Siamo stati nella foresta amazzonica brasiliana, per esplorare la sua biodiversità e capire l’importanza della sua conservazione.
Il canto di un pappagallo, l’eco di una scimmia urlatrice da lontano, il battito delle ali di un martin pescatore che sorvola l’acqua. È l’alba e siamo su una piccola barca di legno ferma sul rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, e siamo avvolti nei suoni della giungla. “L’Amazzonia ha dodici volti”, inizia a raccontarci la nostra guida, Elmo, del luogo che per lui è da più di cinquant’anni il “giardino dietro casa”.
Ci troviamo in Brasile in un viaggio di esplorazione per raccontare gli ecosistemi dell’Amazzonia e le forme di vita che accoglie. È un viaggio che ci porta a scoprire il volto di quello che dall’altra parte del mondo conosciamo come il “polmone” del nostro Pianeta che va protetto. Tra alberi secolari, popolazioni indigene, specie acquatiche che nuotano nei canali, insetti impensabili e suoni che ci sembrano alieni, inizia il nostro viaggio, organizzato da Scarpa e Gore-Tex, con cui condividiamo la visione di come vivere la natura e soprattutto l’importanza della sua protezione.
La navigazione del rio Negro è il cuore della nostra esplorazione, ma prima di imbarcarci facciamo tappa in un altro luogo dove acqua e biodiversità dominano: Iguazú.
Iguazú è il nome del parco nazionale e delle cascate che ospita, e una parola della lingua indigena guaraní che significa proprio acqua grande. Avvicinandosi tra il loro suono assordante e i giochi di acqua, aria e luce che creano piccoli arcobaleni, si percepisce subito l’imponenza: le 275 cascate fanno cadere 46 milioni di litri d’acqua al secondo, da un’altezza che raggiunge nel punto più alto gli 80 metri. Una tale ricchezza idrica significa anche una grandissima biodiversità.
Camminando nel Parco nazionale di Iguazú, una grande area naturale di 2.500 chilometri quadrati di foresta subtropicale tra Argentina e Brasile e patrimonio dell’Unesco dal 1986, siamo circondati da animali. Il primo che vediamo è l’iconico tucano, per poi scoprire l’urraca con la sua cresta e il petto giallo. Sono solo due delle 400 specie di uccelli presenti nel parco. Fanno loro compagnia tapiri, bradipi, caimani, lucertole agama, scimmie cappuccine, fino alle coloratissime farfalle che avvolgono i nostri passi. Rimaniamo tutti incantati da una grande farfalla di colore blu intenso che appare in mezzo alla foresta, è il morfo blu. Solo qui ci sono oltre 700 specie di farfalle.
La foresta è fitta, con oltre duemila specie vegetali, ed è il risultato di grandi sforzi di conservazione. Gran parte della foresta è secondaria, ovvero si è rigenerata dopo essere stata distrutta dalle attività umane: in questo caso, dopo essere stata tagliata per la produzione di carta e per la coltivazione della soia. Quello che rimane della foresta originaria si aggira intorno al 6-8 per cento.
Oggi un sostegno alla conservazione lo porta anche il turismo: per accedere a questo parco si paga un biglietto e parte del suo ricavato va a supportare le attività di questo e altri parchi nazionali. Considerando che da qui passano migliaia di turisti al giorno il sostegno è significativo e, soprattutto, l’efficace comunicazione sulla biodiversità del Parco può sensibilizzare sempre più persone verso comportamenti attenti e rispettosi della altre forme di vita.
Siamo pronti a lasciare la natura di questo parco e le sue cascate, che sono una delle sette meraviglie del mondo naturale. Un’altra di queste sette meraviglie è la foresta amazzonica, ed è lì che stiamo andando.
Sorvolando la città di Manaus capiamo perché è chiamata la porta dell’Amazzonia. Oltre a essere la capitale della regione brasiliana di Amazonas, è la più grande città al mondo circondata dalla foresta. Gli alberi visti dall’alto si perdono a vista d’occhio creando una fitta chioma verde. Ciò che li interrompe è un altro elemento naturale imponente, il rio Negro, uno degli affluenti del rio delle Amazzoni.
Il bacino amazzonico è impressionante. Il rio delle Amazzoni è il secondo fiume più lungo al mondo, dopo il Nilo, e il suo bacino copre un’area di 7 milioni di chilometri quadrati – per dare una misura, l’Europa copre 10 milioni di chilometri quadrati. È il sistema fluviale più grande al mondo. Basti pensare che il rio delle Amazzoni porta il 20 per cento di tutta l’acqua dolce che si riversa negli oceani del Pianeta.
Il rio Negro è uno dei suoi affluenti più lunghi ed è alla confluenza proprio tra il rio Negro e il rio Solimoes che il rio delle Amazzoni prende ufficialmente il suo nome, oltre a creare un effetto ottico unico nel suo genere: le loro acque di colore diverso non si mischiano per chilometri per via della differenza di concentrazione di Ph nell’acqua.
Da un porticciolo di Manaus saliamo sull’imbarcazione che ci ospiterà per diversi giorni e ci permetterà di addentrarci nella foresta amazzonica tra i suoi innumerevoli canali. Il primo tratto di navigazione è in uno dei punti più larghi del rio Negro: guardiamo fuori e sembra quasi di essere in mare, qui il fiume ha 17 chilometri di larghezza. Dopo qualche ora, cambia il paesaggio, lasciamo qualsiasi tipo di connessione con l’urbanizzazione, il fiume si stringe, e quello che torreggia intorno a noi è soltanto la foresta.
Ci fa capire quanto sia incredibile questo ecosistema e perché vi siamo connessi, come specie, in tutti gli angoli della Terra, anche a chilometri di distanza. Da sola rappresenta il 60 per cento delle foreste pluviali che rimangono sul Pianeta. Copre nove paesi, con la maggior parte del suo territorio proprio qui in Brasile. È la foresta pluviale più grande al mondo, seguita da quelle del Congo, quella del Cile e dell’Alaska.
Qui ci sono 400 miliardi di alberi: in confronto, al mondo siamo “solo” 8 miliardi di persone (è come se per ognuno di noi ci fossero 50 piante in Amazzonia). Questi 400 miliardi di alberi assorbono anidride carbonica nelle loro foglie, tronchi e rami, togliendo dall’atmosfera un’enorme quantità di gas che alterano il clima. In cambio, grazie al processo di fotosintesi, danno ossigeno.
Non solo, le foreste pluviali rilasciano acqua nell’atmosfera, grazie all’evapotraspirazione (evaporazione e traspirazione delle piante). Questo significa che sono fondamentali per il mantenimento dei cicli dell’acqua, condizionando le precipitazioni. Basti pensare che la foresta amazzonica è responsabile di almeno il 70 per cento delle sue stesse piogge, ma influisce anche su quelle più lontane. Vedere arrivare nuvoloni scuri e sentire il suono della pioggia sul rio Negro ci ha resi testimoni di questo grandioso processo.
Le piogge in questa stagione non sono molte e il livello dei canali che navighiamo è più basso, per questo riusciamo a raggiungere a piedi alcune parti di foresta che solitamente sono sommerse. La nostra guida, Elmo, ci indica i segni ben visibili di dove possono arrivare acqua e fango durante la stagione delle piogge, ricoprendo tronchi e fusti.
Meno pioggia comporta anche meno fioriture e meno frutti, che significa meno cibo per gli animali. Da qui capiamo che non vedremo la foresta fiorita e non avvisteremo alcuni animali che in altre stagioni la abitano, ma d’altra parte significa anche andare incontro a meno pericoli.
Ci addentriamo a piedi nella foresta e raggiungiamo probabilmente l’albero più grande che abbiamo mai visto. È una samauma, o albero del kapok, un gigante di più di 40 metri (questa specie può raggiungere anche i 70 metri) con più di 400 anni.
Questo albero è considerato sacro da numerose comunità indigene che popolano l’Amazzonia. Nel corso dei secoli è stato usato anche come “telefono” tra le comunità: battendo sulle sue radici si comunicava in vari punti della foresta, come una sorta di codice morse. Ora questa usanza è stata abbandonata, come dimostra un cartello vicino al suo tronco: “Não bata na samauma”, non battere sulla samauma. Le sue enormi radici assorbono acqua dal terreno e la sua chioma porta acqua alle altre piante e protegge insetti e uccelli. È infatti anche chiamata “la regina dell’Amazzonia“.
Camminando, Elmo ci racconta aneddoti su ogni pianta che incontriamo, come la storia delle “piante che camminano”. La Socratea exorrhiza, o palma mobile, è una di queste. In pratica, per cercare il sole nelle diverse stagioni questa palma cambia le radici: quelle più basse muoiono e ne crescono di nuove e lunghe più in alto sul fusto, permettendo alla pianta di muoversi di un paio di centimetri al giorno. A guardarle, in effetti sembrano quasi abbiano le gambe.
Proseguendo il nostro cammino vediamo Elmo battere un bastone su un piccolo tronco. Sa che facendo così usciranno le formiche proiettile (Paraponera clavata), uno degli insetti con la puntura più dolorosa al mondo. Queste formiche popolano le foreste tropicali e venivano usate da alcuni popoli indigeni in rituali tradizionali.
E così le vediamo uscire dalla terra, grandi: possono raggiungere i 3 centimetri di lunghezza. Elmo ci spiega che il dolore della puntura può durare diverse ore, ma per chi, come noi, non è abituato a questi luoghi può causare anche la morte. Riemergiamo dalla fitta foresta e rivediamo il cielo aprirsi sopra di noi, accogliendoci – come sempre in questi giorni – con il volo inconfondibile dei rapaci: qui c’è la poiana dal collare nero (Busarellus nigricollis).
Grazie a una lancia, un’imbarcazione di legno lunga e stretta, ci muoviamo agilmente tra i canali e la vegetazione che sembra galleggiare a pelo d’acqua. Navigare lentamente questi ecosistemi in diversi momenti della giornata, dall’alba al tramonto e perfino di notte, ci fa immergere sempre più nei suoni, rumori, negli scricchiolii delle piante che si muovono e si toccano tra di loro, e nei versi degli animali intorno a noi. Dai suoni dei pappagalli che ci sono più familiari, a quelli del kookaburra, un uccello il cui canto assomiglia a una “risata”, fino alle cicale che qui hanno suoni quasi “metallici” e alieni.
L’obiettivo delle nostre esplorazioni è avvistare le forme di vita di questi ecosistemi, non solo quelle che vivono a terra o in aria, ma anche sott’acqua. La prima la facciamo di notte, muniti di torce e frontaline. L’animale che cerchiamo è il caimano jacaré, un rettile che popola questi canali. La torcia di Elmo è l’unica che rimane accesa, e, avvolti nel buio e nel silenzio, lo vediamo illuminare la vegetazione acquatica per avvistare i loro occhi che emergono dall’acqua. Ed eccoli lì che si illuminano riflettendo la nostra luce. I caimani arrivano fino a 3 metri di lunghezza, ed Elmo ce ne indica alcuni che secondo lui sono attorno ai due metri. Uno ci nuota vicino, un cucciolo di circa 50 centimetri.
Un altro avvistamento, questa volta nelle ore diurne, è quello del delfino rosa (Inia geoffrensis). Il “boto“, come è da sempre chiamato dai nativi, è l’unico cetaceo che popola questo ecosistema pluviale, e si trova solo qui, nel bacino amazzonico. La sua peculiarità è il colore rosa, che acquisisce con il passare degli anni. Alla nascita è grigio. Gli individui maschi hanno un colore più pronunciato rispetto alle femmine, e spesso è ancor più evidente per via delle cicatrici che si procurano giocando tra di loro.
Il boto è tanto iconico quanto poco studiato. Non ha predatori in natura, eppure è stato classificato come a rischio estinzione dalla lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) perché negli ultimi decenni è stato sottoposto alla frammentazione degli habitat causata dall’essere umano. Per questo di recente sono stati avviati studi e ricerche per capire effettivamente lo stato delle popolazioni di questa specie che, trovandosi in cima alla catena alimentare dell’ecosistema fluviale, regola la popolazione ittica dei fiumi, mantenendola in equilibrio e in salute.
L’esplorazione dei canali dipende molto dall’altezza dell’acqua nei diversi mesi dell’anno. Siamo nella stagione secca, resa più lunga dal riscaldamento globale. Se i canali sono più bassi significa che da un lato sono meno navigabili, dall’altro rendono la foresta più accessibile a piedi. Per noi che la esploriamo, ma anche per chi invece vuole disboscare.
Questo problema ha un’altra implicazione, sempre legata al clima. Disboscare significa, oltre che perdere un patrimonio naturale inestimabile, anche “aprire” il serbatoio di carbonio che è la foresta Amazzonica. Tagliare alberi rilascia in atmosfera la CO2 che questi trattenevano, andando a esacerbare ulteriormente il riscaldamento globale. Come in un cerchio infinito, questo influenzerà il clima che a sua volta rischierà di far diventare parte della foresta amazzonica una savana.
Quest’anno, ad esempio, la stagione secca è più intensa degli scorsi anni, tanto che lo stato di Amazonas ha dichiarato emergenza siccità. 500mila persone potrebbero esserne colpite entro la fine dell’anno nell’Amazzonia brasiliana perché dipendono dai corsi d’acqua per la propria sopravvivenza: i fiumi sono il principale mezzo di trasporto di cibo, acqua e beni di necessità, sono fonte di cibo grazie alla pesca e rappresentano “la strada” su cui si muovono tutti i giorni.
Sempre nel 2023, però, il tasso di deforestazione in Brasile è calato. Solo ad aprile, ad esempio, la deforestazione è stata del 68 per cento in meno rispetto all’aprile dell’anno scorso. E il governo, ora guidato da Lula (Luiz Inácio Lula da Silva), ha annunciato che nei primi sei mesi del 2023 la deforestazione si è ridotta di un terzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando ancora governava Jair Bolsonaro, che promuoveva politiche che incentivavano lo sfruttamento delle risorse e delle terre delle popolazioni indigene.
Arrivarono i bianchi per l’estrazione senza chiedere e nessuno li ha fermati. Qui abbiamo tanti minerali però per ora nessuno può entrare nella nostra terra e a nessuno importa di questa zona. Finché nessuno si interesserà di questa zona non ci preoccupiamo, se inizierà ad interessare allora non sappiamo in quanti anni la nostra terra verrà occupata.
Warema, capo indigeno del popolo Kobewa
In tutto il bacino dell’Amazzonia i popoli indigeni rappresentano 20 milioni di persone, divise in 385 gruppi etnici. Solo in Brasile, vivono 1,7 milioni di persone indigene. Siamo andati a conoscere il popolo Kobewa che vive lungo il rio Negro.
Quattro famiglie ci accolgono insieme al capo villaggio, Warema. “Quando nasciamo ci vengono dati due nomi, uno indigeno e uno portoghese-cattolico. Nel mio caso il nome indigeno è Warema, ovvero responsabile della trasformazione del mondo indigeno. Quello portoghese invece è Jeremias, che è quello presente sui documenti”, si presenta. Inizia poi a raccontarci la storia della comunità, della loro famiglia che vive in altri villaggi di etnie diverse lungo il fiume. Con lui parliamo in portoghese, ma la maggior parte della popolazione parla solo il proprio dialetto tradizionale.
“Ogni etnia ha i suoi nomi (Tatuiu, Dudumengu, Tuiuca), i suoi villaggi e i suoi dialetti, che non sono il portoghese. E che sono difficili da tradurre perché derivano dalle nostre tradizioni e dalle culture. Mio nonno, dell’etnia Tucano, ad esempio parla solamente il suo dialetto, della sua etnia”.
La vita dei Kobewa si svolge in profonda connessione con la natura: cacciano, pescano, lavorano i materiali che trovano nella foresta per venderli come artigianato, e portano avanti i rituali tradizionali e spirituali, espressione delle loro conoscenze.
Le conoscenze indigene degli elementi naturali e delle pratiche in armonia con l’ambiente sono estremamente ampie, e molte di queste vengono tramandate come forme di cultura orale. Ad esempio, c’è un’immensa conoscenza delle piante, delle loro proprietà e quindi dei loro usi nei diversi ambiti della vita quotidiana, dalla medicina, all’alimentazione fino alla spiritualità.
L’Amazzonia è infatti fonte di un’incredibile varietà di piante medicinali i cui principi vengono studiati e utilizzati nella medicina a cui siamo abituati tutti i giorni. Altre, come l’ayahuasca, vengono usate per connettersi più profondamente con gli elementi, e che sono la base dei rituali e degli incontri tra popoli nativi. Parte di questa conoscenza è tramandata dallo sciamano, il cacique, ovvero il capo del villaggio, proprio come Warema. “La mia cultura è una cultura pratica, conosco moltissime cose tramite i miei occhi”, ci racconta. “Il nostro apprendimento è molto diverso. Non abbiamo niente di scritto, per noi è sacro. Ciascun “cacique” ha questo potere”.
Quello che ci colpisce è quanto tradizioni, conoscenze e cultura siano estremamente radicate nel loro stile di vita e considerate sacre, e come questo li renda profondamente connessi e rispettosi di tutte le forme di vita che li circondano. Warema ci racconta anche come alcuni popoli, anche parte della loro famiglia, abbiano deciso di vivere isolati, senza alcun contatto esterno: “In questo modo in realtà preservano la loro cultura”. Nel frattempo, assistiamo a uno dei loro rituali di festa, quello che di solito fanno quando amici e parenti da lontano vengono in visita. “Una volta all’anno io vado a trovare le altre persone. Prendo un battello e inizio per tre giorni a salire il fiume. Prima mi fermo a Barcelo, poi San Isabel. Da lì il fiume inizia a restringersi, diventa piccolo. Passa un’altra settimana e arriviamo dove sono iniziate le nostre culture, i nostri canti. La maggior parte sono Tucano, che non parlano portoghese. Poi ci vogliono ancora due settimane per arrivare all’ultima frontiera”.
C’è chi non vuole nessun contatto con altre persone che non siano della loro tribù. In questo modo in realtà preservano la loro cultura.
Nelle terre in cui vivono, i tassi di deforestazione sono più di due volte più bassi rispetto alle terre non gestite da loro. I popoli indigeni occupano un quarto di tutte le terre nel mondo, dove è racchiuso l’80 per cento della biodiversità, e questo ci fa capire l’importanza lasciare le foreste in mano a chi sa proteggerle vivendoci in armonia.
Ci basta andare una, due notti nella foresta (nel mato), osservare la terra, sentire i suoni, il calore, ed è così che impariamo. Rimanendo concentrati e ben consapevoli, possiamo comprendere, vedere. Capiamo tutto quello che succede.
Lasciamo questo villaggio e la foresta amazzonica con una visione in più, quella di chi questa foresta la chiama casa, con profondo rispetto. Attraverso la lente da occidentali a volte ci chiediamo ingenuamente cosa succederà a queste popolazioni se modernità e tecnologia prenderanno il sopravvento. “La nostra cultura non può scomparire, ci sono tanti bambini che continueranno ad imparare”, ci ha detto Warema. “Possiamo parlare e condividere idee anche con voi, ma ci sono delle cose che sono segrete, che rimangono solo tra di noi”.
Ma la vera domanda è se siamo noi pronti a comprendere che dobbiamo imparare a mettere in discussione e rimettere a fuoco il nostro stile di vita, che modernità e tecnologia nulla sono senza la connessione e il rispetto degli elementi, che è proprio questa visione che dobbiamo prendere come maestra.
So che vi mancano gli alberi, vi manca l’acqua, la pioggia. Ma so che tutto verrà recuperato, succederà un giorno. Vi aiuterò. Vi ringrazio molto per essere qui, per il vostro viaggio.
Questo contenuto è stato reso possibile grazie al viaggio di esplorazione organizzato da Scarpa in collaborazione con Gore-Tex. L’obiettivo di questa experience era quello di toccare con mano un luogo remoto, poco esplorato e così importante per la sopravvivenza della vita sulla Terra. Tutto questo unito all’esplorazione della natura e alle attività outdoor, i mondi che accomunano i due brand. Nel farlo, eravamo attrezzati con prodotti selezionati che ci hanno permesso di vivere in maniera sicura, adeguata e tecnica i vari ambienti. Scarpa (Società calzaturieri asolani riuniti pedemontana anonima) è stata fondata nel 1938 ad Asolo, nel trevigiano, e produce calzature da sport come alpinismo, trekking, running e scalata. Gore-Tex sviluppa tecnologie che vengono applicate su indumenti, calzature e accessori e garantiscono impermeabilità e traspirabilità. Entrambe le aziende sono impegnate in ricerca e sviluppo di prodotti più sostenibili, come l’uso di materiali riciclati riducendo lo sfruttamento di materie prime vergini e la progettazione di prodotti che durino e possano essere riparati. Inoltre, Gore-Tex è impegnata a ridurre del 60 per cento le emissioni di CO2 dei propri stabilimenti e dalle proprie sedi entro il 2030, per raggiungere la carbon neutrality entro il 2050. In questo viaggio erano con noi altri content creator che hanno raccontato il viaggio secondo i loro punti di vista: Riccardo Casiraghi e Stefano Paleari (Gnam box), Anselmo Prestini, Manuela Vitulli, Valentina Vignali.