La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
Si è conclusa il 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità, in Colombia. Nonostante le speranze, non arrivano grandi risultati. Ancora una volta.
Entro il 2100 tutta la popolazione di pinguino imperatore potrebbe estinguersi. Una delle ultime speranze: inserirlo nella lista delle specie minacciate.
La più grande minaccia che il pinguino imperatore (Aptenodytes forsteri) sta affrontando è rappresentata dai cambiamenti climatici. Se il riscaldamento globale dovesse continuare al ritmo attuale, il ghiaccio marino antartico diminuirà talmente tanto che il 98 per cento della popolazione di pinguino imperatore si estinguerà entro la fine del secolo.
Questo dato allarmante è il risultato dello studio di un team internazionale di scienziati, pubblicato sulla rivista Global change biology, con il quale i ricercatori hanno proposto di inserire il pinguino imperatore, come specie minacciata, all’interno della lista Endangered species act (Esa), come ultimo tentativo per riuscire a salvaguardare gli esemplari rimasti.
L’Esa è già stato sfruttato per proteggere altre specie minacciate dal riscaldamento globale come l’orso polare (Ursus maritimus), la foca dagli anelli (Pusa hispida) e alcune varietà di corallo. Il pinguino imperatore però non vive nel territorio statunitense, quindi le misure volte a proteggere l’habitat della specie e a impedirne la caccia non vengono applicate direttamente.
Tuttavia, l’aggiunta nell’Esa potrebbe portare comunque benefici. Potrebbe fornire, infatti, un modo per ridurre i danni provocati dai pescherecci statunitensi che lavorano in quelle acque; inoltre, grazie all’amministrazione guidata dal presidente Joe Biden, potrebbe incrementare le pressioni sulle agenzie americane affinché intraprendano azioni per diminuire le emissioni di gas serra.
Il pinguino imperatore è il più grande tra tutti i pinguini e prospera, per ora, sulle coste antartiche. Stephanie Jenouvrier, autrice principale dello studio, ha paragonato il pinguino imperatore a “Riccioli d’oro”: la zuppa ideale è quella tiepida – né troppo calda, né troppo fredda –, così anche il pinguino ha una comfort zone molto ristretta. Infatti, se la banchisa è molto sviluppata, i percorsi per andare a procurare il cibo diventano lunghi e faticosi, lasciando i piccoli a morire di fame; se invece il ghiaccio marino è poco e instabile, i piccoli, che non hanno ancora sviluppato il piumaggio adulto, rischiano di cadere nelle gelide acque e annegare. I cambiamenti climatici stanno quindi mettendo a rischio questo delicato equilibrio e potenzialmente tutta la specie.
Un esempio di cosa potrebbe succedere si è già verificato nel 2016. Il pinguino imperatore ha bisogno di una banchisa di ghiaccio fissa su cui riprodursi, che deve permanere dal mese di aprile fino a dicembre, quando i piccoli si involano. Nel 2016 ad Halley bay, dove risiedeva la seconda più grossa colonia di pinguini imperatori, la banchisa si è rotta ad ottobre, molto prima che i pulli fossero pronti alla sopravvivenza. La stessa cosa è avvenuta nel 2017 e nel 2018, portando alla morte di quasi tutti i pulcini di ogni stagione, circa 10mila individui. La colonia non si è ancora ripresa.
Il team di ricercatori ha mostrato che se verranno soddisfatti gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima, mantenendo il riscaldamento a meno di 1,5 gradi Celsius rispetto alle temperature preindustriali, sarà possibile proteggere un habitat sufficiente a fermare il declino dei pinguini. Tuttavia, le stime non sono confortanti: la probabilità che si superino i 2 gradi, infatti, è del 97 per cento.
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