancavo mai a lezione. A volte mi svegliavo alle tre del mattino per pulire la casa, preparare la colazione ed essere a scuola entro le 7”, racconta. Ma erano sacrifici che era disposta a fare. “Mio padre mi incentivò sempre a studiare perché diceva che l’educazione avrebbe potuto cambiare la nostra vita. In qualche modo sto realizzando il suo sogno che è essere professore”.
Nel 2015, quando ha avuto l’opportunità di iscriversi alla facoltà universitaria di Pedagogia, le è stato chiesto il registro di nascita indigena. Un documento di cui, fino a quel momento, faticava a capire il significato. Così ha iniziato a leggere, fare ricerche su internet, chiedere spiegazioni al padre, riscoprire le tradizioni del suo stesso popolo. “Oggi possiamo vederci come donne, come persone indigene e non abbiamo paura di questo”, afferma sicura. “Io ho dipinto il mio corpo per la prima volta nel Parque das Tribos. Noi non abbiamo un territorio, ma il nostro corpo è il nostro territorio. La prima volta che ho ballato un rituale è stato qui, non nella mia aldeia (villaggio). Quando sei solo è facile avere paura, ma qui è diverso”. In questo luogo sicuro Ortega lavora per riaffermare la cultura indigena, a partire dai bambini.
“Oggi possiamo vederci come donne, come persone indigene e non abbiamo paura di questo.” Vanda Ortega
Quando il Parque dos Tribos è stato occupato dagli indigeni, nel 2016, non c’era l’allacciamento alla luce e all’acqua. Nel 2019 il prefetto ha riconosciuto la comunità indigena, ma l’acqua ha iniziato a scendere dai rubinetti solo a gennaio 2021. Dopo un anno di pandemia. “Come facevano le persone a lavarsi le mani? E a restare in isolamento, se le case sono così piccole?”, fa notare Vanda Ortega. “La pandemia è stata un momento molto importante per i popoli indigeni. Attraverso i media e i social network, siamo finalmente riusciti a far sentire la nostra voce allo Stato e alle istituzioni”. Ottenendo anche la prima equipe medica, una maloca (lunga casa ancestrale tipica), la promessa di costruire la prima unità basica di salute.
Allo scoppio della pandemia, infatti, nella comunità di medici non ce n’erano. Appena qualcuno ha iniziato a manifestare febbre e tosse, Vanda Ortega ha registrato un video con le indicazioni da seguire e, attraverso un gruppo Whatsapp, si è messa a disposizione per fornire assistenza, cucire mascherine e distribuire farmaci. “Alla fine di aprile c’è stato il primo caso grave, una donna tuyuka. Quando il figlio mi ha chiamata, l’ho trovata sprofondata nell’amaca, con la febbre oltre i 40, poco battito e la saturazione a 82. Volevo portarla in ospedale, ma mio marito e mio padre temevano che mi contagiassi anche io. Così ho chiamato un’ambulanza e mi è stato detto di rivolgermi al Sesai (Segreteria speciale di salute indigena) che, però, non si occupa degli indigeni in contesto urbano, solo di quelli che vivono nei villaggi dell’interno. Che contraddizione, la negazione dello Stato”, racconta Ortega. “Alla fine l’ambulanza non è arrivata, ho fatto indossare due mascherine a lei e a suo figlio e in ospedale l’ho portata io. Alla fine è sopravvissuta, ma solo perché è stata ricoverata”.
Non sempre c’è stato il lieto fine. Oltre alla carenza di personale sanitario e presìdi medici, anche le credenze religiose hanno complicato le cose. Uno dei leader della comunità (cacique) si rifiutava di indossare la mascherina, anche dopo essersi ammalato. “Era della chiesa evangelica e sosteneva che i figli di Dio non avrebbero contratto il virus. Diceva di essere indio, di venire dal fiume, di essere forte, e che il virus non gli avrebbe fatto nulla”, racconta Ortega. “L’abbiamo assistito a casa sua ma i suoi problemi respiratori si sono aggravati troppo e la figlia l’ha portato in ospedale. Non è più tornato. È stato un momento così difficile. Nonostante tutte le sue contraddizioni, era un grande leader e questo territorio è stato conquistato anche grazie alla sua lotta”. Dopo questa perdita, gli altri membri della comunità hanno avuto paura di farsi ricoverare.
Vanda Ortega è stata vaccinata per prima in Amazzonia perché infermiera, non perché indigena. La tutela della sua comunità non è stata ritenuta una priorità. Questo, però, le ha permesso di creare un’attenzione e una consapevolezza che non vanno date per scontate, dopo decenni in cui gli indigeni sono stati indotti addirittura a vergognarsi della loro identità. “Qui si preferisce vantarsi delle proprie origini europee piuttosto che di quelle indigene, ed è anche colpa della scuola che rappresenta gli indigeni come selvaggi e inferiori”.
Anche grazie alla grande mobilitazione avviata negli anni Settanta, la Costituzione del 1988 riconosce i diritti dei popoli indigeni a esistere, avere una lingua, una spiritualità e un territorio. Da un decennio però si dibatte sul marco temporal, una tesi giuridica per cui i popoli indigeni hanno diritto di rivendicare un territorio solo se dimostrano di averlo occupato entro il 5 ottobre 1988, giorno in cui è stata promulgata la Costituzione stessa. La questione è arrivata fino alla Corte suprema federale (Stf); il processo però è stato sospeso fino a data da destinarsi.
“Questa tesi non tiene conto di tutti coloro che sono stati espulsi dai loro territori con la violenza”, sostiene Vanda Ortega. “Il marco temporale bloccherebbe l’iter di riappropriazione dei territori indigeni in Brasile. Non riconoscere le loro terre significa negare tutto ciò che hanno sofferto. Per questo c’è la necessità di avere una rappresentanza politica indigena nel congresso nazionale. Non possiamo permettere che qualcun altro parli in nostra vece”. Ortega non si è mai affiliata a un partito politico finora e non ha mai militato per un candidato, ma ha deciso di provarci. È l’unica pre-candidata indigena donna per il congresso federale, in vista delle elezioni generali di ottobre 2022. “Se sarò scelta, sarà una grande sfida. Andremo a occupare uno spazio che non è pensato per le donne, soprattutto indigene. Spero di poter fare la storia, e di dare più forza a Joênia Wapixana, l’unica indigena eletta finora, che in qualche modo ci rappresenta tutti”.
“Ho grandi aspettative nei confronti dell’educazione: sogno una scuola che dia autonomia ai bambini, rafforzando la loro storia e la loro identità.” Vanda Ortega
“Pensare al futuro mi angoscia, ma ho tanti sogni”, conclude. “Ho grandi aspettative nei confronti dell’educazione: sogno una scuola che dia autonomia ai bambini, rafforzando la loro storia e la loro identità. Sogno di garantire una rendita economica alle donne, come proviamo a fare con l’Ateliê Derequine in cui confezionano e vendono i vestiti. Perché non ha senso parlare di indipendenza senza considerare l’aspetto finanziario. In realtà non sogno una scuola classica quanto una ‘casa dei saperi’, una maloca che accolga tutti, bambini e anziani, creando quell’interazione con gli altri che ci permette di crescere come esseri umani. Per il mio popolo tutto prende il via dai sogni, perché il dio creatore, Mooma, sognò la prima maloca, la terra, il fiume, i pesci, gli alberi. Anche io mi permetto di sognare, sono i sogni a darmi l’energia”.
Tutte le foto contenute in questo longform sono di Luca Meola.
Le interviste e i video sono a cura di Francesco Magistrali, Luca Meola, Giovanni Sgorbati (capitoli 3, 5, 6, 7 e 8) e Philippe Schmal (capitolo 4).
Il montaggio è a cura di Piraña Films.