Dopo un mese di razionamenti, sono stati completati i lavori per la condotta provvisoria che porterà l’acqua dal fiume alla diga di Camastra, ma c’è preoccupazione per i livelli di inquinamento.
L’alpinista Marco Confortola. La mia vetta più grande è una scuola per i bambini in Nepal
Per alcuni la natura estrema delle montagne più alte del Pianeta, gli ottomila, è magnetica. Tra questi, l’alpinista Marco Confortola. In questa intervista ci racconta le vittorie, le sconfitte e gli episodi che lo legheranno per sempre all’Himalaya, come il terremoto in Nepal.
“Qui non sono gli uomini a comandare, ma la natura. Il ritmo non lo dà l’orologio: è il sole che decide. Giorno, luce, caldo. Notte, buio, gelo. È un ciclo naturale e antico al quale non siamo più abituati e al quale al principio fatichiamo ad adattarci”. È questa la quotidianità, se così si può definire, di chi si avventura sulle cime più alte della Terra ed è così che la descrive Marco Confortola, alpinista estremo e himalaista italiano di 47 anni, che è riuscito a conquistare dieci dei quattordici ottomila del mondo, senza ossigeno.
Chi è Marco Confortola
Originario di Valfurva, in provincia di Sondrio in Valtellina, Lombardia, che è stata e tuttora è la sua palestra, Confortola è sempre stato legato a doppio filo con la montagna. Una passione, e un’indole, che lo hanno reso la più giovane guida alpina italiana e poi europea per diversi anni, soccorritore alpino e tecnico dell’elisoccorso, professioni che svolge ancora oggi. Dopo avere fatto sue le vette di casa, quelle della catena Ortles-Cevedale, ha sentito il richiamo di quelle più alte, dure, lontane, dell’Himalaya. Quelle dove il tempo si ferma, dove ogni passo pesa e ogni respiro è prezioso. Quelle talmente alte da vedere la forma sferica della Terra nell’orizzonte, da oltrepassare le nuvole e trovare il sole che, così vicino, riempie il cielo.
Gli ottomila della Terra
Gli ottomila sono le montagne che superano, appunto, gli 8.000 metri di altitudine sopra il livello del mare e il nostro Pianeta ne conta 14: Everest, K2, Kangchenjunga, Lhotse, Makalu, Cho Oyu, Dhaulagiri, Manaslu, Nanga Parbat, Annapurna, Gasherbrum I, Broad Peak, Gasherbrum II, Shisha Pangma. Oltre ad essere le più alte, sono anche le più rischiose e difficili da scalare. Non sono adatte al corpo umano o, per meglio dire, il corpo umano non è adatto a raggiungere tali altitudini. L’aria rarefatta, le basse temperature e le condizioni sempre avverse rendono quasi impossibile respirare e smaltire gli stati di malessere accumulati. Non a caso, infatti, le quote al di sopra degli ottomila sono note come la “zona della morte”. Ma, si sa, l’uomo ama spingersi oltre i propri limiti.
Quando sali un ottomila lo metti in conto. Non stai giocando nel giardino di casa, non sei al pascolo con il bestiame. Stai camminando su una cresta sottile, soprattutto se non utilizzi l’ossigeno, e la morte è sempre con te, marcia al tuo fianco come un’eventualità sempre presente.Marco Confortola, Il cacciatore di 8.000, Hoepli, 2018
Il cacciatore di ottomila
Il “debutto” di Confortola sugli ottomila è stato nel 2004, quando ha raggiunto la cima della montagna delle montagne, la più alta del Pianeta: l’Everest. E poi via con le altre, dal Shisha Pangma, l’Annapurna e il Cho Oyu scalato in giornata, in 19 ore, fino ad arrivare al Broad Peak e di nuovo all’Everest, questa volta senza ossigeno e montando la stazione meteo più alta del mondo insieme al Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Poi, il K2, la seconda più alta ma la prima per difficoltà, che si porta con sé la storia, fin troppo discussa, di una delle peggiori tragedie sull’Himalaya. Una vicenda che è costata la vita a 11 alpinisti e che ha lasciato i segni nei ricordi e sul corpo dell’alpinista valtellinese che, a causa di una notte all’addiaccio sopra gli ottomila metri, si è visto amputare tutte le dita dei piedi (da un 42, ora calza un 35 e mezzo).
Da lì, ha dovuto letteralmente rimparare a camminare e, seppur convinto del contrario, è tornato a scalare le vette: Manaslu, Lhotse, Makalu e il Dhaulagiri. La montagna bianca del Nepal, il Dhaulagiri, è legata all’alpinista per due eventi. Un salvataggio storico in elisoccorso di sette persone al di sopra dei settemila metri, un’altitudine dove l’aria è così rarefatta da non riuscire quasi a sostenere l’elicottero e dove ogni grammo in più sul velivolo conta, realizzato con il gancio baricentrico (Confortola è rimasto appeso all’elicottero con una corda di dieci metri per recuperare le persone).
L’altro evento, nell’aprile 2015, ha sorpreso l’alpinista mentre era al campo base della montagna, un terremoto che ha aperto la terra, distruggendo e polverizzando il paese, lasciando dietro di sé migliaia di vittime e appesantendo l’anima di chi ne è stato testimone. Così, Confortola ha deciso di contribuire alla ricostruzione di una scuola per i bambini nel villaggio di Thakani, nel Nepal centrale, inaugurata nel 2017.
Durante il viaggio non riesco a pensare a ciò che mi aspetta, al mio amore o alla mia valle, ma a ciò che mi sono lasciato alle spalle. Ai villaggi distrutti, ai ponti crollati, agli antichi tempi franati, alle pire di cadaveri, alle madri con in braccio i loro piccoli. Ai bambini, ai loro occhi limpidi, in cerca di futuro. Durante il viaggio penso che da queste persone si può solo imparare. Sono un po’ come i nostri nonni e, forse, come noi montanari, sanno vivere bene con poco, senza pretese. Ma una cosa è vivere con poco, una vivere con niente.Marco Confortola, Il cacciatore di 8.000, Hoepli, 2018
Abbiamo incontrato Marco Confortola nella sua valle, tra le sue montagne, durante un weekend di trekking fotografico alla scoperta del parco nazionale dello Stelvio organizzato dall’agenzia fotografica Pixcube e targato LifeGate Experience, il progetto che promuove attività di turismo sostenibile. Dopo averci portato sul tetto del mondo con i suoi racconti, siamo tornati ad altitudini più basse per farci raccontare la sua storia, e la sua vita, divisa tra la Valfurva e l’Himalaya.
Lei è nato qui, nella Valfurva. Cosa lo ha spinto ad andare sulle montagne più alte del Pianeta?
La passione. La Valfurva è legata in particolare al K2 perché uno dei primi salitori, Achille Compagnoni, è proprio di questa valle. Io l’ho conosciuto perché era un caro amico di mio zio, e da lì è nato il mio sogno. Nel 2004, quando ho avuto l’opportunità, sono andato. Poi è diventato un male: il mal d’Himalaya, un po’ come il mal d’Africa.
Cos’è per lei un ottomila?
Tanto. La base è tanto sacrificio per prepararlo, poi tanto sacrificio quando si è là per tenere duro e raggiungere la vetta. E se non si raggiunge la cima, è un altro insegnamento. Perché le vittorie si dimenticano, ma le sconfitte si ricordano. Dopo il K2, dove ho visto morire undici persone, e dopo vent’anni di elisoccorso, mi è cambiata la vita.
Un altro evento significativo è stato il terremoto in Nepal del 2015. Lei era lì: ha visto distruzione e morte, ma anche la volontà e la forza di rialzarsi. Così, ha deciso di costruire una scuola per i bambini…
Per me la scuola è fondamentale e, soprattutto, sono convinto che il futuro del mondo sia in mano ai bambini. I bambini in Nepal vogliono due cose: mangiare e studiare. Hanno capito che con lo studio possono fare la differenza nella loro vita. Quando sono tornato a casa dopo il terremoto del 2015 avevo nella mente tante persone morte. E riuscire a creare una scuola, fare qualcosa per loro è stato bellissimo. E poi vedere tanti bambini felici di andare a scuola è una cosa grande, è il mio più grande ottomila.
Nei video delle sue scalate e spedizioni si nota il suo entusiasmo, la sua forza positiva, anche nei luoghi più inospitali del Pianeta che inevitabilmente ci fanno confrontare con due costanti della nostra esistenza: la vita e la morte. Come ci convive?
Un ottomila è essenzialità. Lassù, se sbagli, muori. Se non sei veloce, se non hai comunicazione e fiducia, muori. Sono questi i princìpi che stanno alla base di una spedizione. E se c’è un problema, si cerca di risolverlo perché l’unico problema che non si risolve è la morte. Quindi, alla fine, fai un passo indietro e pensi che stai bene: hai mangiato, hai dormito bene, hai la salute. E tutto il resto è in più, è questa la base di tutto. Poi comunque siamo umani, ci arrabbiamo. Ma il fondamento è che dobbiamo vivere la vita sorridendo, come i tibetani. Perché il dono più prezioso che tutti noi abbiamo è la vita.
Come ha visto cambiare il rapporto che l’uomo ha con la montagna in questi anni di esperienza?
Nel tempo mi sono accorto che le persone fanno un semplicissimo corso, leggono un libro, e si sentono alpinisti. Negli anni ci sono state evoluzioni a livello sportivo professionistico che hanno portato a grandi performance anche sulle montagne. La gente vuole imitare i professionisti, ma poi fa danni e disastri perché non si attiene ad alcune regole di base. Noi lavorando nel soccorso alpino ce ne accorgiamo tutti i giorni: andiamo a prendere in elisoccorso le persone nei posti sbagliati, con le scarpe sbagliate, con il temporale, slegati in mezzo ai crepacci. E non serve andare lontano, un esempio è il Monte Bianco.
In questo senso, negli ultimi decenni l’Everest è forse diventato il simbolo della “febbre d’alta quota”, oltre che la più alta discarica al mondo. Cosa ne pensa?
Sicuramente la vetta più commerciale al mondo è l’Everest. Ma ora il governo nepalese ha introdotto delle regole, dei filtri tecnici, una sorta di curriculum: bisogna avere scalato un 6.000 per accedervi, così che le persone che salgono non mettano a rischio gli altri. Invece solo vent’anni fa bastava pagare e ti portavano su. Per quanto riguarda l’immondizia, il Nepal ha creato un sistema di incentivi per gli sherpa: se riportano giù la spazzatura, viene pesata e vengono pagati di conseguenza.
La scalata dell’Everest era diventata un vero business per loro, ma adesso sono più sensibili alla sicurezza e alla pulizia, soprattutto al campo base. Hanno fatto un passo indietro. In generale, tutta la civiltà europea e mondiale sta spostando l’attenzione verso l’ambiente, anche il Nepal. Spesso noi alpinisti occidentali gli mostriamo come fare la raccolta differenziata, perché anche loro stanno iniziando ad avere sempre più cura. Un po’ come è successo da noi: fino a venti o trent’anni fa non avevamo così tanta attenzione. Ad esempio proprio qui sotto, all’inizio di questa valle, c’era una discarica. Quindi credo che tutto il mondo stia cercando di andare verso la pulizia, l’ambiente e lo sport.
Come vede, invece, il turismo a quote più basse, tra le nostre montagne e nelle nostre valli?
Qui noi abbiamo veramente tutto, abbiamo l’oro. Ma a volte, purtroppo, non siamo capaci di dare valore a quello che abbiamo. La montagna va coccolata, coltivata, preservata. Se abbiamo un posto così bello è perché qualcuno l’ha mantenuta così. Se perdiamo le persone che lo fanno, perdiamo la bellezza. Se perdiamo chi falcia il prato, il rifugista che ti dice buongiorno, perdiamo tutto. Questo è il vero turismo. Cento anni fa avevano già visto il turismo in una certa maniera, poi l’abbiamo perso. Ora dobbiamo tornare a coinvolgere e a sensibilizzare.
Cosa si immagina per il futuro?
Sono ottimista, vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Spero che la nostra esperienza venga trasmessa con intelligenza alle persone che si approcciano alla montagna, insegnando il rispetto alle regole, la sicurezza, la pulizia. Lo spero, ma non sono sicuro. La nostra società è un po’ malata di tante cose. Abbiamo perso il rigore, il rispetto, in montagna e in molti altri aspetti. Le persone purtroppo leggono una guida e si sentono alpinisti, ma non è così, e mettono in difficoltà chi li va a prendere. È per questo che ho inventato un gioco in scatola, La sfida agli ottomila. In pratica, giocando insegno alla gente ad andare in montagna. Io amo il mondo dei giovani ma sono stanco di vedere i ragazzini che giocano con il telefono, che non si parlano e non si guardano negli occhi. Con questo gioco devono leggere le cartine, parlarsi, guardarsi e imparano le regole base per stare in montagna, non solo a livello tecnico.
Che consiglio darebbe a chi desidera avvicinarsi alla montagna?
Di ascoltare, di non sentirsi forte, di non credersi un fenomeno. Di imparare dagli altri: le guide alpine vecchie sono quelle che ti insegnano e anche il semplice agricoltore può insegnare tanto. Bisogna avere il buon senso di abbassarsi. Tante volte confronto montagna e mare, sono due essenze della natura fortissime. Non puoi pensare di sfidarle, devi rispettarle.
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