Cinque mesi di navigazione, dai porti della Germania, passando per Cape Town e circumnavigando l’Antartide. È questa la campagna di campionamento che ha portato il team di ricerca coordinato dal ricercatore del Cnr-Ismar Giuseppe Suaria, a scoprire l’inaspettato. Ovvero che la grande maggioranza delle fibre tessili che galleggiano negli oceani sono di origine naturale e non sintetica. Lo studio, pubblicato su Science Advances, ha analizzato 916 campioni di acqua di mare durante 5 spedizioni internazionali condotte in 617 località diverse. Il risultato ha sorpreso gli stessi ricercatori: oltre il 90 per cento delle microfibre raccolte erano di origine cellulosica e animale (principalmente cotone e lana).
Un risultato che pone dunque una nuova luce sul problema delle microplastiche in mare, dando vita a nuovi interrogativi. Perché ci sono più fibre naturali che sintetiche? Come hanno fatto a raggiungere i mari dell’Antartide? Che implicazioni potranno avere sulla salute degli ecosistemi e su quella umana? Molte sono le domande, meno le risposte. “La ricerca è partita nel 2017 quando siamo partiti a bordo di una spedizione organizzata dall’Istituto polare svizzero”, racconta a LifeGate Giuseppe Suaria, che ha firmato lo studio “Microfibers in oceanic surface waters: A global characterization”. “A bordo c’erano anche altri ricercatori che stavano studiando il fitoplancton e che hanno attirato la nostra attenzione sulle fibre campionate. Incuriositi dal loro ritrovamento, abbiamo così deciso di raccogliere questi campioni e di analizzarli”.
Microfibre in mare, sono più quelle di cotone
Una volta tornati in laboratorio i risultati delle analisi condotte su 23.593 fibre raccolte in sei bacini oceanici differenti, hanno portato all’identificazione della composizione polimerica, scoprendo che il 79,5 per cento di queste era a base di cellulosa (principalmente cotone), il 12,3 per cento era a base animale (principalmente lana) e solo l’8,2 per cento era sintetico (principalmente poliestere).
Questo risultato “è sorprendente perché a differenza dell’inquinamento da plastica dove il polietilene e polipropilene sono i polimeri più abbondanti sia nell’industria che negli oceani, non è questo il caso delle fibre tessili, nonostante il mercato sia dominato dalle fibre sintetiche”, spiega Suaria. Ciò potrebbe significare che “le fibre che ritenevamo biodegradabili in realtà le ritroviamo in mare a migliaia di chilometri dalla lavatrice più vicina”.
Spesso quando si parla di inquinamento da microplastiche, le microfibre tessili vengono considerate tra le fibre maggiormente presenti nei campionamenti, e fino a questo risultato quelle di origine sintetica erano probabilmente sovrastimate. Secondo il ricercatore sono due le possibili ipotesi: “La prima è che durante un classico lavaggio un capo sintetico rilascia meno fibre di uno naturale, perché si tratta di una capo con fibre più compatte. La seconda è che le fibre naturali siano più piccole e leggere e quindi possano possano circolare ed essere depositate anche su lunghe distanze”.
Le fibre che ritenevamo biodegradabili in realtà le ritroviamo in mare a migliaia di chilometri dalla lavatrice più vicina.
Resta comunque il fatto che la parte sintetica rimane ancora il 10 per cento sul totale e, se contestualizzata su scala globale, porta a numeri ancora enormi. Inoltre il sorpasso del sintetico è avvenuto in gran parte solo negli anni ’90, quindi la concentrazione piuttosto elevata potrebbe essere legata sia al fatto che fino a 30 anni fa cotone e lana erano i materiali maggiormente utilizzati, sia che questi vengono ancora oggi trattati con additivi chimici che le rendono difficilmente degradabili.
Gli impatti sulla salute dei mari
In questo caso sappiamo ancora poco dal punto di vista scientifico. I pochi studi rilevano comunque un impatto negativo sull’ecosistema marino. Non solo, ma oggi sappiamo che “sono state rinvenute praticamente ovunque: nelle profondità oceaniche, nello stomaco dei pesci, negli alimenti e nelle bevande e addirittura nei polmoni umani”, continua Suaria. Anche per questo fenomeno, dunque, vale il principio di precauzione. Questi materiali naturali o sintetici sono di origne antropica, se ne ritrovano in enormi quantità, quindi è fondamentale prevederne una riduzione. Anche perché per qualche motivo queste fibre non si stanno degradando o, se lo stanno facendo, il flusso è talmente elevato che non riusciamo a ridurne la presenza.
Lo studio infine sottolinea come le microfibre siano il tipo più diffuso di particelle di origine antropiche presenti nell’inquinamento da microplastica (in taluni casi siamo al 100 per cento), dato che non fa che alimentare la crescente preoccupazione per la salute non solo degli ecosistemi marini, ma dell’intera biosfera. Basti pensare che un solo indumento rilascia fino a 107 fibre per ogni lavaggio, il che non può che aprire un dibattito sulla cosiddetta moda usa e getta e sulla gestione delle acque reflue in tutta la terraferma.
Due studi hanno rivelato che le microplastiche sono presenti nella maggior parte dei campioni di sale da cucina analizzati e perfino nel nostro organismo.
Per la prima volta sono state osservate meduse ingoiare frammenti di microplastica, la scoperta ha evidenziato come la plastica sia ancora più diffusa nella rete trofica marina di quanto si pensasse.
All’Agri data green summit 2024, organizzato da Xfarm, si è discusso di come tecnologia e intelligenza artificiale possano supportare l’agricoltura rigenerativa e sostenibile.
Watch Duty è un app dedicata agli incendi degli Stati Uniti. Aiuta i professionisti del settore e rende più tranquilli i cittadini. Ma forse sta creando dipendenza.
La storica Barcolana di Trieste è anche l’occasione in cui sensibilizzare i diportisti e dotarli di strumenti per ridurre il proprio impatto ambientale.