La Tunisia è uno dei Paesi del Mediterraneo più esposti alla crisi climatica. Alcune giovani imprenditrici propongono un modello di sviluppo alternativo per l’ambiente e i diritti dei lavoratori.
Quando Hayet Taboui studiava ancora archeologia all’università, prima di ogni esame, sua nonna la portava sotto un ulivo di 2.500 anni per darle la sua benedizione. Lei non ha mai creduto a quelle tradizioni popolari, ma è rimasta legata agli antichi alberi del Parco nazionale di El-Fedja, a pochi chilometri dal confine algerino, dove è nata e cresciuta.
Hayet ha fatto della cura di fauna e flora il suo lavoro: un anno dopo la rivoluzione tunisina del 2011, insieme ad altre donne della regione di Jendouba, ha fondato l’associazione Sidi Bou Zitoun, che prende il nome da quel particolare tipo di ulivo sotto il quale si sedeva con sua nonna. L’associazione protegge il Parco nazionale di El-Fedja e valorizza il patrimonio naturale di questa zona boschiva del nord-ovest della Tunisia.
Ogni weekend Hayet porta alla scoperta del parco i bus di turisti che arrivano dalla capitale, uno dei tanti modi adottati da Sidi Bou Zitoun per continuare a far vivere questo luogo isolato.
Per Hayet, la priorità rimane però la conservazione del Parco: “Ci siamo rese conto che questi alberi millenari – i nostri ulivi, le nostre querce – non venivano protetti come meritavano. Le tradizioni delle famiglie che abitano su queste montagne andavano pian piano smarrendosi: stavamo perdendo i nostri semi e le nostre piante locali”, racconta mentre si inginocchia per accarezzare le foglie degli ulivi coltivati nell’orto comunitario di El-Fedja. “Allora abbiamo pensato: perché non fare della salvaguardia dei semi locali un lavoro per le comunità che abitano questa montagna?”
Ci siamo rese conto che questi alberi millenari – i nostri ulivi, le nostre querce – non venivano protetti come meritavano.
Hayet Taboui
Da nove anni, infatti, questa associazione guidata da donne immagina nuovi modi di fare agricoltura. L’agroecologia, la creazione di un orto comunitario, la coltivazione di piante medicinali e il recupero delle varietà locali contribuiscono a preservare la biodiversità del territorio e ad aumentare la resilienza di questi boschi ai cambiamenti climatici.
Come evidenzia l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) pubblicato ad agosto 2021, la temperatura sta aumentando più rapidamente del previsto e gli obiettivi dell’Accordo di Parigi per limitarne l’aumento medio a 1,5 gradi centigradi rischiano di essere violati. Come molti paesi della regione mediterranea, la Tunisia sta già osservando una moltiplicazione di eventi meteorologici sempre più estremi.
Quest’estate il paese ha registrato un aumento medio della temperatura stagionale dagli 8 ai 15 gradi a seconda della regione, secondo i dati raccolti dall’Istituto nazionale di meteorologia, con picchi superiori a 50 gradi. Decine di incendi sono scoppiati nel paese, molti dei quali proprio nella regione agricola di Jendouba. Se da un lato le conseguenze sull’agricoltura sono disastrose, dall’altro le risorse genetiche delle colture locali possono giocare un ruolo fondamentale nella creazione di un’agricoltura più resistente alle alterazioni del clima.
“Noi non compriamo semi ibridi importati come accade ormai in quasi tutto il paese, ma conserviamo i semi locali e li riproduciamo nel nostro orto comunitario per provare ad adattare queste specie ai cambiamenti climatici di anno in anno”, spiega Hayet Taboui. Anche per lei la preservazione della biodiversità è la chiave per mantenere un sistema agricolo resiliente, che garantisca cibo sano alla comunità e un reddito alle famiglie che vivono nel parco.
Più di 150 abitanti della regione, soprattutto donne e giovani, sono stati coinvolti in questo progetto che consente loro non solo di mantenersi commerciando i prodotti del territorio, ma anche di proteggere l’ambiente in cui vivono. La regione di Jendouba dove si trova il parco di El-Fedja costituisce, infatti, una delle zone più marginalizzate del paese, abbandonata da quelle famiglie che in passato, in cerca di un’occupazione, si sono trasferite nella capitale Tunisi.
In quest’area agricola il tasso di povertà sfiora il 21,5 per cento: in zone difficilmente raggiungibili come quella di Ghardimaou, cittadina al confine con l’Algeria, le risorse naturali rappresentano l’unica fonte di sostentamento e occupazione per chi vi abita. Per questo, per Hayet Taboui, vanno preservate.
Lo sa bene Wassila, che nel giardino di casa, lungo la strada che porta verso la zona del parco, produce oli essenziali estratti dalle piante che raccoglie ogni mattina camminando nel bosco, per poi rivenderli al mercato e ai turisti. “Dio ci ha dato solo queste piante, sono tutto quello di cui viviamo”, racconta mentre distilla del mirto, tipico della zona di Ghardimaou.
Buona parte delle donne della regione di Jendouba lavorano nei campi dei grandi produttori agricoli, sfruttate per una paga giornaliera misera (in media l’equivalente di 4 euro a giornata). Ogni mattina, le operaie rischiano la vita ammassate sui camion del caporale che le porta a raccogliere frutta e ortaggi dall’alba al tramonto.
Da dopo la rivoluzione, la società civile tunisina non ha mai smesso di denunciare le condizioni di lavoro delle donne nell’agricoltura: il 58 per cento delle donne che abitano le aree rurali del paese lavora quotidianamente nei campi ma senza una copertura sociale adeguata, promessa dai governi degli ultimi anni ma mai ottenuta.
Secondo uno studio del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, tra il 2015 e il 2019 più di 450 operaie sono rimaste ferite e 22 sono morte lungo il tragitto casa-lavoro. Le notizie di incidenti stradali che coinvolgono le operaie ritornano ogni anno in prima pagina dei quotidiani locali durante i mesi della raccolta. La crisi economica che ha seguito la pandemia da Covid-19 e la sospensione temporanea delle esportazioni nel 2020 non hanno fatto che peggiorare le condizioni di lavoro di una manodopera femminile già estremamente precaria. “Il nostro progetto vuole rappresentare un’alternativa allo sfruttamento della manodopera femminile a basso costo. C’è bisogno di un’economia circolare, che rispetti i diritti dell’ambiente e delle comunità”, conclude Hayet.
A Sidi Bouzid, la regione isolata dove ha avuto inizio la rivoluzione del 2011, un’altra donna lotta per reintrodurre i semi locali. Dopo anni passati a lavorare per una fabbrica di sementi importate, Fatiha Mosbati ha deciso di ritornare nel suo villaggio natale in campagna, a Souk Jdid, per fondare la sua serra.
Qui Fatiha cerca non solo di recuperare i semi locali di ulivi, viti e altre specie tipiche della regione ma anche di reintrodurre il biologico, per poi distribuire le sue piantine agli agricoltori della regione. Ogni mattina, le controlla una per una. E spiega: “Quando si lavora per la grande produzione in funzione delle leggi del mercato, l’obiettivo diventa la quantità, non la qualità. Sto cercando di tornare all’agricoltura biologica, anche se è difficile liberarsi dei prodotti chimici dopo anni di agricoltura intensiva o monoculture”.
A confermarlo è Habib Ayeb, professore di geografia all’Università Paris VIII e fondatore dell’Osservatorio della sovranità alimentare e dell’ambiente (Osae): “Il recupero dei semi locali è molto complesso e dispendioso perché i terreni si sono adattati ai semi ibridi coltivati con pesticidi e fertilizzanti”. Per Ayeb, l’esempio del grano è lampante: “Le varietà di grano tunisino producono in media 15 quintali per ettaro, mentre il grano importato da 60 a 100 quintali. Ecco perché vengono importati i semi ibridi. In Tunisia esistevano più di 1.000 varietà locali di grano, ma sono andate perdute. Solo i piccoli paesani continuano a produrre le varietà locali che riproducono ogni anno, perché non potrebbero permettersi di pagare per quelle importate”.
Negli ultimi quarant’anni la maggior parte dei contadini ha abbandonato le sementi tradizionali e locali per acquistare quelle ibride importate dall’estero, conseguenza di decenni di politiche economiche che hanno orientato lo sviluppo tunisino verso monoculture, imprese orientate all’esportazione e estrazione della rendita. Un modello di sviluppo che ha creato “fratture sociali, economiche e ambientali”, spiega Leyla Riahi, attivista, ricercatrice e membro del gruppo di lavoro per la Sovranità alimentare in Tunisia.
“Queste politiche hanno impoverito i contadini locali e portato benefici ai grandi investitori dell’agribusiness e agli importatori stranieri di sementi, mettendo in secondo piano la questione della sovranità alimentare del paese. Produciamo per l’export ma non abbastanza per noi stessi”.
Ad avanzare rapidamente in Tunisia non è solo la crisi climatica, ma anche quella economica. La pandemia da Covid-19 ha dato il colpo di grazia a un’economia in bilico, facendo crollare il prodotto interno lordo del paese addirittura del 20 per cento nel secondo trimestre del 2020. Le proteste si moltiplicano da anni nelle periferie delle grandi città e nelle regioni marginalizzate del paese. Non è un caso, infatti, se a scendere in piazza sono soprattutto i più giovani, gli stessi che continuano a tentare di lasciare la Tunisia. La disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40,8 per cento secondo l’Istituto Statale di Statistica: un under 30 su due non trova lavoro.
Iniziative economiche sostenibili da un punto di vista ambientale e sociale possono, però, offrire una soluzione alla disoccupazione, all’esodo di massa e alla crisi climatica. È ciò che ha pensato Amira Ben Abidi, 25 anni, una volta terminati i suoi studi di design: “Vivo in un luogo culturalmente molto ricco. Mi sono detta: ‘perché non approfittarne?’ Ho deciso di recuperare i nostri antichi saperi di famiglia e di farne il mio mestiere”.
Tra le piastrelle colorate che decorano le mura della sua casa tradizionale nel quartiere di Bekalta, una zona residenziale non lontana dalla città costiera di Mahdia, a soli 140 chilometri da Lampedusa, Amira intreccia foglie di palma essiccate insieme a sua madre. La giovane imprenditrice ha fondato la sua piccola impresa nel 2017, Artizanti, trasformando il suo cortile in un vero e proprio atelier: qui produce oggetti in fibre vegetali come borse, cesti o oggetti decorativi che rivende su internet, nei mercati locali o al Cit’Ess Kanawita, uno spazio collettivo per gli imprenditori sociali di Mahdia. “Questo progetto non è semplicemente ecosostenibile. Può offrire lavoro a molti giovani disoccupati e allo stesso tempo ci permette di salvare un mestiere che sta morendo”.
Secondo Alessia Tibollo, rappresentante regionale dell’ong Cospe, impegnata da oltre dieci anni nel campo dell’economia sociale e solidale del paese, questo tipo di cooperative e associazioni possono rappresentare un’alternativa per donne e giovani, due categorie rimaste escluse dalle politiche neoliberali attuate in Tunisia: ”questi progetti non solo svolgono un ruolo significativo nel migliorare i mezzi di sussistenza delle comunità marginalizzate, ma rappresentano anche una risposta alla crisi climatica”.
A giugno 2020 il parlamento tunisino ha adottato un disegno di legge sull’economia sociale e solidale che promuove l’inclusione economica di quelle comunità rimaste ai margini, incoraggiando il lavoro di piccole imprese, associazioni e cooperative. Se la legge rappresenta un primo passo a sostegno di queste iniziative dal basso, non basta a stravolgere il modello di sviluppo del paese. I diritti sociali e ambientali restano al centro delle rivendicazioni della società civile dieci anni dopo la rivoluzione del 2011. “Lo Stato non fa abbastanza per noi giovani. Chi sceglie di rimanere non può che reinventarsi una professione. Cerchiamo comunque di prendere in mano il nostro futuro”, conclude Amira.
Cerchiamo di prendere in mano il nostro futuro.
Amira Ben Abidi
Grazie alle sua capacità imprenditoriali, nel 2021, la giovane imprenditrice ha vinto il premio “Innovazione” al Salone della Creazione Artigianale. In questi anni, altre donne come Amira hanno avviato associazioni, cooperative e piccole imprese che provano a valorizzare prodotti locali fatti a mano come l’olio, il cous cous, l’harissa, le spezie e la halfa, una pianta spontanea tipica della regione di Kasserine usata per la fabbricazione di tessuti e tappeti. Ne sono un esempio l’associazione Taguida o la cooperativa Artisans Solidaires a Kasserine. Tutte provano a coniugare la sostenibilità ambientale e quella economica, senza sfruttare nessuno, né i suoli, né le persone.
Ed è proprio questa la filosofia che dovrebbe essere alla base dell’agricoltura del futuro. Se è vero, infatti, che l’agricoltura moderna e convenzionale – e il sistema alimentare connesso – ha permesso ai consumatori di una parte di mondo di accedere a prodotti tutto l’anno e a basso prezzo, è innegabile che questo sistema ha degli enormi costi sociali e ambientali.
Il report dell’Agenzia europea per l’ambiente del 2019 “Climate change adaptation in the agricultural sector in Europe” sottolinea che proprio questo tipo di agricoltura, praticata in modo intensivo e industriale, è tra le cause della crisi climatica – “oltre il 10 per cento delle emissioni di gas serra proviene dai campi europei”, si legge nel report – e che entro il 2050 potremmo assistere a una riduzione del 50 per cento della produzione agricola in Italia e nel Mediterraneo. Anche il rapporto della Fao “The impact of disasters and crises on agriculture and food security: 2021” afferma che le perdite agricole dovute alle calamità naturali stanno crescendo vertiginosamente, infliggendo danni economici e mettendo a rischio la nutrizione.
Per questo, progetti agricoli come quello di Hayet, di Fathia, di Amira o dei contadini della Rete dei Semi Rurali sono fondamentali. Coltivare biodiversità, recuperare le varietà locali, praticare l’agroecologia, ridurre gli sprechi di cibo, potrebbe essere la chiave per garantire la sovranità alimentare e mitigare gli effetti della crisi climatica, avviando al tempo stesso nuove economie basate sulla protezione dell’ambiente e dei diritti.