A Milano un murale intitolato “Respiro” ha l’obiettivo di dare un tocco di verde in più alla città e non solo.
Marco Tullio Giordana. I miei film parlano di ribellione perché le ingiustizie mi feriscono
In occasione dell’uscita nelle sale del film Nome di donna, abbiamo chiesto al regista Marco Tullio Giordana di svelarci alcuni retroscena e di raccontarci la sua idea di cinema.
Ha girato pellicole come I cento passi, La meglio gioventù, Romanzo di una strage. Ora Marco Tullio Giordana porta sul grande schermo la storia di Nina, una madre che lotta per difendere la sua dignità e per dimostrare che ogni donna ha il diritto di lavorare dove desidera senza subire molestie di alcun genere. Una ragazza che non vuole essere un’eroina, ma lasciare che la sua fragilità lasci lentamente spazio all’orgoglio: straordinaria l’interpretazione dell’attrice Cristiana Capotondi. Abbiamo incontrato Giordana al cinema Anteo di Milano dove al termine della proiezione del film Nome di donna – uscito nelle sale l’8 marzo – ha risposto alle domande di studenti e appassionati.
Come nasce la volontà di realizzare il film Nome di donna: da un episodio o da un sentimento? È un’idea a sé, o il proseguimento di un percorso già coltivato nelle precedenti pellicole?
In tutti i film che ho fatto ho raccontato storie di giovani che si ribellano a un sopruso, che non accettano la realtà così com’è perché li obbligherebbe a comportarsi in un modo che va contro la loro natura. Questa ribellione è la caratteristica che voglio condividere. Le ingiustizie mi feriscono: fin da piccolo ho sempre avuto la sensazione che non bisognasse accettarle, che si dovesse combattere per cambiare le cose. Quando ho letto la sceneggiatura di Cristiana Mainardi, mi è sembrato che raccontasse di un personaggio che avesse queste caratteristiche, queste qualità, e la cosa mi ha appassionato a tal punto da decidere di dirigere il film. Oltretutto all’epoca non si parlava molto di questi fatti, non sembravano interessanti come invece accade ultimamente, che la questione è venuta in primo piano: finalmente se ne parla molto, e spero che anche il mio film possa contribuire a formare una nuova consapevolezza e a frenare un fenomeno che trovo molto regressivo.
Lei ha detto che “è inutile nascondersi dietro un dito: ognuno, uomo o donna che sia, sa benissimo quel è il limite, la linea d’ombra. Chi la oltrepassa sa benissimo di violare un confine”. L’obiettivo di Nome di donna può essere dimostrare che non esistono situazioni ambigue?
Al contrario, le situazioni ambigue esistono: nel gioco della seduzione quel margine di ambiguità, la volontà di non rivelarsi apertamente ma in modo obliquo è ammissibile finché l’altro non dimostra di non gradire quel tipo di attenzione, allora a quel punto bisogna fermarsi. Finché è un gioco in cui tutte e due le parti sono complici e sono d’accordo, va benissimo qualsiasi cosa, ma la molestia è da parte di qualcuno che di fronte a un rifiuto continua a procedere come se niente fosse, ignorando completamente la volontà dell’altro. A quel punto diventa una violenza, dapprima psicologica, che poi rischia di passare alle vie di fatto. Io penso che non ci sia possibilità di equivoco; sono degli ipocriti quelli che fanno i furbi, che dicono: “Sono le donne che aizzano, provocano, sono in mala fede”. Sì, ci sarà anche quel caso, ma significa che sono evidentemente consenzienti, è difficile che poi si tirino indietro. Ci sono invece migliaia, per non dire milioni di persone che sul posto di lavoro dipendono da un capo che pensa di poter esercitare qualunque diritto su di loro, compreso il possesso, dell’anima e del corpo.
Dal film emerge nettamente il concetto che la violenza non è soltanto fisica, ma anche psicologica.
Il tema di Nome di donna è proprio questo. Sono già stati fatti film sugli stupri, sulle violenze, sull’assassinio, su uomini che non accettano di essere abbandonati e quindi uccidono o sfregiano le loro compagne. Qui ci troviamo in una zona più sottile, apparentemente ai limiti dell’illecito penale, che invece è grave: non quanto un omicidio ovviamente, ma è un passo che è indice di un disturbo, di una patologia, che può finire molto male.
Colpisce molto la scena in cui il compagno di Nina le propone di licenziarsi e di fuggire, ma lei risponde: “No, io voglio restare e ho il diritto di farlo”.
Il compagno è senz’altro in buona fede, ma proporle di fuggire, di non combattere, di dipendere da lui porterebbe altri guai, perché nessuno deve dipendere da un altro, in un rapporto che poggia su una base di parità e quindi anche di autonomia; è molto importante, in modo che nessuno abbia mai la sensazione di essere a carico dell’altro o che un giorno gli possa venire rinfacciato. Nina è una persona piena di dignità e vuole che questa dignità sia riconosciuta, com’è giusto. Purtroppo in un momento di grande crisi economica i diritti di chi lavora sono sempre più ristretti, sempre più soggetti alla minaccia del licenziamento, della perdita del posto, e naturalmente i primi che vengono licenziati sono quelli che rompono le scatole, i personaggi che non si piegano: anche in questo caso c’è una discriminazione. Il film cerca di sfiorare tutti questi argomenti.
Nome di donna è nato molto prima del caso Weinstein e del movimento #MeToo. Se l’avesse realizzato dopo, sarebbe cambiato qualcosa?
Non sarebbe cambiato nulla. Non si tratta di una questione di primato, perché questa cosa esiste da tantissimo tempo, da migliaia di anni forse. Anzi, in un certo senso siamo tutti in ritardo. Fino agli anni Cinquanta, addirittura, le donne nemmeno potevano votare. Sono conquiste molto recenti quelle della pari dignità e dell’importanza della donna nella società. E sono tutte conquiste che vengono minacciate in continuazione: il lavoro femminile è pagato meno, la donna è quasi sempre in posizione subalterna, sono rare le posizioni di responsabilità. Quindi è molto importante parlarne, e portarlo all’attenzione dell’opinione pubblica. E mi sembra una battaglia che si può vincere, perché le donne dovrebbero essere non solo l’altra metà del cielo, ma i tre quarti.
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