“Conserviamo i semi nelle nostre mani”. In Libano le soluzioni alla crisi del grano e alla crisi climatica passano per la riscoperta della terra e la tutela dei semi locali.
“Qui produciamo, riproduciamo e conserviamo semi autoctoni provenienti dal Biled el-sham, il territorio compreso tra Libano, Siria, Giordania, Palestina e Iraq”. A Saadnayel, un villaggio a 45 chilometri da Beirut, capitale del Libano, si incrociano le strade di una regione divisa da confini invalicabili, unita da tradizioni contadine e condizioni climatiche comuni, ma anche da politiche agricole orientate verso le monoculture che hanno causato la perdita della biodiversità locale.
Nel cuore della valle della Bekaa, dietro le cime innevate del monte Libano, le abitazioni grigie tappezzate da tappeti colorati stesi al sole si mescolano alle tende bianche con la scritta azzurra Unhcr, dove i rifugiati della vicina Siria vivono da ormai dieci anni. Tra queste case, ce n’è una diversa dalle altre: le pareti non sono in muratura, ma ricoperte da una malta naturale, fatta di una miscela resistente di terra, sabbia e paglia. “Ci permette di mantenere la temperatura ideale per la conservazione dei semi”, spiega Serge Harfouche.
Qui produciamo, riproduciamo e conserviamo semi autoctoni.
Serge è nato e cresciuto a Tripoli, città della costa nord del Libano, dove faceva il libraio. Mentre amici e coetanei partivano, Serge ha deciso di non lasciare il paese, ma la sua vita in città. Si è trasferito in questa regione agricola, ha recuperato un terreno e, con un gruppo di giovani libanesi, nel 2015 ha fondato la cooperativa Buzuruna Juzuruna, i nostri semi sono le nostre radici in arabo.
Piantiamo varietà di semi abbandonate da tempo, sostituite da quelle ibride importate che richiedono l’uso di fertilizzanti e pesticidi.
Di fronte all’entrata della cascina, dove attorno a un tavolo di legno scuro si discute dell’organizzazione del mercato cittadino, un campo coltivato si estende per centinaia di metri quadrati. “Qui piantiamo varietà di semi abbandonate da tempo, sostituite da quelle ibride importate che richiedono l’uso di fertilizzanti e pesticidi. Cerchiamo di produrne a sufficienza per mettere i nostri prodotti, più sani e sostenibili, a disposizione della comunità locale“, spiega Serge camminando avanti e indietro tra le file ordinate di verdure. “Il nostro obiettivo è politico: pratichiamo la sovranità alimentare”.
Sono sempre di più le associazioni e piccole cooperative che, come Buzuruna Juzuruna, scelgono di ritornare alla terra in risposta alla profonda crisi alimentare che ha messo in ginocchio il Libano. Di fronte all’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità – la svalutazione della lira libanese ha portato ad un’inflazione del 208 per cento a marzo 2022 – si torna a produrre il proprio cibo.
Negli ultimi due anni, razionare la spesa o rinunciare a prodotti inaccessibili sono diventate pratiche quotidiane per i Libanesi: l’80 per cento del paese vive al di sotto della soglia di povertà. Istituire una filiera corta del cibo, quindi, non solo permette di avere accesso a prodotti più sani e sostenibili, ma riduce la dipendenza da quei generi alimentari importati dall’estero, ovvero, in Libano, gran parte dei prodotti di prima necessità.
A partire dai cereali: il 95 per cento del grano consumato nel paese proviene da Ucraina (80 per cento) e Russia (15 per cento), percentuale che raddoppiata dopo l’esplosione del porto di Beirut e la distruzione dello stock nazionale conservato nei silos. Il 4 agosto 2020 sono andate in fumo oltre 150mila tonnellate di grano. Il poco che resta viene beccato dai corvi che sorvolano lo stesso porto in cui grandi navi merci continuano a scaricare i prodotti importati.
Istituire una filiera corta del cibo significa ridurre la dipendenza dai prodotti importati dall’estero: per il Libano, gran parte dei prodotti di prima necessità.
Un anno e mezzo più tardi, la Russia occupa l’Ucraina. Con la guerra tra due dei principali granai al mondo, il meccanismo del mercato mondiale dei cereali si inceppa. I prezzi aumentano. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i paesi di Medio Oriente e nord Africa, principali importatori dei cereali dell’Est.
Mentre i carichi di grano ucraino restano bloccati nel porto di Odessa e le bombe piovono sui campi impedendo la raccolta, il Libano si ritrova così a fare i conti una penuria di cereali. “Disponiamo di circa uno o due mesi di riserve. Le conseguenze più gravi le osserveremo nei prossimi mesi”, conferma Amine Salam, l’attuale ministro dell’Economia.
“Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno”, gli fa eco Walid Attallah, manager di uno dei più grandi forni industriali del paese, Wooden Bakery, dove ogni mattina arrivano quintali di sacchi di farina. “Ne usiamo 50mila tonnellate al mese, ma è sempre più difficile reperirla. Siamo stati costretti a diminuire il peso delle confezioni su richiesta delle autorità. Senza pane, si rischia il caos“. Per le vie del quartiere cristiano di Geitawi, nel centro di Beirut, il proprietario di un piccolo forno di manakish, il tradizionale pane condito con za’atar, un mix di sesamo e spezie, racconta: “Noi piccoli produttori troviamo la farina solo sul mercato nero”.
Noi piccoli produttori troviamo la farina solo sul mercato nero.
Il Libano si aggiunge così alla lunga lista di Stati dell’area che negoziano nuove importazioni con Francia, Stati Uniti o Canada. Un’impresa non semplice per un paese che ha dichiarato il default nel 2020, e fatica quindi a trovare le risorse finanziarie necessarie per compensare l’aumento del prezzo del grano, che oggi sfiora i 400 euro a tonnellata, così come quello di altri generi alimentari importati. Ma nel paese c’è già chi ripensa l’agricoltura locale, proponendo un modello alternativo alle importazioni, capace di rispondere non solo alla crisi alimentare, ma anche a quella climatica.
“Il Libano non sarà in grado di produrre il fabbisogno necessario per nutrire l’intera popolazione. Un piano governativo strategico, però, potrebbe permettere di aumentare la produzione locale”, propone Hassan Machlab, direttore della sede libanese dell’Icarda, il Centro internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride. In questa banca dei semi vengono conservati, riprodotti e studiati centinaia di varietà di genomi originari del Mediterraneo e della Mezzaluna fertile, poi redistribuiti ai contadini locali.
Le colture che nutrono buona parte del pianeta sono tre: riso, grano e mais. Eppure disponiamo di centinaia di specie diverse che si adattano alle condizioni climatiche, hanno una buona resa e resistono alle malattie
“Attualmente le colture che nutrono buona parte del pianeta sono tre: riso, grano e mais. Eppure disponiamo di centinaia di specie diverse che si adattano alle condizioni climatiche, hanno una buona resa e resistono alle malattie”, spiega Mariana Yazbek nel suo laboratorio all’Icarda, sulle pendici delle montagne che tracciano il confine con la Siria. “Coltivare i semi autoctoni, riprodurli, conservarli, vuol dire affrontare le prossime sfide climatiche e alimentari. Significa lavorare per le generazioni future”.
È proprio con questo intento che Ounsi El Daif, fisico di formazione, ha lasciato la Svizzera per tornare in Libano. Nella cittadina d’origine della famiglia, Zgharta, nel nord del paese, ha fondato la cooperativa Ghoussoun, autosufficiente non solo a livello alimentare, ma anche energetico. Prima, il grande orto condiviso su cui oggi corrono i bambini di Zgharta e dei quartieri vicini durante un laboratorio di compostaggio ospitava una discarica.
L’associazione l’ha ripulito per restituirlo alla comunità, che vi coltiva frutta e verdura a partire da semi locali più resistenti e meno dispendiosi, perché non richiedono l’uso di fertilizzanti o pesticidi. Le case della zona sono dotate di pannelli solari e di un sistema di raccolta dell’acqua piovana. “Nell’ambito della crisi ambientale globale, abbiamo deciso di avviare un progetto olistico che produce cibo ed energia, raccoglie acqua e fornisce soluzioni educative, di gestione dei rifiuti. L’agroecologia segue un funzionamento circolare. Si prendono i semi, si piantano, si costruisce il terreno con i rifiuti organici, si raccoglie il cibo e questo cibo torna alla terra”, spiega.
Alcuni dei semi locali seminati a Zgharta provengono dalla cooperativa sorella Buzuruna Juzuruna. Come in passato, lo scambio dei semi ha legato l’una all’altra queste realtà che costituiscono oggi una vera e propria rete di progetti che rimettono al centro sostenibilità economica, sociale e ambientale.
Dal nord al sud del paese, i prodotti coltivati a partire dai semi di Buzuruna Juzuruna o dell’Icarda, passati di mano in mano, sono arrivati fino a Beirut. In una capitale svuotata, dove la notte è sempre più buia con solo tre ore di elettricità statale quotidiane, un’associazione vende ortaggi, latticini e altri prodotti locali in un supermercato dove non si paga né in lire libanesi, né in dollari, ma solo in punti.
Un’idea di Maya Chams Ibrahimchah, che con la sua associazione Beit el-Baraka garantisce una spesa settimanale a 226mila famiglie libanesi in situazione di precarietà, a partire da pensionati, a cui lo Stato non garantisce più una pensione mensile, e famiglie con bambini. “Diamo loro un buono con dei punti mensili che possono usare nel nostro supermarket, senza avere l’impressione di elemosinare un pasto. Garantiamo loro anche l’accesso ad una farmacia e le cure mediche”.
I prodotti messi a disposizione da Beit el-Baraka provengono da una rete di produttori locali stipendiati dall’associazione, che praticano la permacultura fornendo al supermercato di Beirut prodotti di qualità. “Produciamo senza fertilizzanti né pesticidi. Garantire un’alimentazione sana ci aiuta a ridurre le cure mediche”, spiega Maya. “Otto anni fa, abbiamo anticipato la crisi economica e la svalutazione della lira libanese decidendo di investire nell’agricoltura grazie a finanziamenti provenienti dalle donazioni. Oggi Beit El-Baraka coltiva 200mila ettari di terra”.
Tra quelli che coltivano questi terreni, ci sono Sara e Yves Achkar, due giovani ingegneri agricoli di 20 e 26 anni che lavorano i terreni dell’ex convento Saint-Georges, affidati sessant’anni fa alla loro famiglia, e gestiscono un piccolo allevamento per la produzione di prodotti caseari.
Ogni settimana, questi vengono trasportati a Beirut per essere “venduti” nel supermercato di Beit El-Baraka. Questa collina terrazzata, macchia verde tra il cemento che la circonda, si è salvata grazie alle proprietà non edificabili delle monache maronite e si affaccia su una delle città più inquinate al mondo secondo Greenpeace, Jounieh.
Le varietà locali sono già adattate al nostro clima.
Con gli anni, proprio a causa della crisi economica, l’azienda famigliare si è riconvertita alla produzione agricola biologica a partire da semi riprodotti di stagione in stagione. “Piantiamo gli stessi semi che ha seminato mio nonno. Hanno più di 40 anni e si sono già adattati all’ambiente”, spiega Yves mentre cammina nel terreno. “Non usiamo fertilizzanti, non usiamo niente di chimico. Facciamo il compost naturale e lo aggiungiamo alla terra. In questo modo non spendiamo nulla”, continua Yves.
Insieme a sua sorella Sara, Yves ha partecipato alla rivoluzione del 2019 ed entrambi hanno deciso di restare. I due fratelli immaginano un nuovo Libano proprio a partire da un ritorno della loro generazione alla terra: “Fare cibo è un po‘ fare la rivoluzione. Lavoriamo la terra per cambiare le cose, per produrre cibo sano per la salute, per tutelare l’ambiente e per lasciare un suolo più sano anche alle future generazioni”.