La Shell rimborserà 111 milioni di dollari alle comunità del sudovest della Nigeria per gli sversamenti di greggio avvenuti tra il 1967 e il 1970.
L. Fioramonti: giovani come leader, guideranno oltre il pil
Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ci racconta il suo ultimo libro, dedicato al mondo dopo il pil. Ne abbiamo approfittato per parlare degli scioperi per il clima e dello studio del riscaldamento globale nelle scuole.
Per decenni è stato alla base delle analisi e delle scelte di politica economica ad ogni latitudine. È il prodotto interno lordo (pil), ovvero la somma dei beni e dei servizi finali prodotti da un Paese in un determinato periodo di tempo: un indicatore macroeconomico che nel tempo si è trasformato in vero e proprio “termometro” dello stato di salute di una nazione. Ma stiamo assistendo a una rapida svolta che porterà a un deciso cambio di paradigma. Ne è convinto Lorenzo Fioramonti, ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che negli ultimi mesi è stato in grado di finire sulle prime pagine di tutto il mondo, dalla Cnn alla Bbc, passando attraverso personaggi del calibro di Bernie Sanders e Leonardo DiCaprio, per la scelta di far diventare l’Italia il primo paese a portare nelle scuole lo studio dei cambiamenti climatici.
Nel suo ultimo libro Il mondo dopo il pil (Edizioni Ambiente) racconta la storia di questo sistema di misura, trasformatosi nel metro delle contraddizioni che mettono a rischio il nostro Pianeta; descrive i motivi della sua crisi, strettamente legati ai cambiamenti climatici e sociali in atto, e indica la strada per superarlo.
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Il racconto del suo libro parte dalla storia e soprattutto dall’ascesa di questo indicatore, il pil, che si è trasformato “in una potente istituzione a supporto dell’attuale sistema economico”. Cioè?
Il sistema di contabilità nazionale che è alla base del pil fu inventato intorno agli anni Trenta del Novecento negli Stati Uniti, nel pieno della grande depressione. La ragione fondamentale è che serviva un indicatore per capire quale fosse il livello dei consumi e della produzione: si rivelò particolarmente utile in una fase eccezionale e fu utilizzato dagli americani anche per programmare l’intervento bellico. Ma una cosa è misurare particolari situazioni di crisi, altra cosa è analizzare un Paese in tempi di normalità. Il pil è invece rimasto il principale strumento di misurazione di tutte le economie capitalistiche dopo la fine della guerra. Ciò ha prodotto un effetto a catena anche sulla concezione dello sviluppo economico, incentivando l’aumento costante dei consumi e della produzione come cartina di tornasole della salute di un Paese.
Dopo oltre mezzo secolo di pil, stiamo ora assistendo al suo declino. Lei racconta il caso dello sfruttamento massiccio dei fosfati nell’isola di Nauru, che in qualche modo è stato coerente con l’andamento del pil stesso. Che peso hanno avuto e la crisi economica e climatica?
Le prime critiche al pil sono iniziate negli anni Settanta e poi, in maniera più massiccia, negli anni Novanta. In realtà, in una prima fase la crisi ha sortito un effetto opposto: con le contrazioni delle economie in molti sono tornati a sostenere che, di fronte alla recessione, ci fosse bisogno di incrementare il prodotto interno lordo. Poi. riflessioni più oculate, hanno dimostrato come la crisi economica fosse, almeno in parte, dovuta proprio a un modello di consumo che aveva finito per aumentare le disuguaglianze e l’indebitamento privato. A fronte del perdurare della crisi economica e ai cambiamenti climatici che ci chiedono un’inversione di tendenza, ha trovato nuova forza la critica a un modello di sviluppo che non distingue tra i consumi e le produzioni positive per l’ambiente e la salute e quelle negative, che creano esternalità negative mai contabilizzate in passato.
A proposito di clima, l’Italia è il primo paese al mondo a rendere lo studio dei cambiamenti climatici e dello sviluppo sostenibile obbligatorio. Perché questa scelta, e cosa si aspetta?
Saremo il primo paese al mondo a fare dell’educazione allo sviluppo sostenibile il centro del nuovo modulo di educazione civica. Questo perché riteniamo che il cittadino responsabile del Ventunesimo secolo debba essere un cittadino sostenibile. La sostenibilità sarà declinata in base all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che prevede dinamiche economiche, sociali e ambientali: fornisce quindi la cornice perfetta per riuscire a insegnare in modo pragmatico – e al tempo stesso trasversale – il concetto di sviluppo sostenibile. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale che faccia entrare la sostenibilità in molteplici ambiti della nostra vita, dalla formazione al modello di società che vogliamo costruire, passando per l’urbanizzazione e le modalità di interazione sociale. Da questione meramente tecnica, deve insomma diventare parte integrante del nostro modo di pensare: introdurre l’educazione allo sviluppo sostenibile nelle scuole ci è sembrato il modo migliore per realizzare questo obiettivo.
A fine novembre è stato organizzato il quarto sciopero globale per il clima. Lei ha appoggiato pubblicamente la scelta degli studenti italiani di scendere in piazza.
Le mobilitazioni studentesche sono diventate un elemento fondamentale per rafforzare il dibattito sull’emergenza climatica, la più grande sfida che l’umanità abbia mai dovuto affrontare. Questa mobilitazione è la lezione più importante: visto che si parla di studenti, mobilitarsi per questa trasformazione del sistema della nostra società è davvero una lezione fondamentale. Sono orgoglioso degli studenti e del fatto che siano diventati degli opinion leader, figure che spingono affinché si parli dei cambiamenti climatici con l’obiettivo di fare qualcosa, oggi e non domani.
Torniamo al suo libro. Perché il pil non è più adeguato a fotografare il mondo di oggi? E quali sono i rischi dovuti alla scelta di continuare a basarsi su questo indicatore?
Il pil, in realtà, non è mai stato pienamente adeguato, perché ha sempre concepito lo sviluppo economico di un Paese sulla base della quantità di produzione e di consumo, senza distinguere cosa fosse positivo per l’utilità generale, e cosa non lo fosse. Ogni processo produttivo ha un costo sociale e ambientale: un sistema di contabilità nazionale all’altezza dovrebbe sempre aiutare a comprendere se una certa produzione è davvero conveniente.
Facciamo l’esempio del petrolio.
Quanto ci costa produrlo? Conviene davvero utilizzarlo? L’energia che ne deriva per mettere in moto le automobili e per trasportare le merci è realmente utile, ovvero crea più valore dei danni ambientali e di salute? Negli anni Quaranta si badava poco a questi aspetti, ma ora tutto è cambiato ed è necessario che queste esternalità negative vengano considerate e misurate, prima di prendere delle decisioni a livello politico.
Qual è il peso dell’innovazione tecnologica?
Enorme, perché con l’evoluzione tecnologica le nostre economie producono valore in maniera radicalmente diversa rispetto al passato. Pensiamo alla cabina telefonica degli anni Ottanta, quando per effettuare una semplice telefonata si sostenevano dei costi. Confrontiamola con la telefonia moderna, che ci consente di comunicare gratuitamente con tutto il mondo anche attraverso foto, video e dirette. L’indicatore del pil si muove quando andiamo nella cabina telefonica, perché spendiamo dei soldi che vengono registrati dalla contabilità nazionale, e non quando inviamo gratuitamente un contenuto attraverso la rete. Ma io mi chiedo, qual è l’economia più avanzata? Quella che ancora utilizza la cabina telefonica, o quella che si basa su un sistema di comunicazione digitale e gratuito? Il pil, che contabilizza solo la spesa monetaria diretta, non riesce a intercettare il valore aggiunto di un’economia sempre più immateriale, che aggiunge una ricchezza non ancora tenuta nella dovuta considerazione.
Lei propone una soluzione alternativa basata su diversi indicatori e nuove tecnologie. In sostanza la modifica delle regole economiche può trasformare in profondità la politica e la società.
Ciò che misuriamo influenza ciò che facciamo. Se dico ai miei lavoratori che il loro stipendio è basato sulla misurazione di un certo output, i lavoratori si adegueranno e cercheranno di aumentarlo. Il pil è la valutazione delle performance di una società: quindi se è quello l’obiettivo, tutti in qualche modo cercheranno di adeguarsi. Se modifichiamo il paradigma, stabilendo che le aziende di successo non saranno più solo quelle in grado di aumentare la produzione ma anche di incrementare la qualità, creando benessere equo e sostenibile e internalizzando i costi ambientali e sociali legati al proprio lavoro, a quel punto le aziende si dovranno adeguare. Cambiare le misurazioni è una strada molto intelligente per influenzare i comportamenti politici, sociali ed economici.
Lei parla di un nuovo modello d’interazione a “sandwich”. Come sarà l’economia dopo il pil? Come si dovrà adeguare la politica?
Sicuramente l’economia post-pil cambierà la teoria del valore, riconoscendone la creazione a realtà – come le associazioni o le organizzazioni della società civile – che al momento non sono considerate. Realtà che non producono beni che acquistiamo sul mercato, ma servizi gratuiti di grande impatto per la società. Modificando il paradigma, riconosceremo a tante realtà sociali alle quali per decenni non abbiamo dato valore economico, il fatto di essere in realtà molto più produttive di altre. Daremo enfasi maggiore ai beni comuni, ai ruoli sociali, alla società civile, al ruolo della coesione sociale e della lotta alle disuguaglianze per creare un’economia del benessere. Si sta esaurendo il modello di un’economia verticistica nella quale si produce e si consuma in maniera separata, e si andrà verso un sistema di co-produzione nel quale il consumatore abbandonerà un ruolo passivo per interagire con chi produce. Sarà un’economia sempre più orizzontale e partecipata, nella quale si riconoscerà un valore trasversale ad attività non di mercato che, per troppi anni, la logica del pil ci ha portato a considerare prive di valore economico.
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