Come funziona il meccanismo di loss and damage istituito alla Cop27, il fondo per risarcire i paesi poveri per perdite e danni dovuti alla crisi climatica.
Era la grande sfida della Cop27 di Sharm el-Sheik, in Egitto. Una sfida che, inaspettatamente e al prezzo di pesanti compromessi, è stata vinta. Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 novembre 2022, la ventisettesima Conferenza delle parti sul clima ha adottato un documento che istituisce il meccanismo di loss and damage, cioè un fondo per il risarcire le perdite e dei danni subìti dai paesi che sono meno responsabili del riscaldamento globale ma subiscono i suoi danni peggiori. Durante il primo giorno della Conferenza successiva, la Cop28 di Dubai, i governi hanno confermato l’accordo sui dettagli operativi del fondo.
Cosa si intende di preciso per loss and damage? Troviamo una spiegazione nel sito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Unfccc. I cambiamenti climatici di origine antropica hanno già avuto un impatto sulla natura e sulle persone, provocando perdite e danni che vanno ben al di là di quelli che sarebbero giustificabili sulla base dell’usuale variabilità del clima. Tra i fenomeni che possono provocare perdite e danni ci sono sia gli eventi meteo estremi, come uragani, cicloni o ondate di caldo e siccità, sia i cambiamenti che si svolgono su un arco di tempo più lungo, come l’innalzamento del livello dei mari, il ritiro dei ghiacciai, la desertificazione e l’acidificazione degli oceani.
Gli sforzi compiuti per l’adattamento possono rendere i territori meno vulnerabili, ma ciò non toglie che alcuni impatti siano irreversibili, perché spingono le comunità umane e i sistemi naturali ben oltre la propria capacità di reazione. Se anche la comunità internazionale riuscisse a tagliare le emissioni di gas serra in misura compatibile con un aumento della temperatura media globale di 1,5 gradi, come chiesto dalla scienza, le perdite e i danni verrebbero ridotti ma non azzerati. In un’ottica di giustizia climatica, dunque, bisognerebbe riuscire a quantificare queste perdite e questi danni, stabilire le responsabilità (a occuparsene è la scienza dell’attribuzione) e risarcire chi li ha subiti o li subirà.
I pilastri ora sono 3: mitigazione, adattamento, loss and damage
Nel termine ombrello di mitigazione sono comprese tutte le scelte volte a frenare il riscaldamento globale, diminuendo le emissioni in atmosfera dei gas serra che ne sono responsabili. Fare mitigazione dunque significa installare pannelli solari o pale eoliche, guidare auto elettriche, piantare alberi e fare qualsiasi altra scelta orientata alla decarbonizzazione.
Viceversa, l’adattamento consiste nelle tecnologie e nei processi che limitano i danni provocati dagli eventi meteo estremi: si tratta per esempio di sistemi di allerta preventiva che consentono alla popolazione di mettersi in salvo prima dell’arrivo di un ciclone, colture resistenti alla siccità e così via.
Con la Cop27 si istituisce ufficialmente il terzo pilastro, cioè la riparazione dei danni che si sono già verificati a causa della crisi climatica o che inevitabilmente si verificheranno in futuro. Il loss and damage, appunto, che si dovrà concretizzare in un trasferimento di risorse finanziarie dai paesi industrializzati verso i paesi in via di sviluppo.
— Loss and Damage Collaboration (L&DC) (@LossandDamage) November 20, 2022
Chi è responsabile dei cambiamenti climatici
Se l’aumento della temperatura media avviene su scala globale, perché alcuni paesi dovrebbero risarcirne altri? Perché i dati scientifici dimostrano che non c’è equilibrio tra chi è storicamente responsabile dell’elevata concentrazione di gas serra in atmosfera e chi è più vulnerabile alla crisi climatica che è la sua diretta conseguenza. Nello specifico, dal 1751 (cioè dalla rivoluzione industriale) al 2017 gli Stati Uniti, da soli, hanno riversato in atmosfera 399 miliardi di tonnellate di CO2, seguiti da Unione europea e Regno Unito a quota 353 miliardi; la percentuale sulle emissioni cumulative è dunque rispettivamente del 25 e del 22 per cento. Al terzo posto c’è la Cina con 200 miliardi di tonnellate di CO2, il 12,7 per cento del totale; il suo status è ibrido perché formalmente risulta ancora un paese emergente, pur essendo ormai la seconda economia globale per prodotto interno lordo (pil). Viceversa, l’intero continente africano raggiunge appena il 3 per cento delle emissioni storiche globali.
La classifica di chi paga il prezzo della crisi climatica, tuttavia, si capovolge. Dal 1991 in poi il numero di disastri climatici che colpiscono annualmente le zone più povere del pianeta è più che raddoppiato, causando 676mila morti. In proporzione, significa che il 79 per cento delle vittime accertate vive in un paese in via di sviluppo. Se si considerano non solo i decessi ma più in generale le persone che sono state colpite, perché per esempio hanno subito danni alla propria casa o ai campi agricoli da cui ricavano il cibo, si arriva a 189 milioni di persone ogni anno, il 97 per cento del totale globale.
La storia dei negoziati sul loss and damage
La prima volta in cui si discusse della possibilità di istituire un meccanismo risarcitorio per i danni dei cambiamenti climatici era il 1991. All’epoca, a proporlo alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) erano state le isole Vanuatu. Al Summit della terra di Rio de Janeiro, l’anno successivo, si stabilisce il principio delle responsabilità comuni ma differenziate (common but differentiated responsibilities), uno dei pilastri del diritto ambientale internazionale. Si mette quindi nero su bianco che tutti gli stati hanno la responsabilità di affrontare la crisi ambientale, ma sono chiamati a contribuire in modo commisurato alle loro condizioni socio-economiche e alle loro emissioni storiche.
Bisogna aspettare la Cop13 di Bali, nel 2007, perché l’espressione loss and damage compaia per la prima volta in un documento formale dell’Unfccc, benché inserita sotto il cappello dell’adattamento e senza tradursi in alcuno stanziamento effettivo di denaro. Nel 2010 viene istituito il fondo verde per il clima con cui i paesi industrializzati si impegnano ad aiutare quelli in via di sviluppo in materia di mitigazione e adattamento: il progetto va avanti però a rilento, tant’è che ancora nel 2022, a 12 anni di distanza, non sono ancora stati erogati tutti i finanziamenti promessi.
Nel 2013, alla Cop19, si istituisce il Meccanismo internazionale di Varsavia per perdite e danni associati agli impatti dei cambiamenti climatici. La proposta arriva dal G77 e dalla Cina ma viene annacquata rispetto alla sua formulazione originaria e non include alcun meccanismo finanziario. L’Accordo di Parigi per la prima volta separa il loss and damage dall’adattamento, nell’articolo 8. Ma il principio rimane espresso solo in astratto e non ce n’è traccia nemmeno nel Patto di Glasgow del 2021.
Cosa è stato deciso alla Cop27 sul loss and damage
Insomma, il tema ricompare nei negoziati più volte per trent’anni, senza mai giungere a un’adozione formale. Questo passo avanti storico è stato segnato nelle ultime frenetiche ore della Cop27. Non è stato un caso che una misura simile fosse al centro di una Conferenza che si è svolta in Egitto e che per questo è stata ribattezzata dal suo presidente, Sameh Shoukry, come “la Cop africana”.
Bene che si sia trovato un primo accordo sul tema del loss&damage. Chi ha rotto il clima deve pagare i danni. Ora non lo si affoghi con ritardi e omissioni.
Molto male tutto il resto. Non ci saranno mai abbastanza soldi per aggiustare un mondo a +3°C.
Questo primo accordo stabilisce soltanto la creazione di un fondo sul loss and damage che si inserisce nel quadro dell’Accordo di Parigi. Alla chiusura del negoziato, però, non è chiaro chi dovrà erogare i fondi, chi li dovrà gestire, quanti soldi verranno dati, a chi e a quali condizioni. A un apposito Comitato di transizione composto da 24 membri, 14 dei quali dei paesi del sud del mondo, viene affidato il compito di definire una tassonomia delle perdite e dei danni compensabili, entro la Cop28 in programma a Dubai nell’inverno 2023.
I dettagli sul fondo per il loss and damage stabiliti alla Cop28 di Dubai
Il suo funzionamento è stato affidato per quattro anni alla Banca mondiale, la principale organizzazione internazionale per il sostegno allo sviluppo. Una scelta a cui i paesi in via di sviluppo si sono opposti, temendo che – come già successo in altre circostanze – l’accesso ai finanziamenti sia subordinato a condizioni imposte dalla Banca mondiale stessa. Per garantire che la governance del fondo sia equilibrata, verrà creato un board composto da 26 membri, di cui solo 12 designati dai paesi sviluppati.
📺 The United States 🇺🇲 objected to the outcome of the #TC5 Transitional Committee meeting on #LossAndDamage.
The recommendations fall short due to the omission of any mention of the necessary scale of finance and the lack of a clear plan for initial capitalisation.
Erano stati gli Stati Uniti, nel corso degli incontri preparatori tenutisi a inizio novembre ad Abu Dhabi, a premere per affidare questo ruolo alla Banca mondiale. E sempre gli Stati Uniti avevano insistito affinché i contributi dei singoli Stati al fondo per il loss and damage fossero volontari, non obbligatori. Una linea che alla Cop28 ha prevalso.
La spaccatura tra il nord e il sud del mondo
Su questo tema si è venuta a creare una spaccatura tra il nord e il sud del mondo. Il problema di fondo, ricordato anche dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, sta nel fatto che i paesi emergenti si sono sentiti traditi. Per tanti motivi. Perché il fondo verde per il clima istituito nel 2009 non ha mai funzionato fino in fondo, perché nell’ultimo biennio hanno ricevuto solo le briciole delle poderose misure di lotta contro la pandemia (in termini sia di vaccini, sia di finanziamenti), perché sono stati travolti loro stessi dalla crisi dell’energia. Ma nessuno ha mai pensato di alleggerire il loro debito estero.
Fino alla vigilia della Cop27, Unione europea e Stati Uniti avrebbero preferito coinvolgere strumenti e istituti finanziari già esistenti, invece di creare un fondo ex novo. Uno stallo che è stato oltrepassato anche grazie alla presidenza marocchina da un lato, e dall’altro lato al ruolo del Pakistan come leader del G77, la coalizione che riunisce gli stati in via di sviluppo. Il paese asiatico infatti è divenuto un simbolo dei danni dovuti alle catastrofi climatiche, per via delle catastrofiche inondazioni avvenute tra settembre e ottobre del 2022. 33 milioni di persone coinvolte, 1.500 morti, danni stimati in 40 miliardi di dollari. Tutto questo in un paese che storicamente è responsabile dello 0,28 per cento delle emissioni di CO2.
Quali paesi contribuiranno al fondo e quali saranno i beneficiari
Quali paesi contribuiranno al fondo per il loss and damage e quali invece saranno i beneficiari? Dalla risposta a questa domanda dipende, in sostanza, il buon esito dell’iniziativa.
Per rendere possibile uno strumento finanziario di questo tipo, infatti, la base dei donatori dovrebbe essere allargata fino a comprendere anche quegli Stati che nel 1992, quando è nata l’Unfccc, erano esonerati da obblighi di sorta in materia di emissioni perché classificati come emergenti. Primi fra tutti Cina e India che, attualmente, sono rispettivamente al primo e al terzo posto per emissioni di CO2. Entrambi però rimarcano quanto il loro sviluppo economico sia molto recente. E sostengono di avere bisogno delle risorse del loss and damage, per sostenere le fasce più vulnerabili della popolazione.
Chi avrà dunque diritto di ricevere i finanziamenti? Anche questo tema è stato molto dibattuto, senza arrivare a una piena risoluzione. I paesi ricchi infatti avevano provato a limitare l’accesso ai piccoli stati insulari in via di sviluppo (Aosis) e ai paesi a minore livello di sviluppo (indicati con la sigla Ldc, da least developed countries). Così facendo, però, ne sarebbe stato escluso anche lo stesso Pakistan, così come altri paesi molto vulnerabili ai disastri climatici, come Filippine e Colombia.
Quanti soldi servono e quanti ne sono stati promessi finora
Alla Cop28 di Dubai sono stati immediatamente promessi meno di 700 milioni di dollari per alimentare il fondo per il loss and damage, così ripartiti:
Emirati Arabi Uniti: 100 milioni
Germania: 100 milioni
Italia: 108,9 milioni
Francia: 108,9 milioni
Stati Uniti: 17,5 milioni
Giappone: 10 milioni
Danimarca: 50 milioni
Irlanda: 27 milioni
Unione europea: 27 milioni
Norvegia: 25 milioni
Canada: 11,8 milioni
Slovenia: 1,5 milioni
A livello mediatico e istituzionale, si è parlato di un risultato storico. In parte è così, ma è altrettanto vero che queste cifre sono briciole, rispetto al reale fabbisogno. Un report della Loss and damage collaboration le calcola in circa 400 miliardi di dollari all’anno; miliardi, non milioni. Al momento, dunque, siamo fermi al 2 per cento di quanto necessario. Sempre la Loss and damage collaboration fa notare come i guadagni dei dieci calciatori più pagati del mondo, messi assieme, raggiungano i 961 milioni di dollari nel 2023. Cioè più di quanto è stato promesso per salvare le popolazioni dei paesi più vulnerabili dagli sconvolgimenti legati al clima.
Articolo pubblicato il 22 novembre 2022 e aggiornato il 27-28 dicembre 2023, integrando gli avanzamenti della Cop28 di Dubai.
Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
Basta con i “teatrini”. Qua si fa l’azione per il clima, o si muore. Dalla Cop29 arriva un chiaro messaggio a mettere da parte le strategie e gli individualismi.