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Un viaggio nell’universo di Lucio Corsi, dalla Maremma a Milano passando per Mark Bolan e Jannacci
Abbiamo incontrato il giovane artista toscano Lucio Corsi, tra i più promettenti della nuova canzone d’autore italiana, per parlare del suo nuovo album, della campagna e della metropoli, di glam rock e Sanremo.
Lucio Corsi è un esemplare raro, se dovessimo stilare un bestiario – come ha fatto lui con il suo primo album, un concept – delle specie che abitano la giungla della musica italiana, il cantautore toscano sarebbe uno degli animali più preziosi.
Figlio della campagna, nato libero e trapiantato nello zoo metropolitano per inseguire un sogno, Lucio, canta storie, o meglio fiabe, che parlano della sua terra e dei suoi abitanti, del mare e delle sue conchiglie.
Cosa faremo da grandi?, tra i lavori più belli di questa prima parte dell’anno, confezionato da Francesco Bianconi (Baustelle) e Antonio Cupertino, è una raccolta di canzoni senza tempo, sospese tra folk e rock, con il glam rock in testa ma soprattutto sulla pelle, il suo personaggio, un po’ David Bowie un po’ Renato Zero.
Abbiamo incontrato Lucio alla Casa degli artisti, a Milano, in tempi non sospetti, all’indomani dell’uscita del nuovo album.
Ciao Lucio, puoi raccontarci come e quando hai iniziato a fare musica?
Ai tempi dell’asilo mio padre mi fece vedere i Blues Brothers, una cosa che mi ha segnato: desideravo diventare un cantante, come Elwood. La cosa mi è poi passata di mente fino a quando ho compiuto 14 anni; è allora che ho deciso di imparare a suonare la chitarra elettrica. Il mio primo gruppo, ai tempi delle superiori, era un gruppo prog, ispirato ai Genesis. Poi durante il liceo ho iniziato a scrivere testi e canzoni mie. Ho capito che era quella la cosa che più mi affascinava. Così ho cercato di portarla avanti una volta finita la scuola.
Come nascono le tue canzoni?
Diffido da chi dice: “aspetto che arrivi l’ispirazione”. Penso che fare il musicista possa essere considerato un lavoro artigianale, non lontano da molti mestieri. Più ti siedi al pianoforte, meglio è; almeno, dovesse arrivare questa fantomatica ispirazione sono nel posto giusto e non a fare la spesa. Scrivo più o meno ogni giorno, metto da parte del materiale in una sorta di archivio che successivamente torno a spulciare. Mi capita di prendere una parte di testo scritta mesi prima e unirla a degli accordi, ad altro materiale più recente. La mia musica è fatta di tanti pezzi che poi metti insieme.
Ascoltando le tue canzoni emerge un legame molto forte con il nostro pianeta, la tua terra, il mare, gli animali, la geografia: che influenza ha la natura nel tuo modo di fare musica?
Ha una grandissima influenza. Sono nato e cresciuto in campagna, in un podere, nemmeno un paese, circondato da alberi dell’ombra, non da pali della luce. Si chiama val di Campo di Vetulonia. La mia terra, la Maremma, è un posto magico, affascinante: una sorta di far west nostrano. Non a caso è abitato dai butteri, i cowboy italiani. C’è anche una tradizione di brigantaggio. Non è la classica toscana con le colline verdi, dolci: è una terra brulla, secca, arida, fatta di campi piatti e polvere Vetulonia era una città etrusca di mare: era un porto. Si affaccia su questa grande pianura dove un tempo c’era il lago Prile, divenuto una palude e in seguito bonificata. È stata un terra di morte, di sofferenza.
Maremma amara, la canzone popolare parla proprio di quello: si moriva di malaria. Al posto della palude oggi è rimasta una riserva naturale bellissima: la Diaccia Botrona, dove puoi trovare i fenicotteri.
Com’è stato per te e per la tua musica trasferiti in città, a Milano?
Difficile inizialmente. Ma non per colpa di Milano: è la città che non amo. Per la quantità di persone, di rumori, di luce… Milano con il tempo l’ho rivalutata, ho imparato ad apprezzarla. Anche grazie alle storie di Gaber e Jannacci. Merito anche al posto dove vivo e dove ora mi sento a casa, Niguarda Nord. Una volta era un paese, ma col tempo è stato inglobato dalla città tentacolare che si espande.
Riesci a scrivere a Milano?
A Milano scrivo poco, non mi riesce nemmeno. Preferisco tornare in Maremma: lì posso farlo quanto voglio, senza rompere le scatole a nessuno. Per scrivere è necessaria anche la solitudine. Ho imparato a conoscerla sin da piccolo: vicini non ne avevo, gli amici stavano a Grossetto. Così passavo le mie giornate da solo in casa, a suonare. La solitudine è fondamentale perché aiuta a vivere meglio.
Definirti un musicista è riduttivo. Oltre alle tue canzoni c’è molto altro.
Penso alla mia musica, a un album, cercando di andare oltre le singole canzoni che andranno a farne parte. Mi piace riflettere sulla copertina, sugli abiti che accompagneranno le canzoni sul palco, così come ai video e alle foto. Trovo molto più stimolante lavorare pensando a un unico grande pacchetto. È un qualcosa che deriva dagli amori musicali dell’adolescenza. Le prime cose che mi hanno affascinato sono state il glam rock degli anni Settanta, Lou Reed, Roxy Music, Mark Bolan e i T-Rex, David Bowie. Un altro personaggio importantissimo è stato Peter Gabriel, anche per i travestimenti che usava sul palco.
Mi verrebbe da chiederti se la moda rientra tra le tue passioni.
Assolutamente no: non sono un appassionato di moda, ma di una certa estetica, perché nasce da un amore musicale. Sono rimasto affezionato a quel tipo di mondo e me lo sono portato dietro. Il mio gusto è quello: non cambio, non cambia in base alle mode che cambiano. I motori sono l’unica passione che ho al di fuori della musica, tramandata da mio padre. Da piccolo guidavo la moto, adesso mi limito a qualche giro sul sidecar di papà o sulla Motom, una vecchia moto degli anni Quaranta che parte ancora oggi. Forse non al primo, ma al secondo colpo.
C’è qualche artista che ti piace tra i musicisti di oggi?
Mi piacciono molto Aldous Harding, Connan Mockassin e Ariel Pink.
Toglimi una curiosità: cosa pensi di Sanremo?
Sanremo e la grande canzone oggi sono su due pianeti diversi, due strade che non si dovrebbero mai incontrare. Amo i cantautori del passato: Ivan Graziani, Lucio Dalla, Pierangelo Bertoli, Piero Ciampi, Fabrizio De André. Ascolto Paolo Conte, non Elettra Lamborghini. Direi che è uno spessore completamente differente.
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