La sostenibilità torna protagonista delle scelte degli italiani: lo dimostra il nono Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate.
Diversità, inclusione, accoglienza, rispetto. Sono parole tutt’altro che astratte, parole che sempre più orientano le scelte di individui e imprese. Perché sostenibilità vuol dire anche questo: vuol dire mettere al centro le persone.
A un primo sguardo, la sfera della società può apparire lontanissima dalle altre due che compongono l’acronimo Esg, cioè ambiente (environment) e governance. In realtà, gli intrecci sono fittissimi. Per cominciare, sono le persone a pagare il prezzo degli sconvolgimenti del clima. Lo vediamo negli stati insulari del Pacifico che rischiano di scomparire dalle cartine geografiche, così come nelle nostre città, ingiallite dalla siccità o colte di sorpresa dai nubifragi. E l’economia? C’entra eccome, perché le aziende non possono più limitarsi a immettere prodotti e servizi sul mercato: devono anche dimostrare di farlo in modo responsabile nei confronti delle persone che fanno parte della loro stessa organizzazione, della filiera, della comunità in cui si insediano.
Dopo decenni in cui questi e altri temi sono rimasti sotto traccia, finalmente la consapevolezza sta cambiando. Gli italiani sono attenti, si informano e ne discutono sul posto di lavoro, in famiglia, in università. Lo dimostra l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate, giunto nel 2023 alla sua nona edizione.
Quanto è importante la sostenibilità per gli italiani? Quanto è presente nel loro bagaglio di conoscenze, nei loro atteggiamenti e nei loro comportamenti? Queste sono le grandi domande a cui, da ben nove anni consecutivi, risponde l’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile, un progetto immaginato e realizzato da LifeGate, in collaborazione con l’istituto di ricerche di mercato Eumetra.
Il questionario è stato sottoposto a un campione di 1.100 persone, rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne. Con una rappresentanza della Generazione Z, cioè di ragazzi e ragazze di età compresa fra i 18 e i 24 anni, gli stessi che hanno riempito a più riprese le piazze con i loro scioperi per il clima. Per avere un quadro più chiaro delle tendenze nelle grandi città, c’è anche un sovracampionamento sugli abitanti di Milano e Roma.
L’edizione 2023 dell’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile vanta il patrocinio di Commissione europea, Parlamento europeo, ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica, regione Lombardia, comune di Milano, Assolombarda, Confcommercio e Connect4Climate, ed è stata realizzata con il supporto di Almawave Group, BWH Hotels Italia, Poste Italiane, Gruppo Unipol, Vaillant Italia.
Oltre a restituire un quadro fedele di come l’attitudine degli italiani stia cambiando, i dati emersi dall’indagine sono anche il punto di partenza per una riflessione a tutto tondo che coinvolge esperti del mondo delle imprese, della cultura e della ricerca. Un dibattito che si è tenuto nella mattinata di martedì 10 ottobre 2023 nei suggestivi spazi di Villa Necchi Campiglio, dimora storica immersa nel verde nel pieno centro di Milano.
La sostenibilità è una cosa seria. Di questo gli italiani sembrano ormai convinti. Nel 2015 il 40 per cento dei nostri connazionali la bollava come una moda passeggera e un altro 12 per cento era indeciso: sommando questi due dati, si superava quindi la metà della popolazione. Nel 2023, scettici e indecisi sono una netta minoranza: per il 68 per cento degli italiani la sostenibilità è un tema sentito.
Certo, per passare dalla teoria alla pratica ci vuole qualcosa di più. Ci vuole un tangibile interesse o, ancora meglio, una sincera passione. Perché adottare uno stile di vita davvero sostenibile significa avere il coraggio di cambiare lo status quo. E può essere faticoso scardinare alcune vecchie abitudini, prestare attenzione agli sprechi, ponderare gli acquisti (anche scegliendo alternative etiche ma più costose). Non c’è dunque da stupirsi se, durante il biennio più intenso della pandemia da coronavirus, il coinvolgimento degli italiani (dato dalla somma di interessati e appassionati) abbia vissuto uno stallo: 72 per cento nel 2020, 73 per cento due anni dopo.
Nel 2023 gli italiani sembrano volersi lasciare alle spalle questa fase di chiusura forzata in sé stessi. Di elementi esterni destabilizzanti ce ne sono ancora, a partire dalla guerra in Ucraina e dalla crisi dei prezzi che ha generato. Eppure, i nostri connazionali hanno voglia di guardare al futuro. Tornano a riflettere sulla sostenibilità, a discuterne, a farla propria. Ne è la prova il numero di cittadini che si sentono coinvolti: sono 39,5 milioni, cioè il 79 per cento della popolazione. Il balzo in avanti è di ben sei punti percentuali in un anno.
Fra gli argomenti che scuotono le coscienze c’è innanzitutto la crisi climatica. Un’espressione che, rispetto alla più neutra “riscaldamento globale”, trasmette l’urgenza di ciò che sta accadendo. Ormai il 78 per cento degli italiani sa cosa significa, ben nove punti percentuali in più rispetto all’anno precedente. Sono ancora di più coloro che si dicono preoccupati (l’85 per cento) e che chiedono a gran voce di sostenere la battaglia contro i cambiamenti climatici (l’86 per cento).
D’altra parte, non c’è da stupirsi. Quando i mass media hanno iniziato a descrivere le conseguenze del riscaldamento globale, lo hanno fatto con immagini drammatiche ma al tempo stesso lontane: gli iceberg alla deriva nell’Artico, le sterminate distese di terra arida in Asia. Oggi, qualsiasi italiano potrebbe citare fenomeni a cui ha assistito in prima persona, per esempio l’interminabile siccità dell’estate 2022, o gli incendi che nell’arco di tre anni hanno ridotto in cenere un’area del Belpaese grande quasi come l’Umbria, o ancora le spaventose alluvioni di maggio in Emilia-Romagna. E la rilevazione dell’Osservatorio è stata condotta a giugno, cioè poche settimane prima che Milano perdesse cinquemila alberi in una notte per un violento nubifragio e che Palermo, con la colonnina di mercurio sui 47 gradi centigradi, polverizzasse un record di temperatura che durava da un quarto di secolo.
Per gli italiani, insomma, interessarsi al clima non è più soltanto un segnale di consapevolezza. È anche una necessità impellente. Perché il clima determina, e determinerà sempre più in futuro, la scelta di dove vivere. Di come proteggere i propri beni materiali, a partire dalla casa (un italiano su quattro si dice disposto a stipulare una polizza contro i danni degli eventi meteo estremi, anche a costo di pagare di più). Di cosa mangiare, se è ormai la norma che la siccità o le grandinate distruggono le coltivazioni e fanno salire alle stelle i prezzi.
Anche quest’anno il tema energetico è un focus importante dell’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile. Il dibattito ha travalicato i confini specialistici nel 2022, dominando l’agenda pubblica anche per buona parte del 2023. La crisi legata al conflitto ucraino e l’aumento dei costi del gas hanno spinto gli italiani a riflettere sempre di più sui propri consumi e a valutare soluzioni per ridurre la dipendenza energetica nazionale. Nell’attuale scenario, le energie rinnovabili e la transizione energetica sono diventate temi prioritari: rispettivamente il 78 per cento e il 52 per cento degli italiani ne hanno già sentito parlare (un dato, quest’ultimo, che cresce di 7 punti percentuali rispetto all’anno precedente).
Gli italiani sostengono quasi all’unanimità (90 per cento) che il passaggio all’energia verde sia una priorità. Tuttavia, nel 2022, l’Italia ha visto una diminuzione dell’8 per cento nella produzione di energia da rinnovabili rispetto all’anno precedente. Questo calo è stato influenzato dalla siccità che ha limitato la produzione idroelettrica, ma anche dal mancato rilascio del decreto Fer 2, atteso dal 2019, che mira a supportare le fonti rinnovabili meno competitive. Eppure la transizione energetica non riguarda solo la lotta contro il riscaldamento globale: per molte persone rappresenta anche un’opportunità per raggiungere l’indipendenza energetica e risparmiare.
Ma per abbattere i costi è fondamentale anche limitare sprechi e consumi. Come? Una strategia efficace è potenziare l’efficienza energetica degli edifici. L’Europa sta agendo in questa direzione con la direttiva Case green che prevede la riqualificazione del parco immobiliare: stando alla sua forma attuale, che deve ancora essere negoziata con i 27 stati membri, gli edifici residenziali dovranno raggiungere almeno la classe di prestazione energetica E entro il 2030 per poi salire alla D entro il 2033. Gli italiani stanno già entrando in questo ordine di idee. Stando ai risultati dell’Osservatorio, il 33 per cento sarebbe disposto a pagare di più per un sistema di riscaldamento efficiente, mentre il 22 per cento spenderebbe di più per prodotti con funzionalità di domotica orientate al risparmio energetico.
Un dato significativo di quest’anno è l’aumento delle persone che considerano prioritario ripristinare le vecchie centrali nucleari e costruirne nuove: si arriva al 17 per cento, con un balzo in avanti di sei punti percentuali sull’anno precedente. Nonostante il chiaro rifiuto espresso con i referendum del 1987 e 2011, in contesti critici (come già nel 2008) il nucleare torna prepotentemente in discussione perché presentato da alcune parti della politica e dell’imprenditoria come una soluzione sostenibile ed economicamente vantaggiosa. Ma la proposta di nuovi impianti nucleari, soprattutto di nuova generazione, necessita di una pianificazione a lungo termine e investimenti ingenti.
A partire dal 2035, tutte le nuove auto e i van destinati al mercato europeo dovranno avere emissioni zero, in conformità alle direttive europee che puntano a rendere il settore dei trasporti completamente sostenibile entro il 2050. A che punto siamo in Italia? Secondo i dati che ci restituisce l’Osservatorio, se da una parte il 71 per cento degli italiani pensa sia giusto che un paese incentivi l’acquisto di autoveicoli elettrici, nella pratica sono ancora poche le persone che hanno fatto il passo di utilizzarne regolarmente uno (solo il 9 per cento).
In generale, i dati sull’utilizzo dell’auto elettrica non si discostano molto da quelli degli anni passati, ma registrano un crescente pessimismo legato alla paura dell’aumento dei costi di acquisto. Per il 41 per cento delle persone intervistate, nel prossimo futuro le case automobilistiche saranno in difficoltà ad adattare le produzioni e il prezzo di mercato delle nuove auto aumenterà. Anche se le normative europee tendono a stimolare l’innovazione e la concorrenza portando potenzialmente a prezzi d’acquisto sempre più bassi, e le case automobilistiche sono già all’opera per questo, le auto elettriche sembrano ancora costare di più rispetto a quelle con motori tradizionali. Ma è davvero così? In realtà, se si considera lo user cost, cioè il totale delle spese, un autoveicolo elettrico risulta già più redditizio in quanto i prezzi dell’elettricità sono attualmente più bassi di quelli della benzina e la manutenzione richiesta è inferiore.
Un’altra preoccupazione che alimenta lo scetticismo verso il passaggio ai veicoli elettrici nel nostro paese è la carenza di infrastrutture. Secondo i dati dell’Osservatorio, per il 20 per cento delle persone lo stato dovrebbe investire rapidamente nella creazione di sistemi di ricarica capillari. Difficilmente, però, il dibattito mediatico si sofferma su ciò che realmente fa la differenza, cioè il rapporto tra auto elettriche o ibride plug in e colonnine: in Italia sono rispettivamente 244mila e 25mila. A conti fatti, dunque, un italiano ha a disposizione più servizi rispetto a un francese o a uno svedese.
Nell’ultimo anno e mezzo, in tutto il mondo l’inflazione ha raggiunto i livelli più alti dagli anni Ottanta. Il nostro paese, fortemente dipendente dalle importazioni energetiche, è stato particolarmente colpito: secondo i dati Istat, in Italia nel 2022 i prezzi al consumo sono cresciuti dell’8,1 per cento. I prezzi del cosiddetto “carrello della spesa”, ossia di beni alimentari, per la cura della casa e della persona, continuano a rimanere alti. Secondo il Rapporto Coop 2023, solo negli ultimi due anni il potere di acquisto degli italiani è diminuito di 6.770 euro pro capite. Per Altroconsumo, fare la spesa costa il 13 per cento in più rispetto all’anno scorso (se guardiamo al 2021, l’aumento è del 36 per cento).
Nonostante questo, e sebbene anche l’Osservatorio sullo stile di vita sostenibile 2023 indichi che i prezzi elevati sono il principale ostacolo nell’adottare comportamenti più rispettosi dell’ambiente, sempre più persone scelgono di modificare le proprie abitudini. Secondo la ricerca Conscious commerce condotta da Shopify e Sapio research, anche in tempi di incertezza economica, il 62 per cento dei consumatori a livello globale non vuole rinunciare alla sostenibilità. Questa tendenza è confermata dai dati dell’Osservatorio: in generale, il 26 per cento delle persone intervistate è disposto a pagare di più per l’acquisto di beni, purché siano eco-friendly come cibo biologico, giocattoli e prodotti in materiali riciclati, cosmesi naturale, arredamento e abbigliamento sostenibile.
Si comincia dalla tavola, con un italiano su quattro che si sforza di limitare il consumo di carne (ma si arriva al 29 per cento a Milano e tra i più giovani) e tre su dieci che si dichiarano disposti a spendere una cifra leggermente più alta per il cibo biologico. Scelte che hanno molto a che fare con l’etica, ma anche con il benessere: tre italiani su dieci dichiarano, in linea generale, di andare alla ricerca di opzioni sostenibili perché le ritengono più salutari (con un picco del 44 per cento tra i più giovani).
Passando invece ad altri aspetti dello stile di vita, aumenta la consapevolezza legata al guardaroba. Complici le inchieste giornalistiche sulla fast fashion e sull’ultra fast fashion, nel 2023 le persone che conoscono il significato di moda sostenibile sono il 48 per cento, 7 punti percentuali in più rispetto a un anno fa. Aumentano anche coloro che scelgono di acquistare o vendere vestiti e oggetti usati online: tra gli intervistati della Generazione Z, in particolare, si arriva al 63 per cento. Questa crescente preoccupazione si riflette anche a livello istituzionale. La Strategia europea per il tessile sostenibile e circolare vuole infatti che, dal 2030 in poi, i prodotti tessili realizzati all’interno dell’Unione europea siano più durevoli e riparabili, composti da fibre riciclate e privi di agenti chimici tossici e inquinanti.
Negli ultimi anni, la responsabilità sociale d’impresa (Csr) è diventata un pilastro e i dati dell’Osservatorio lo confermano: rispetto all’anno scorso, una percentuale crescente di persone ha sentito parlare di società benefit, ossia aziende che mirano non solo al profitto, ma anche a perseguire una o più finalità di beneficio comune da rendicontare a cadenza regolare.
Se in passato i consumatori si fermavano a considerare la qualità e il prezzo di un prodotto o di un servizio, ora acquistano sempre più da aziende che offrono prodotti e servizi sostenibili (61 per cento) o dotate di certificazioni (54 per cento). Valutano la trasparenza e l’onestà delle imprese, tanto da considerarle fattori cruciali nelle decisioni di acquisto. Apprezzano la chiarezza sull’origine dei prodotti, sull’utilizzo responsabile delle risorse, sul ricorso a energie rinnovabili, ma anche sul rispetto dei diritti dei lavoratori e sull’impegno nelle tematiche di diversità e inclusione.
Tuttavia, un dato emerge con chiarezza: una certa diffidenza rispetto a quanto siano sinceri gli obiettivi di sostenibilità promossi dalle aziende. Quasi la metà degli italiani (49 per cento) li bolla come manovre di marketing o, per usare un termine in voga, greenwashing: cioè tentativi di presentarsi sotto una veste sostenibile senza che alla base ci siano garanzie tangibili. Questo crescente scetticismo potrebbe spiegare l’emergere del greenhushing, ovvero la tendenza delle aziende a non enfatizzare (o addirittura a non divulgare) le proprie strategie per la transizione sostenibile.
Mettere al centro le persone significa anche prendere atto di una realtà: ognuna di loro è unica. Le differenze, quelle che una certa retorica descrive come minacciose, sono la cosa più naturale che esista. Rispettarle dovrebbe essere il minimo: il passo successivo è quello di valorizzarle, riconoscendo che il nostro sistema economico e sociale cresce proprio grazie alla commistione di tante competenze, tanti punti di vista, tante esigenze.
Questo tema, che in apparenza può sembrare valoriale, diventa poi molto concreto se calato nella quotidianità delle aziende. Un italiano su tre ha già sentito parlare delle politiche di diversity e inclusion, cioè quelle con cui le imprese si impegnano a valorizzare il potenziale individuale dei collaboratori, riconoscendo le differenze e contrastando le discriminazioni. Nella capitale economica, Milano, l’argomento suona familiare a un abitante su due. L’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile restituisce un dato ancora più eloquente quando chiede agli intervistati se diversità e inclusione debbano essere due caratteristiche fondamentali nelle aziende: i sì sono l’84 per cento.
È ancora piuttosto raro che le politiche di diversity&inclusion diventino un criterio per preferire un determinato brand a un altro. Soltanto il 12 per cento degli intervistati, cioè una nicchia a tutti gli effetti, sostiene di prenderle in considerazione nelle scelte di acquisto. Ma, una volta piantato il primo seme della consapevolezza, non si torna indietro. Insomma, ci sono tutti i presupposti per immaginare un futuro in cui ci sarà spazio solo per gli operatori economici responsabili e trasparenti.