La campagna Vote for animals, promossa da Lav e altre organizzazioni, mira a far assumere a candidati e partiti un impegno maggiore sul tema dei diritti animali.
La nuova vita dei macachi salvati dalla vivisezione
Uno studio condotto da Lav e pubblicato sulla rivista Primates, dimostra che riabilitare i macachi salvati dalla vivisezione è possibile.
Meno dello 0,1 per cento degli animali vittima della vivisezione viene liberato. Questo a fronte degli oltre 600mila sfruttati ogni anno solo nei laboratori italiani. A causa di questo numero estremamente limitato di animali che riescono a salvarsi, non esistono studi specifici che possano guidare gli esperti nella loro riabilitazione. La prassi dei laboratori, infatti, è generalmente quella di sopprimerli una volta terminati gli esperimenti. Un nuovo lavoro potrebbe però cambiare le cose. La Lega antivivisezione (Lav) ha recentemente presentato uno studio scientifico che dimostra come sia possibile riabilitare i macachi (Macaca fascicularis) salvati della vivisezione.
I risultati, pubblicati sulla rivista scientifica internazionale Primates, dimostrano ancora una volta l’estrema resilienza e tenacia di questi animali che, benché abbiano vissuto per anni in condizioni di deprivazione e malessere, sono riusciti a tornare – lentamente – a vivere nel centro di recupero di Semproniano.
Da dove provengono i macachi coinvolti nella sperimentazione animale
Quando si parla di vivisezione o sperimentazione animale, la mente riconduce subito alle immagini degli animali nelle gabbie dei laboratori. Ma la loro storia incomincia molto prima, specialmente nel caso dei primati. “I primati provengono quasi sempre da paesi fortemente impoveriti – ci spiega Michela Kuan, biologa e responsabile nazionale dell’area ricerca senza animali di Lav –. Spesso sono vittime della caccia e del commercio illegale in paesi come la Cina e le Mauritius, ma anche in tutto il Sudest asiatico. Vengono presi in natura e strappati alle proprie madri. Oppure esistono enormi stabilimenti di smistamento situati di fianco agli aeroporti in cui gli esemplari vengono fatti riprodurre e i giovani vengono spediti nelle stive”.
Pensiamo a un animale selvatico che dovrebbe vivere in una foresta, giovane e allontanato dalla madre, chiuso in un box dove non c’è luce o calore con un rumore pazzesco e costretto ad affrontare viaggi transatlantici. È una forma di violenza su di loro incredibile.
“Una volta in Europa subiscono una quarantena in uno stabilimento fornitore, che fa da tramite da quello allevatore e quello utilizzatore dove vengono fatti dei test per controllare che non abbiano patogeni – continua –. Da lì vengono rivenduti allo stabilimento utilizzatore e affrontano l’ennesimo viaggio. La gente conosce di più cani e gatti, ma i primati sono molto empatici e ci trasmettono quello che sentono. Chiunque può riconoscere l’angoscia, il dolore e lo stress che subiscono questi animali”.
Dai laboratori al centro di recupero
Benché le leggi europee e italiane punterebbero a limitare quanto più possibile la sperimentazione animale e ad eliminarla completamente nei casi in cui non sia necessaria, la prassi risulta essere diversa. Stando all’ultimo report pubblicato dal ministero della Salute, che ha il compito di autorizzare le procedure che coinvolgono gli animali, l’utilizzo di macachi negli ultimi anni ha subito un’impennata. Non solo. È la stessa legge italiana a stabilire i “canoni di benessere” per gli animali.
Nel caso dei primati questo equivale a gabbie poco più grandi di un tavolino, con un fondo estraibile per pulire feci e urine. Generalmente non hanno la possibilità di arrampicarsi, di socializzare con altri simili o di esprimere i comportamenti tipici della loro specie. Questo ovviamente senza contare le procedure che devono subire. “Permangono in questo stato per anni, a volte decenni. Bisogna dire che sono animali longevi, che in natura arrivano anche a 25-30 anni e nei laboratori vivono in quelle condizioni tutto il tempo che l’istituto o il centro di ricerca che li ha comprati decide di tenerli”, sottolinea Michela Kuan.
Il progetto condotto da Lav è iniziato proprio in questo contesto, nel 2017, quando l’Università di Padova ha deciso di cedere i macachi detenuti nei suoi laboratori all’associazione. I più giovani avevano 7-8 anni e i più vecchi 15, tutti passati dentro gli stabilimenti. “In questo caso è stata l’università a scegliere di chiudere la linea di ricerca sugli animali e liberare quelli che stava detenendo”, ha spiegato. “È molto importante e va sottolineato perché fa ben sperare per il futuro del paese. L’esempio dell’Italia è unico in Europa. Abbiamo ottenuto un cambiamento culturale e scientifico importante”.
Un lungo processo di adattamento
Una volta liberati, i macachi sono stati portati al centro di recupero Lav di Semproniano, in provincia di Grosseto (Toscana) dove vengono accuditi ogni giorno dai keeper, cioè dalle persone che si occupano della loro riabilitazione. “Tutti i macachi che arrivano dai laboratori hanno una cosa in comune: hanno il terrore di tutto ciò che li circonda”, ci ha raccontato Valeria Albanese, una delle keeper del centro. “Ricordo ancora il viaggio in cui li abbiamo trasportati da Padova al centro. Eravamo fermi in un autogrill e abbiamo aperto il furgone per controllarli e a uno di loro è arrivato un raggio di sole addosso ed è stata una cosa pazzesca perché era la prima volta che lo vedeva. Del resto, vivono in ambienti con luce artificiale con finestre oscurate per evitare che da fuori si vedano gli animali all’interno. Hanno una resilienza notevole come animali”.
Abbiamo animali che hanno visto per la prima volta il sole e l’erba qui.
Per questo, una volta giunti al centro, anche elementi semplici come l’erba o i rumori della natura li terrorizzano. “Questa colonia di Padova è arrivata estremamente impaurita e fisicamente debole: erano tutti senza muscolatura perché nei laboratori non potevano muoversi; poi erano pallidi perché stavano sempre in luoghi chiusi”, continua Albanese. “Una delle prime cose che succede infatti è che si abbronzano, proprio come noi. Gli cambia proprio il colore del viso e del pelo. Poi iniziano a mettere su massa muscolare. Dal punto di vista psicologico la riabilitazione è più lunga perché devono adattarsi e capire che non è tutta una minaccia. Hanno persino paura delle tortore o dei piccioni che volano sopra le aree. Provano terrore puro e come li vedono iniziano a fare vocalizzi di allarme per avvertire tutta la truppa. Poi pian piano capiscono che non è una cosa di avere paura”.
È stato emozionante vedere un animale che ritrova la libertà, è una cosa che dà i brividi perché capisci la voglia che hanno di vivere nonostante tutto quello che hanno passato, di voler tornare a quello che appartiene a loro.
“La prima cosa che fanno quando capiscono che possono muoversi senza ricevere punizioni è andare in alto, il più possibile. Questo perché per tanti anni hanno vissuto in un posto dove non potevano tirarsi in piedi – aggiunge Kuan –. Quindi vederli correre verso l’alto è stato un regalo bellissimo. Lo considero un regalo che in poche persone purtroppo possono vedere, ma che mi auguro possa servire per andare sempre di più verso la liberazione di questi animali”.
Le cinque aree da riabilitare nei macachi salvati dalla vivisezione
Il processo riabilitativo di questi macachi non è stato solo di tipo psicologico, ma, come ci ha spiegato Valeria Albanese, ha compreso cinque aree fondamentali: ambiente, alimentazione, salute, arricchimenti e osservazioni. L’ambiente che trovano al centro è il più simile possibile a quello che troverebbero in natura e dunque diametralmente opposto a quello dei laboratori. Hanno a disposizione un’area esterna dove si possono arrampicare e una interna con il riscaldamento. Questo perché vivono in zone tropicali in natura, quindi in inverno hanno bisogno di potersi scaldare. Hanno accesso alle due aree tutto il giorno, tutti i giorni, per decidere liberamente dove andare. “Questa libertà è una cosa fondamentale che nei laboratori non hanno perché sono perennemente esposti alla visione di chi ci lavora, oltre a tutto il resto”, ha precisato Albanese.
All’interno dei laboratori, venivano alimentati con mangime artificiale, “delle vere crocchette per primati”, ci spiega. Al centro queste vengono gradualmente sostituite da frutta, verdura, semi, frutta secca, foglie e rami. Gli animali sono costantemente monitorati e in loco è sempre presente un veterinario per sopperire alle carenze che hanno ricevuto prima del loro arrivo e per essere pronti per intervenire nel caso succeda qualcosa. È bene ricordare che si tratta di animali estremamente intelligenti (e anche un po’ iperattivi – aggiunge Lav) e per questo hanno bisogno di essere stimolati costantemente con forme di “intrattenimento” più o meno complesse. Gli arricchimenti distribuiti durante questi mesi (e che vengono creati e distribuiti tutt’ora) sono stati suddivisi in tre grandi categorie: alimentari, manipolativi e un mix di entrambi. I keeper li monitorano costantemente per capire se vanno bene, se ci sono individui più indietro nella scala gerarchica o se hanno necessità particolari. Durante queste osservazioni è stato anche possibile scoprire come gli animali amassero manipolare pezzi di tessuto e utilizzarli per giocare a mosca cieca, cosa che accade anche allo stato selvatico.
“Alcuni individui presenti al centro si tirano ancora dietro le conseguenze di un’alimentazione inadeguata somministrata in un ambiente inadeguato”, ha precisato Albanese. “Alcuni sono molto magri, hanno difficoltà a prendere peso, hanno patologie croniche che non siamo riusciti a recuperare del tutto. Dal punto di vista psicologico hanno comportamenti stereotipati, quindi innaturali o ripetuti in maniera infinita, come il pacing. Questi sono comportamenti che si radicano talmente tanto nell’animale che nonostante gli vengano fornite tutte queste scelte e lo spazio, nei momenti di maggiore stress si ripropongono perché è il loro modo per cercare di calmarsi. In natura questo non succederebbe. La maggior parte dei comportamenti anormali però sono spariti”.
In ambito scientifico è importante ottenere dati oggettivi per dimostrare, una volta di più, quanto sia complesso tenere animali con queste necessità fisiche e comportamentali, in cattività e l’impossibilità di un ambiente come quello del laboratorio di soddisfare i loro bisogni.
I macachi che vivono oggi a Semproniano sono salvi, il centro è una piccola oasi di pace dove gli animali hanno la possibilità di lasciarsi alle spalle – per quanto possibile – ciò che hanno visto e vissuto nei laboratori. Quasi tutti gli oltre 600mila animali sottoposti ogni anno alla sperimentazione in Italia non hanno ancora la stessa fortuna, ma la speranza è che studi come questo contribuiscano a cambiare le cose anche per loro. Le loro vite sono la prova inconfutabile di tutti i limiti della legislazione e delle estreme contraddizioni del tanto osannato “benessere animale” che dovrebbe essere tutelato nei laboratori, ma che è evidente non lo sia.
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