Fino ad oggi nella “fascia Saheliana” due paesi sono riusciti ad evitare conflitti e bloccare l’espansione dell’estremismo mantenendo un equilibrio pacifico. Ma le cose potrebbero cambiare.
La regione del Sahel ha uno dei climi più rigidi del mondo e affronta alcune delle maggiori sfide in termini di sviluppo sostenibile e stabilità geopolitica. Estesa per cinquemila chilometri dalle coste atlantiche dell’Africa occidentale fino al mar Rosso, quest’area già nel 2020 è stata riconosciuta da diversi studi come uno degli hotspot climatici con maggiore stress ambientale, quindi più a rischio collasso.
Il clima del Sahel è caratterizzato da temperature estreme con periodi di precipitazioni imprevedibili e altri di siccità intensa. Secondo le Nazioni unite, nel Sahel le temperature stanno aumentando 1,5 volte più velocemente rispetto alla media globale e, anche immaginando politiche ambiziose di riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera, si prevede che aumenteranno di 2,5 gradi celsius da qui al 2080.
L’inaridimento delle terre nel Sahel, unito alla riduzione delle risorse idriche, pongono problemi alla produzione agricola e all’allevamento, mentre la popolazione è in forte aumento. La pressione sul territorio e la penuria d’acqua portano a ingenti spostamenti di popolazione e aumenta i rischi di conflitto e instabilità sociale.
In questo contesto, Senegal e Mauritania sono riusciti ad arginare e contenere l’espansione dell’estremismo violento il cui epicentro oggi si trova proprio nel Sahel.
A preoccupare è il vicino Mali, dove la giunta militare al potere ha rotto con i partner occidentali e le Nazioni unite mentre continuano gli attacchi dei gruppi jihadisti, attivi nel territorio sempre più verso ovest. È anche ripreso il conflitto tra gli indipendentisti dell’Azawad e l’esercito maliano sostenuto dalla milizia russa Wagner (oggi Afrika Korps). A farne le spese è la popolazione che subisce gravi violazioni.
Le regioni più remote di Senegal e Mauritania vicino al confine maliano riescono comunque a formare uno “scudo” nel Sahel nonostante siano anch’esse molto vulnerabili. Attraverso alcune storie personali cerca di spiegare il perché.
Nella regione senegalese di Kedougou, la corsa all’oro inizia subito dopo il tramonto, quando il caldo è ancora sopportabile. Vicino al villaggio di Samekouta, al confine con il Mali, gruppi di uomini dai volti stravolti dalla stanchezza parcheggiano le loro moto ai margini di un ampio terreno roccioso, circondato da alberi e erba alta. I loro vestiti sono ricoperti di polvere color ruggine.
La miniera semi-artigianale è composta da buchi neri profondi anche decine di metri in cui i minatori scompaiono con un rapido tuffo. Un rumore di fondo costante di martelli pneumatici e generatori elettrici copre le conversazioni tra “orpailleurs“. Sono senegalesi, ma anche maliani, burkinabé, guineani. In questa regione del sudest del Senegal, una delle più povere, dove mancano infrastrutture di base, vivono persone di oltre venti nazionalità. Gli stranieri, provenienti soprattutto da altri paesi dell’Africa occidentale, sono venuti per tentare la fortuna, alla ricerca di uno dei metalli più preziosi del mondo. Nella regione di Kedougou ci sono centinaia di miniere artigianali o semi-artigianali. Nell’ultimo decennio, l’omonima capitale ha visto un drastico aumento della popolazione, passata da meno di centomila abitanti prima del 2010 agli oltre duecentomila di oggi. Le strade di Kedougou sono diventate un crogiolo di lingue, codici di abbigliamento e abitudini. La febbre dell’oro ha portato con sé anche la prostituzione, traffico di armi, di prodotti chimici e droghe che hanno incrementato la criminalità e vulnerabilità del territorio.
L’estrazione dell’oro artigianale non è una novità nella regione del Sahel perché è stata praticata su piccola scala da contadini da secoli. Ma negli ultimi decenni, il settore industriale dell’estrazione in Senegal ha registrato un notevole incremento con l’arrivo di piccole e medie imprese dalle pratiche discutibili e questo ha portato a una più profonda trasformazione anche in termini di impatto ambientale.
Come molti giovani della sua età, Aliou Cissé* era solito scavare in cerca di oro nei campi che circondano il suo villaggio, Faranding. L’agglomerato di umili case di legno e lamiera si trova sulle rive del fiume Falémé, che traccia il confine tra Senegal e Mali. Qui non arriva la corrente elettrica, né l’acqua potabile. La popolazione vive di miniere e agricoltura di sussistenza. Pratiche che però da qualche tempo sono a rischio.
Aliou dice che il suo villaggio ha dovuto gestire le relazioni con gli stranieri venuti alla ricerca dell’oro e ha perso molta terra dopo che “un’azienda cinese” ha aperto una miniera semi-meccanizzata in periferia. Proprio lì, dove gli abitanti di Faranding erano soliti coltivare cereali e verdure. Secondo quanto riporta Aliou, circa un anno fa l’azienda non meglio identificata “ma con a capo dei cinesi” è arrivata con grandi macchine e ha iniziato a scavare un grande cratere pompando acqua dal fiume. Secondo Aliou, non è chiaro come abbiano ottenuto i permessi. Un tipo di dinamica che sta avvenendo sempre più di frequente in queste zone di frontiera.
Poco più in là, camminando lungo la riva cespugliosa del fiume, Aliou racconta come, nel corso degli anni, le acque abbiano assunto un colore arancione fangoso. La riva maliana è a poche centinaia di metri e lì si intravedono decine di uomini su chiatte intenti a lavorare con macchine draganti per estrarre rocce e sabbia dal letto del fiume. “Questo distrugge l’ambiente. Siamo contrari e abbiamo avvertito le autorità, ma ci hanno detto che non sono in grado di fermarli”, si rammarica Aliou.
Effettivamente il fiume Falémé è inquinato da anni, con denunce ripetute di attivisti e giornalisti rimaste senza risposta. A inquinare di più sono soprattutto le acque reflue, a volte contaminate da sostanze chimiche come il mercurio, scaricate dalle compagnie minerarie senza alcuna forma di controllo.
Attività di sussistenza come allevamento e agricoltura per le popolazioni rivierasche sono ormai compromesse e gli abitanti dei villaggi sono costretti ad abbandonarle e chiedere lavoro alle imprese di estrazione.
Un altro elemento appare evidente affacciandosi sulle rive del Falémé: le piroghe fanno avanti e indietro da un sponda all’altra del fiume cariche di persone e merci senza alcuna forma di controllo nonostante ci si trovi su un confine. Ufficialmente l’oro rappresenta il motore dell’industria estrattiva senegalese. Nel 2022, circa 15 tonnellate di metallo sono state estratte dalle multinazionali che operano a Kédougou: l’australiana Resolute Mining e l’anglocanadese Endeavour. Il tutto è stato esportato in Svizzera e Australia, per un valore di mercato stimato di quasi 540 miliardi di franchi Cfa (circa 823 milioni di euro). Questa cifra non tiene però conto dell’estrazione artigianale dell’oro nella regione che secondo stime della autorità locali darebbe lavoro a trecentomila persone. Infatti, sempre secondo le stime, il novanta per cento dell’oro estratto nel paese attraversa le frontiere illegalmente, soprattutto verso il Mali. “È molto facile spostarsi attraverso il confine e lo stato senegalese non ha la capacità di controllare tutto”, spiega Paulin Maurice Toupane, analista dell’Institute for security studies (Iss) di Dakar.
Come denunciato dall’Iss, è molto probabile che i gruppi jihadisti presenti nel vicino Mali traggano vantaggio dalle varie rotte di traffico dal Senegal, oltre che dal suo accesso all’oceano Atlantico. “L’identità dei compratori d’oro non è nota. Esistono commercianti, ma anche persone utilizzate dai gruppi [jihadisti, ndr] per acquistare il metallo e immetterlo nei circuiti del traffico”, afferma Hassan Koné, ricercatore dell’Iss che ha approfondito il tema del terrorismo.
Finora il Senegal è stato risparmiato dagli attacchi, ma a Kedougou la frustrazione e le tensioni per via dell’accaparramento delle terre e del loro inquinamento possono aprire la strada al reclutamento. Inoltre lo sviluppo di traffici illegali ha incrementato la criminalità comune da parte di bande lungo il confine fra i due paesi. Allo stesso tempo, questi traffici potrebbero spiegare perché i gruppi jihadisti non hanno ancora orchestrato attacchi in questa zona. “Hanno spazi di ritiro tattico e il Senegal rappresenta per loro un grande interesse. C’è il flusso di capitali, il movimento di armi, l’accesso al mare”, spiega Bakary Sambe, direttore regionale dell’Istituto Timbuktu di Dakar.
Più a nord della frontiera senegalese c’è quella mauritana. La Mauritania è uno dei paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Il deserto del Sahara copre circa il 90 per cento del territorio di oltre un milione di chilometri quadrati, rendendolo particolarmente esposto agli effetti dell’aumento delle temperature che stanno diventando sempre più estreme, secondo le proiezioni più aggiornate. Le precipitazioni già scarse diventano irregolari e se ne prevede una diminuzione fino a 11 millimetri all’anno entro il 2080 con conseguente diminuzione di terre coltivabili e pascoli.
La maggior parte della popolazione Mauritana di 4,7 milioni di abitanti vive nella capitale Nouakchott e nelle regioni meridionali dove il clima saheliano è più clemente e permette di coltivare e permettere l’allevamento.
Le regioni del Hodh El Gharbi ed dell’Hodh Chargui, nell’estremo sudest sono sono tra le più povere della Repubblica islamica della Mauritania, ma cruciali per le comunità nomadi e il settore dell’allevamento che dipende dalle stagioni delle piogge per acqua e foraggio.
Quest’anno le precipitazioni sono state molto scarse come testimoniano diversi abitanti di villaggi lungo le zone di confine con il Mali. È novembre e la popolazione non è riuscita a fare buoni raccolti di sorgo, riso e fagioli. L’acqua scarseggia ovunque. Le comunità si affidano a delle pozze di acqua stagnante e ai pochi pozzi a disposizione. Come se non bastasse i campi in alcuni casi sono stati distrutti da sciami di locuste del deserto che periodicamente si abbattono in quest’area in determinate condizioni.
“Non abbiamo ancora i dati definitivi, ma sappiamo che quest’anno sarà difficile in termini di acqua e cibo per le comunità nomadi e pastorali a causa delle scarse precipitazioni. Sarà necessario un intervento urgente per garantire la stabilità”, afferma a LifeGate Fatimetou Mahvoudh Khatri, Commissario per la sicurezza alimentare in Mauritania.
In questi territori le autorità sono preoccupate per la limitazione delle risorse vitali in quanto la popolazione è oltretutto in aumento per via dell’arrivo dei rifugiati dal vicino Mali.
Oltre confine gli attacchi dei gruppi armati jihadisti continuano e la situazione è ancor più instabile dopo che anche la missione di pace delle Nazioni unite, Minusma, ha lasciato il paese a dicembre. La popolazione, specialmente di etnia Peul, fugge. Sempre secondo le Nazioni unite, più di 370mila persone sono sfollate all’interno del Mali e almeno ducentomila maliani hanno lasciato il loro paese. Molti trovano rifugio nell’Hodh Chargui.
Non lontano da Bassikounou a circa sessanta chilometri dal confine maliano, nel campo di M’bera, gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), sono state registrate quasi centomila persone, di cui oltre 14mila nel 2023. Un dato che non tiene conto dei rifugiati che vivono fuori dal campo, sopravvivendo in villaggi di fortuna lungo il confine.
Gli esperti delle Nazioni Unite temono l’insorgere di tensioni inter-comunitarie nelle zone di confine, in particolare a causa della lotta per le risorse idriche. Le autorità, che devono controllare oltre duemila chilometri di frontiera con il Mali, temono che questo tipo di tensioni possa creare sentimenti di ingiustizia e frustrazione spesso sfruttati da movimenti estremisti in altri contesti.
Proprio nel campo di M’bera i rifugiati maliani e comunità del dipartimento di Bassikounou hanno iniziato a cooperare per proteggere i pascoli. Un bene molto prezioso messo a rischio dagli incendi sempre più incontrollabili a causa dell’aumento delle temperature.
Nella Mauritania orientale nel mese di novembre soffiano venti particolarmente secchi. In alcune zone il paesaggio è insolitamente ricoperto di pascoli d’erba spuntata dopo la breve stagione delle piogge ma ormai gialla e secca. Mahfouz Ould Messaoud è ben consapevole che è la stagione degli incendi. Seduto sul retro di un pickup bianco, circondato da giovani uomini che indossano dei gilet gialli e avvolto nel suo turbante tuareg, è protetto dalla sabbia sollevata dal veicolo lanciato a tutta velocità nelle strade desertiche.
Proprio una settimana fa è stato spento un incendio che ha distrutto diversi ettari di pascolo. Mahfouz fa parte della “Brigade anti-feu” (Brigata anti-incendio) composta da volontari per lo più maliani del campo di M’bera. Il gruppo interviene ogni volta che c’è una segnalazione delle comunità e, con grande coraggio e fatica, argina e spegne i fuochi senza l’utilizzo dell’acqua, ma solo con tecniche che prevedono arbusti e lavoro di gruppo.
Ci fa male quando vediamo queste terre bruciare. È come se il nostro cuore stesse bruciando. È come se la nostra casa fosse bruciata.
Mahfouz
Mahfouz è stato costretto a fuggire dal suo paese nel 2012, dopo l’inizio del conflitto tra l’esercito maliano, i ribelli separatisti e gli insorti jihadisti. Oggi, quarantenne, vive con i suoi sei figli in una casa in legno, lamiera e stoffe colorate composta da una sola stanza. La Mauritania è diventata la sua seconda casa e afferma di essersi sempre sentito accettato e accolto. Pur continuando a sperare di tornare un giorno in Mali, ha deciso di impegnarsi attivamente per questa terra per sdebitarsi con le comunità che lo ospitano.
Quella della Brigade è un’iniziativa autonoma nata dall’esigenza di rifugiati come Mahfouz che poi ha ottenuto il sostegno e il riconoscimento dell’Unhcr nel 2018 che, tramite l’organizzazione partner Sos Désert, li aiuta fornendo mezzi di trasporto e telefoni cellulari, utili a formare una rete di controllo in caso di allarme. Il gruppo, a cui ora aderiscono circa cinquecento persone, è già intervenuto spegnendo centinaia di incendi che in Mauritania rappresentano una vera minaccia per la sussistenza perché devastano i pascoli.
Gli incendi qui costituiscono una delle principali cause di degrado e distruzione delle risorse naturali, per questo il problema è molto sentito e condiviso dalle comunità autoctone e dai profughi perché lottano contro un nemico comune e migliorano le relazioni
Delegati Unhcr a Bassikounou
Secondo le recenti stime del ministero dell’Ambiente della Mauritania, ogni anno vengono bruciati tra i cinquantamila e i duecentomila ettari di terreno da pascolo, oltre 1,2 milioni di ettari tra il 2010 e il 2020.
I membri della Brigade, oltre ad essere un esempio di dialogo tra comunità, sono diventati simboli dell’attivismo ambientale.
Comunità locali e di rifugiati sono stati coinvolti in ampie attività di rimboschimento per arginare il degrado dei terreni, ma anche nella creazione di diversi chilometri di fasce tagliafuoco per tentare di arginare gli eventuali roghi. Sono sforzi considerati un contributo utile all’interno del quadro di creazione dell’iniziativa internazionale della Grande muraglia verde.
Negli ultimi mesi Senegal e Mauritania sono tornati al centro dell’interesse geopolitico africano per diverse ragioni.
I riflettori si sono accesi su Dakar dopo che il voto per le elezioni presidenziali inizialmente previsto per il 25 febbraio è stato annullato per poi svolgersi un mese dopo a seguito di numerosi colpi di scena politico-giudiziari che hanno coinvolto l’ex-presidente Macky Sall il quale sembrava non voler lasciare il potere. Alla fine le urne hanno portato all’elezione di Bassirou Diomaye Faye (44 anni) il più giovane Capo di Stato della storia del Paese, nonché braccio destro del grande oppositore Ousmane Sonko, oggi premier nel suo nuovo governo. Questo voto segna la “rottura” col passato fortemente richiesta dall’opinione pubblica e in particolare dai giovani. Tuttavia la crisi politica inedita a cui si è assistito nei mesi scorsi ha fatto temere una destabilizzazione di un Paese chiave per la stabilità della regione.
Grazie all’Islam a maggioranza sufi moderato e alla sue caratteristiche storiche e culturali, che non ha mai vissuto colpi di stato o guerre civili, il popolo senegalese non è incline alla radicalizzazione, ma le frustrazioni legate a una serie di ingiustizie come quelle descritte a Kedougou e il senso di abbandono per la mancanza di infrastrutture e servizi in zone ricche di risorse, iniziano a farsi sentire. Negli ultimi anni autorità senegalesi hanno aumentato la loro presenza militare lungo il confine con operazioni anche finanziate dall’Unione europea e progetti di sensibilizzazione comunitaria, ma manca ancora di un approccio ampio allo sviluppo e all’inclusione.
Il neo-presidente Faye ha annunciato di voler rivedere e rinegoziare tutti i contratti di sfruttamento delle risorse senegalesi e di procedere a una rivoluzione dell’economia della nazione che tenga conto di tutti gli esclusi. Salvo alcuni annunci non è chiaro però quanta importanza verrà data alle regioni frontaliere.
La Mauritania, dal canto suo, si avvia verso le elezioni presidenziali il prossimo 29 giugno. È molto probabile che venga riconfermato Mohamed Ould Cheikh El Ghazouani. Il suo governo è incline a mantenere salde le partnership con le potenze europee, contrariamente a quanto sta accadendo altrove. In febbraio infatti, ha ottenutoo un ulteriore riconoscimento come alleato strategico dell’Europa firmando un nuovo accordo di cooperazione principalmente basato sulla lotta contro la migrazione verso le Canarie spagnole. Il documento contiene anche nuovi aiuti alla sicurezza per potenziare il controllo delle frontiere con il Mali. mentre il Sahel centrale si distacca sempre più dai vecchi partenariati europei, la Mauritania va in senso opposto ottenendo un ulteriore riconoscimento come alleato strategico dell’Europa allorché il mese scorso ha firmato un nuovo accordo di cooperazione principalmente basato sulla lotta contro la migrazione verso le Canarie spagnole. Il documento contiene anche nuovi aiuti alla sicurezza per potenziare il controllo delle frontiere con il Mali.
Da anni Nouakchott si vanta di aver vinto contro il terrorismo grazie al controverso “dialogo nazionale” che la Repubblica islamica intavolò nel 2010 con i primi jihadisti attivi nel suo territorio. Grazie a questo intervento decine di estremisti vennero “de-radicalizzati” e reintegrati nella società. Da allora il Paese non subisce attacchi sul suo territorio, mentre contemporaneamente ha rafforzato le sue forze militari con l’aiuto di Stati Uniti ed Europa. Un esempio sono i méharistes del Groupement nomade (Gn), un corpo speciale di soldati a dorso di dromedario che esiste fin dall’epoca coloniale e che pattuglia le aree più remote delle regioni desertiche, al fine di ricevere informazioni e portare supporto alle comunità più isolate.
Anche se queste iniziative sembrano aver funzionato fino ad oggi, poco è stato fatto in termini di sviluppo nelle zone frontaliere, soprattutto per rendere le comunità resilienti agli ormai irreversibili effetti della crisi climatica.
Al centro del Sahel sembra nascere un nuovo paradigma geopolitico con Mali, Burkina Faso e Niger, che hanno formato l’Alleanza degli stati del Sahel (Aes) e dichiarano di voler rompere le vecchie relazioni di cooperazione regionali e con l’Occidente. L’obiettivo (promosso da nuovi partner come Russia, Turchia o Iran) pare essere ancora quello di combattere l’estremismo e l’instabilità solo con la forza.
È improbabile che nel breve termine si possano negoziare iniziative regionali coordinate in termini di sviluppo sostenibile, inclusione delle comunità e pacificazione dei conflitti inter-comunitari. Per questo Senegal e Mauritania diventano sempre più cruciali per mostrare che si possono trovare soluzioni alternative.