Nella città di Aqaba, l’incontro fra culture diverse avviene sul campo da calcio.
Pensando alla Giordania, cosa vi viene in mente? Petra, probabilmente, con i suoi colori inconfondibili e i suoi templi scavati nelle pareti di arenaria rosa. O il deserto di Wadi Rum, con il suo silenzio, i suoi cieli stellati e quelle distese infinite, punteggiate di anemoni rossi. La Giordania, però, è molto di più.
È una terra ricca di storia e cultura. È stata la culla di alcuni dei primi villaggi del mondo e custodisce cimeli nascosti delle più grandi civiltà. Fin dall’antichità è stata un punto di collegamento fra l’Asia, l’Africa e l’Europa e ha fatto da tramite per il commercio e le comunicazioni, collegando l’Oriente con l’Occidente.
La Giordania è un membro fondatore della Lega degli stati arabi, costituita nel 1945 con lo scopo di coordinare la politica estera e promuovere la cooperazione culturale in tutta l’area. Ancora oggi continua a svolgere un ruolo chiave nelle questioni geopolitiche, favorendo il dialogo e la stabilità nella regione d’appartenenza. La lingua parlata è l’arabo, ma il paese rappresenta un punto d’incontro fra culture diverse.
Aqaba, situata nell’estremo sud della Giordania, a poca distanza dal deserto di Wadi Rum, è stata fra le prime città arabe costruite sul territorio ed è l’unico sbocco della nazione sul mar Rosso. “Essendo un porto circondato da paesi del Medio Oriente come Siria, Iraq, Israele, Arabia Saudita ed Egitto, è un luogo dove possono instaurarsi le relazioni con il resto del mondo, il dialogo e la cooperazione”, spiega Luciano Pezzotti, ambasciatore italiano in Giordania. Non a caso, Aqaba è diventata una terra speciale, d’inclusione e integrazione. Accoglienza, infatti, vuol dire anche giocare insieme – su un campo da calcio. È il messaggio lanciato da Avsi, organizzazione non profit nata nel 1972 che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario in 38 paesi, compresa l’Italia, con l’obiettivo di costruire un mondo in cui ogni persona sia protagonista della crescita integrale sua e della propria comunità. Negli ultimi due anni, Avsi ha scelto Aqaba per portare avanti una serie di attività educative e ricreative incentrate sull’universo calcistico, che hanno coinvolto 33 giovani allenatori; più di 500 bambini e le loro famiglie.
Lavoriamo qui dal 2003, con un ufficio registrato ad Amman dal 2006. Le nostre attività sono rivolte ai rifugiati e ai più vulnerabili e vanno dal sostegno educativo a quello economico, dal supporto psicosociale alla protezione dei minori e delle donne, fino al recupero delle aree pubbliche urbane o del patrimonio archeologico.
Nicola Orsini, responsabile Avsi Giordania
Il dipartimento junior dell’Associazione italiana calciatori (Aic) si è occupato di formare gli allenatori, selezionati tra giovani giordani e siriani vulnerabili. Questi ultimi hanno a loro volta coinvolto i più piccoli nelle attività sul campo, permettendo loro di passare del tempo con i genitori e i coetanei, giocando insieme e imparando i fondamentali del calcio.
“Lo sport ci dà una grande opportunità che è quella di formare le persone, indipendentemente dalla carriera che ognuno deciderà di intraprendere. Ci preme sottolineare che lo sport è uno strumento per crescere cittadini migliori, perché è a partire dalla giovane età che si costruiscono le relazioni più importanti”. Simone Perrotta, responsabile Aic junior
L’allenatore Ali Faris Al-Zalabani e l’allenatrice Roaa Dahood Al-Khtaibeh ci hanno raccontato che cos’ha significato questo progetto per loro. Un’occasione di crescita, non solo a livello sportivo, ma soprattutto umano. Tramite lo sport è possibile trasmettere dei valori che serviranno anche al di fuori del campo da calcio.
È stato incredibile constatare come questi ragazzi e queste ragazze, così giovani, abbiano già le idee chiare. Osservarli mentre giocano con i bambini e ammirare i sorrisi sui loro volti è un’esperienza difficile da descrivere a parole. Così come interagire con i più piccoli. Anche se non ti conoscono, anche se non parlano la tua lingua, trovano comunque un modo per comunicare con te, con un sorriso, con gli occhi, prendendoti per mano, salutandoti non appena ti vedono arrivare. Nonostante tutto quello che hanno passato – dalla fame alla povertà, dall’impossibilità di studiare alla violenza – hanno ancora così tanto amore da regalare. Non esiste, probabilmente, regalo più prezioso di questo. Le parole delle loro madri ce lo confermano.
Questo programma serve anche a contrastare il fenomeno del football trafficking. “È purtroppo una pratica molto comune, specialmente nel continente africano e nel Sudamerica, dove le grandi squadre, soprattutto europee, vanno a cercare giovani talenti”, spiega Luca Milocco di Aic junior. “Questi bambini vengono portati via dalle loro famiglie con la promessa di avere dei contratti, ma è chiaro che non tutti riescono ad ottenerli. Gli altri, dopo aver fatto un breve percorso nelle giovanili di queste società, non vanno più avanti e vengono abbandonati. Non si sa che fine faccia il 70 per cento di loro. È una piaga sociale di cui si parla molto poco, ma che purtroppo è ampiamente diffusa nel mondo del calcio professionistico”.
Tale fenomeno si porta dietro una scia oscura di reati che includono la tratta di esseri umani, lo sfruttamento dei minori e il riciclaggio di denaro. Inoltre, mette in luce una verità che pochi osano ammettere, ma che anche nel caso del conflitto in Ucraina è stata nuovamente dimostrata: esistono discriminazioni fra i migranti. Almeno, agli occhi dell’opinione pubblica.
Da un lato, un bambino che viene in Europa con l’obiettivo di fare carriera come calciatore non merita “compassione”; non sta fuggendo da una guerra, sta semplicemente inseguendo un sogno. Peccato che, nella maggior parte dei casi, quel sogno non sia suo e realizzarlo sia pressoché impossibile. Dall’altro lato, “un calciatore polacco che gioca a Wembley va bene, ma sembra che un idraulico polacco che ripara i bagni a Wembley sia meno gradito”, sottolinea il professor James Esson, docente di geografia umana presso l’Università di Loughborough, in Inghilterra.
Avsi, al contrario, sta valorizzando il calcio – che ha regole semplici e necessita soltanto di una palla per essere praticato – impiegandolo come uno strumento di integrazione, di crescita e di inclusione sociale. Nel caso del programma condotto ad Aqaba, questo sport ha dato ai bambini la possibilità di esprimere il proprio talento senza il timore di essere giudicati, favorendo il loro sviluppo psicosociale; li ha resi più fiduciosi, più resilienti e ha insegnato loro il gioco di squadra, che rappresenta il risultato di un lungo percorso di crescita. Il tutto è stato realizzato nell’ambito del progetto Mujtamai Amani, finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e implementato in partnership con Terre des hommes.
Dal 2016 Aics promuove in Giordania iniziative di cooperazione internazionale a sostegno dei gruppi più vulnerabili della popolazione rifugiata e locale, dello sviluppo sostenibile e della crescita economica, oltre a impegnarsi a rafforzare le istituzioni democratiche e lo stato di diritto. “Il rafforzamento delle comunità più svantaggiate viene alimentato anche dalla potenzialità del capitale sociale che si costruisce attraverso attività ludico-ricreative, proprio come nel caso del calcio”, commenta Emilio Cabasino, titolare della sede Aics di Amman. “Il calcio è, un po’ come la musica, un linguaggio universale. Come in un’orchestra, tutti hanno un ruolo ben preciso, ma si gioca in squadra”.
Il progetto Mujtamai Amani porta gioia e speranza in Giordania.
La mia comunità è la mia sicurezza
L’obiettivo del progetto è promuovere una cultura di pace che può contribuire a mantenere sane relazioni, a prevenire disagi psicologici e a migliorare la coesione sociale, aspetto di grande importanza in un paese come la Giordania dove le vite dei rifugiati e dei membri delle comunità locali si intrecciano quotidianamente.
La Giordania ospita rifugiati palestinesi e iracheni; a partire dal 2011, anno in cui è iniziata la guerra in Siria, sono arrivati anche centinaia di migliaia di siriani. Parliamo di una popolazione composta da dieci milioni di persone, fra cui mezzo milione di siriani. Molti di loro vivono attualmente nella città di Qweirah e nell’omonimo distretto, facente parte del governatorato di Aqaba.
Facciamo un po’ di chiarezza riguardo ai termini utilizzati per definire coloro che lasciano il proprio paese. – Chi lo fa per colpa di guerre, catastrofi naturali o persecuzioni politiche, viene definito “profugo”. – Può a quel punto richiedere la protezione internazionale, divenendo così “richiedente asilo”. – Se la domanda viene accolta, l’individuo assume lo status di “rifugiato”. – Chi appartiene a una di queste tre categorie può anche dirsi “sfollato”. Gli sfollati interni sono coloro che hanno lasciato la propria casa, ma non il paese. – Il migrante è colui che si allontana dal suo luogo di residenza per altri motivi, legati soprattutto alla ricerca di maggiore benessere.
Dopo svariati caffè al cardamomo e altrettante tazze di tè insieme al vicesindaco di Qweirah, incontriamo anche Abdalla Njadat, commissario agli Affari regionali della Zona economica speciale di Aqaba. Scopriamo che gli uomini non stringono la mano alle donne per evitare che il contatto fisico possa infastidirle.
“Con l’emergenza siriana e le altre crisi che hanno generato intensi flussi migratori, ci siamo ritrovati a dover assicurare servizi, educazione, infrastrutture a dieci milioni di persone anziché cinque. Potete immaginare cosa significhi tutto questo. Tuttavia, ci siamo impegnati a garantire gli stessi servizi a ogni cittadino, indipendentemente dalla sua nazionalità. Quella di Qweirah è fra le municipalità giordane che hanno accolto più rifugiati e, durante la stagione del raccolto, ce ne sono altri che arrivano qui dal nord per lavorare in agricoltura”, racconta Njadat.
Sono rifugiati solo perché lo dice il nome. Sono esseri umani con cui condividiamo la terra e le tradizioni. Sono, a tutti gli effetti, parte integrante della comunità.
Abdalla Njadat, già sindaco di Qweirah
La crescita demografica si traduce nell’incremento della domanda di risorse alimentari e idriche. Risorse che, a causa dei cambiamenti climatici, sono sempre più scarse in Giordania, al secondo posto nella classifica dei paesi caratterizzati dalla maggiore scarsità d’acqua. Le sue risorse idriche rinnovabili sono inferiori a 100 metri cubi a persona l’anno, significativamente al di sotto della soglia minima di 500 metri cubi a persona.
L’aumento delle temperature, la siccità e la desertificazione stanno mettendo a dura prova gli agricoltori – oltre che gli abitanti –, mentre mar Rosso e mar Morto stanno vivendo due fenomeni opposti, ma ugualmente tragici. Il primo, che ospita barriere coralline ricche di biodiversità, sta subendo l’effetto dell’innalzamento del livello dei mari: dal 1993 al 2020, il suo livello è cresciuto in media di 3,88 millimetri l’anno. Un dato in linea con il tasso globale di 3,30 ± 0,50 mm/anno, ma estremamente preoccupante se lo si esamina nel dettaglio. Dal 2000, infatti, la situazione risulta particolarmente grave, con un innalzamento di 6,40 millimetri annui.
Al contrario, il mar Morto – che in realtà è un lago salato – si sta prosciugando al ritmo di un metro l’anno. Il suo livello è sceso di almeno venti metri negli ultimi due decenni, mentre il suo volume si è ridotto di un terzo nel giro di cinquant’anni. A questi ritmi, rischia di scomparire prima del 2050. “Sta venendo a mancare la terra sotto i nostri piedi”, racconta un agricoltore di nome Samir Muhammad al-Habashna. Mentre il lago arretra, si prosciugano anche le acque sotterranee, causando il cedimento del terreno. La colpa di tutto questo non è solo del riscaldamento globale: il mar Morto sta sparendo anche perché il flusso che lo alimenta viene deviato per l’industria, l’agricoltura e l’uso domestico. Dalle sorgenti del Libano meridionale e della Siria, l’acqua sfocia nel lago di Tiberiade, viene convogliata nel fiume Giordano e da lì finisce nel mar Morto: prima che Israele iniziasse a deviare le sorgenti negli anni Sessanta, quest’ultimo riceveva circa 200 milioni di metri cubi d’acqua l’anno. Più tardi, anche in Giordania e Siria è aumentata la richiesta di risorse idriche, al punto che attualmente la quantità di liquido che raggiunge il lago salato è inferiore a 100 milioni di metri cubi. Lo riferisce all’emittente Al Jazeera il professor Nizar Abu Jaber dell’Università tedesco-giordana. Questa situazione non fa che alimentare le tensioni presenti nell’area.
Per far fronte alle molteplici sfide causate dall’aumento della popolazione in Giordania, la Cooperazione italiana promuove iniziative volte a rafforzare la resilienza e la stabilizzazione del paese e creare le condizioni per lo sviluppo sostenibile nel medio e lungo termine.
Nell’ambito di un progetto finanziato dalla Cooperazione tedesca (Giz), Avsi ha coinvolto lavoratori giordani e siriani nella trasformazione di un parco abbandonato in un centro di aggregazione per la comunità di Humayma, nel governatorato di Aqaba, tramite un programma di cash for work.
Un’iniziativa che ha permesso di passare da una situazione di emergenza a una di sviluppo offrendo un impiego a persone vulnerabili: un’occasione per migliorare la loro situazione economica e affinare le loro competenze, così da rendere ciascun individuo artefice della propria crescita. Mediante il coinvolgimento diretto dei beneficiari anche nella fase di pianificazione e di realizzazione del progetto, si è creato fra le comunità ospitanti e i rifugiati un senso di appartenenza e coesione sociale. “Da quando il parco è stato riaperto, la città di Humayma è rinata”, commenta Dina Al Younes, architetto che ha seguito i lavori. “È un’oasi nel deserto”. Camminando fra gli alberi e fra gli scivoli, sfiorando con le dita i tessuti delle tende pazientemente intrecciate dalle donne per riparare le panchine dal sole rovente, non possiamo che darle ragione. I toni dorati della sabbia incontrano l’azzurro fiordaliso del cielo, in una danza cui partecipano anche le montagne che fanno da sfondo a questo quadro meraviglioso. Un quadro impreziosito da variopinti mosaici realizzati a mano che raffigurano diversi elementi della natura.
Humayma è il nome odierno dell’antica città di Hawara, fondata dai nabatei sotto il regno di Areta III (87-62 a.C.). Il popolo dei nabatei era composto da commercianti e aveva come centro politico la città di Petra. Non a caso, è proprio lì che si trova la maggior parte dei reperti archeologici risalenti a quell’epoca. Molti, però, si trovano anche nel plateau desertico di Ḥismā, lungo la rotta commerciale a sud di Petra: è lì che Avsi, sempre tramite un programma di cash for work, ha contribuito al restauro di un importante sito archeologico e, soprattutto, del centro per i visitatori. Finalmente, grazie a un percorso guidato, questi ultimi possono ammirare l’antico sistema di approvvigionamento idrico, i resti di cinque chiese risalenti al periodo bizantino, il palazzo e le moschee degli abbàsidi, la dinastia califfale musulmana che governò il mondo islamico dal 750 al 1258 d.C.
“Ad Humayma ci sono tracce delle civiltà nabatea, bizantina, romana e islamica. Nel 2020, Avsi ha realizzato dei percorsi che conducono ai monumenti storici e archeologici della zona: il pozzo, la fortezza romana, i bagni romani e la chiesa bizantina”, spiega Eid Al-Manajah, direttore del sito archeologico. “Questo lavoro, che ha coinvolto la comunità locale, è stato estremamente importante perché in precedenza era molto complicato guidare i turisti alla scoperta dei monumenti. Adesso, grazie ai pannelli informativi e ai percorsi realizzati, gli itinerari percorribili sono chiari e visibili ai visitatori che, in questo modo, possono visitare l’area in autonomia. Noi, così come il ministero del Turismo, vorremmo che questo sito venisse promosso. Purtroppo con la pandemia è stato tutto rallentato. Attraverso le pagine social del ministero cerchiamo di promuovere il nostro lavoro e vorremmo presto aprire due strutture ricettive qui ad Humayma per incoraggiare il turismo”.
Al centro giovanile di Aqaba, ristrutturato anch’esso grazie all’intervento di Avsi e al coinvolgimento di lavoratori locali, fanno tappa ogni anno almeno 11mila giovani, tra cui rifugiati provenienti da Siria, Yemen e altri paesi arabi. Possono entrare a far parte della squadra di calcio del centro: “Noi giocavamo per strada, è da qui che nascono le stelle”, dicono i loro allenatori che, nelle foto, stanno gareggiando con i rappresentanti del dipartimento junior di Aic.
Possono svolgere attività di volontariato, imparare a suonare le percussioni, usufruire della biblioteca, cimentarsi nel ping-pong o negli scacchi. C’è anche uno studio per la produzione di contenuti audiovisivi che mettano in risalto le imprese guidate dai giovani. Chiunque può ricevere un supporto qui. È un luogo dove trovare rifugio dalla violenza, dalla droga, dalla povertà.
Un altro luogo dove trovare rifugio si colloca nel quartiere di Shallale, il più povero di Aqaba, ed è la struttura dove l’ong Tanaghom, partner di Avsi, porta avanti i suoi programmi dedicati soprattutto alle donne – di origini giordane, palestinesi, sudanesi, egiziane, yemenite; alcune di loro provengono dalla striscia di Gaza. Ameera Abu Samra ci accoglie con un sorriso e una tazza di tè bollente, così rovente da scottarci le mani ma scaldarci l’anima. Ci sediamo sul divano, in attesa di ascoltare le sue testimonianze. È vestita di bianco e nero, elegantissima; le rughe ai lati della bocca raccontano dei sorrisi che ha regalato, mentre quelle vicino alle sopracciglia lasciano intravedere le difficoltà che hanno costellato la sua vita. Lei tira fuori una scatola di biscotti ricoperti di semi di sesamo e il profumo invade la stanza. Sembra quasi di essere “dalla nonna”. Rimaniamo ad ascoltarla, rapiti dalle sue parole.
Quest’area è dimenticata dal governo, che non fornisce assistenza né servizi. Qui le persone sono povere, ma i loro bisogni non rappresentano una priorità per il governo. Tra i problemi più gravi ci sono i matrimoni precoci, con ragazze di 13 e 14 anni costrette a sposarsi, disordini sociali, conflitti etnici, abuso di droga e un alto tasso di divorzi. I bambini lasciano la scuola per dedicarsi a pesanti lavori manuali o per fare l’elemosina nelle strade. Spesso, le loro madri non sono istruite e non hanno soldi per consentire ai figli di proseguire gli studi.
L’utilizzo dell’edificio in cui ci troviamo è stato concesso gratuitamente all’ong, ma ad una condizione ben precisa: i programmi e le attività che si svolgono al suo interno devono essere dedicati esclusivamente a cittadini giordani. Se nel complesso la Giordania rappresenta un esempio positivo di accoglienza e integrazione, questo caso particolare dimostra che, scavando a fondo, si trovano ancora dei problemi da risolvere. Per questo, Abu Samra ha messo a disposizione dei rifugiati un’altra struttura di cui si è fatta personalmente carico. È una persona che ha deciso di dedicare la sua vita agli altri. Non ha nulla, non riceve aiuti: eppure, è disposta a dare tutto quello che ha e vive per aiutare la sua comunità. Non si può che rimanere affascinati da qualcuno come lei. Di certo non ce ne dimenticheremo.
Tra le attività che proponiamo, ci sono corsi pagati di cucina, make-up, artigianato e cucito per le donne. Le aiutiamo anche a conseguire l’Ecdl, la patente europea per l’uso del computer. Tutto questo, con l’obiettivo di aiutarle a trovare una professione. Parallelamente, forniamo loro assistenza legale e curiamo programmi educativi per i loro bambini.
Le madri non vengono lasciate sole durante la crescita dei loro figli; esistono programmi studiati apposta per loro in modo che possano ricevere sostegno e consigli. Nel tentativo di scongiurare matrimoni precoci o quantomeno di migliorare il rapporto coniugale, alle ragazze viene spiegato quali sono i loro diritti, come difendersi, come ricevere assistenza. Ameera ci racconta la storia di una ragazza che subiva abusi da parte di suo padre e che lo ha fatto presente alla polizia. Gli agenti l’hanno portata in un centro di accoglienza, dove, anziché ricevere aiuto, è stata costretta a dire che aveva mentito. È tornata a casa. I familiari dicono che si sia suicidata, ma è quasi certo che sia stato suo padre a ucciderla.
Tramite Tanaghom, le vittime di violenza domestica sono seguite da una squadra di psicologi con cui prendono parte a sessioni private o terapie di gruppo. Può sembrare poco, ma fidatevi, è capace di fare la differenza. Salutiamo Ameera con una mano sul cuore, consapevoli che l’incontro con lei ci ha cambiato profondamente.
Di seguito, ecco un mini dizionario che racchiude alcune delle parole più impiegate dai giordani nella quotidianità. Un mezzo per entrare, in punta di piedi, a far parte della cultura e delle antiche tradizioni che questo popolo custodisce da millenni. Uno scrigno che, fra luci e ombre, si è aperto al resto dell’umanità.
Yalla, è tempo anche per noi di salutarci: si conclude il nostro reportage, ma questo non vuol dire che smetteremo di far luce sulle sfide che si presenteranno in futuro al popolo giordano. Inshallah, faremo ritorno in questo territorio arido, ma incredibilmente fertile dal punto di vista delle relazioni umane. Aspettando quel momento, non ci resta che dire: grazie. Shukran.