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Come la canapa può accelerare la transizione verso l’economia circolare
Il futuro è verde canapa, secondo il giornalista Mario Catania. Lo abbiamo intervistato per capire quanto l’impiego di tale pianta potrebbe favorire lo sviluppo sostenibile.
Era il 18 giugno del 1971 quando Richard Nixon, allora presidente degli Stati Uniti d’America, dichiarava “guerra alla droga”, un’espressione divenuta famosa in tutto il mondo. Molti si ricorderanno quegli anni turbolenti, quando sulla scena faceva il suo ingresso Pablo Escobar, che sarebbe presto divenuto uno dei più noti e ricchi narcotrafficanti a livello globale; altri ne avranno avuto un assaggio appassionandosi alla serie tv Narcos.
E se la cocaina provoca danni all’organismo tali per cui non è possibile smettere di combatterla, con la marijuana molti stati hanno raggiunto una tregua, legalizzando il consumo della cannabis a scopo ricreativo come per uso medico, data l’efficacia dimostrata dei suoi principi attivi nel trattamento degli stati dolorosi, per esempio in malattie infiammatorie croniche. Lo stesso hanno fatto interi paesi, tra cui Canada e Sudafrica per citare gli ultimi.
Di questo abbiamo parlato con Mario Catania, giornalista specializzato nell’ambito, autore del libro Cannabis. Il futuro è verde canapa. Che ci ha spiegato come questa pianta sia in grado di assorbire grandi quantità di CO2, di ripulire i terreni dai metalli pesanti; e quali vantaggi ambientali deriverebbero dal suo utilizzo in settori come l’energia, la moda, l’edilizia e l’alimentazione.
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Una parte del testo che personalmente mi ha molto colpito è quella che riguarda i trimmigrants. Chi sono?
Ho avuto l’opportunità di scoprire questo mondo durante il viaggio che ho fatto in California e Oregon a fine 2016, in cui ho avuto la possibilità di svolgere sia lavori giornalistici – reportage, interviste e quant’altro – sia di lavorare fisicamente in quella che è la filiera della cannabis.
In California sono andato nella Humboldt county, che è l’epicentro di quello che è chiamato “emerald triangle”, il triangolo smeraldo, che comprende tre contee – Humboldt, Mendocino e Trinity – ed è considerata la zona dove viene coltivata più cannabis pro capite al mondo, dove c’è la più alta concentrazione di coltivatori perché dagli anni Sessanta c’è stato questo fenomeno di persone – il movimento hippie, il movimento che predicava il ritorno alla terra, che rifiutava la guerra in Vietnam – che hanno iniziato a spostarsi in questa zona ricca di foreste, molto protetta per poter condurre una vita comunitaria e iniziare a coltivare cannabis più liberamente di quanto si potesse fare in città.
Così si è sviluppata quell’area dove ancora oggi vengono coltivate ingenti quantità di canapa, e io sono stato lì nel momento in cui si iniziava a preparare una transizione: fino ad allora la marijuana era stata legale solo in medicina, invece nel mese in cui sono stato lì, novembre 2016, è stata legalizzata anche a scopo ricreativo. Fatto sta che in quelle zone, in tutti quei paesini che circondano la valle – uno dei principali è Eureka –, durante la stagione della raccolta della cannabis, che va da inizio estate fino a settembre-ottobre inoltrati, s’incontrano centinaia e centinaia di persone che vanno lì proprio per effettuare questa raccolta. Dalla popolazione vengono soprannominati trimmigrants, che rappresenta l’unione delle parole trimmer (colui che pulisce le cime di cannabis con delle apposite forbicine) ed immigrant.
Il fenomeno non viene visto troppo bene dalla popolazione, perché negli ultimi anni questa massa di gente che va lì a cercare lavoro è aumentata sempre di più, e spesso non c’è nemmeno lavoro per tutti. Fondamentalmente è una massa eterogenea di lavoratori, chiamiamoli stagionali, in cui si trovano giovani freak [fricchettoni, ndr] che arrivano dall’Europa, giovani americani che lo sfruttano come lavoro saltuario per arrotondare lo stipendio, signori di cinquanta/sessanta/settant’anni che lo fanno con lo stesso scopo, immigrati che arrivano dall’America centrale, quindi Messico e zone limitrofe; un sacco di persone che vengono dal Sudamerica, magari in coppia, che fanno questi tre o quattro mesi di raccolta per ottenere una cifra che poi permetta loro di vivere tutto il resto dell’anno, con tranquillità, in Sudamerica: ho visto coppie che raccoglievano in tre, quattro mesi di lavoro dai 10 ai 25mila euro a testa e poi tornavano in Guatemala per trascorrere il resto dell’anno senza fare praticamente nulla. Ho conosciuto anche un ragazzo messicano che puntava a raccogliere 5-10mila dollari perché aveva la ragazza incinta che lo aspettava in Chiapas e quei soldi gli sarebbero serviti per costruirsi una casa. Insomma, è un crocevia incredibile: la pianta con il fiore più magico che c’è attira ogni sorta di genio e stravaganza.
C’è chi sostiene che legalizzare la marijuana a scopo ricreativo possa spingere i narcotrafficanti ad abbassare il costo delle droghe pesanti, con un conseguente aumento del consumo. Lei cosa ne pensa?
In realtà è una cosa che, dove la cannabis è stata legalizzata, non sta succedendo. La teoria che probabilmente sta alla base di questo ragionamento è che la marijuana sia una droga di passaggio. È una teoria che però è recentemente stata smentita, sia da nuove branche della psicologia sia da svariate ricerche. Ad esempio in Giappone, dove non c’è un consumo di cannabis, c’è gente che fa uso di altre sostanze senza mai aver utilizzato prima la cannabis. Secondo alcuni psicologi, se bisogna identificare una costante all’inizio, a livello psicotropo probabilmente sono l’alcol e le sigarette molto spesso, e poi c’è tutta una branca della psicologia che oggi non parla più di “teoria del passaggio”, ma analizza le persone e i loro comportamenti identificando quelle che sono più portate ad abusare di sostanze in generale, per la loro storia personale, per mille motivi socioculturali.
Ad ogni modo, è qualcosa che dai dati non si sta verificando in America. L’altra grossa paura dei proibizionisti era che legalizzando potesse aumentare il consumo fra gli adolescenti, ma non sta accadendo nemmeno quello, nel senso che nei casi peggiori il consumo fra gli adolescenti rimane invariato, mentre nei casi migliori, come ad esempio in Nevada, cala addirittura dell’8-10 per cento, fondamentalmente per due ragioni: legalizzando viene meno il fascino del proibito, e con i soldi delle tasse sulla cannabis in America vengono fatte delle campagne molto serie d’informazione sugli stupefacenti nelle scuole.
Lei riporta che le morti per overdose da oppiacei negli Stati Uniti continuano a crescere. “Un’epidemia che – cito le sue testuali parole – può trovare anche nella cannabis un possibile argine”. Come?
La cannabis, più che una “droga di passaggio”, si sta dimostrando un mezzo con cui guarire da altre dipendenze, quella da oppiacei come quella da nicotina, alcol o cocaina. Negli Stati Uniti sta succedendo proprio questo: è un paese dove è molto facile ottenere la prescrizione di oppiacei, una cosa che negli ultimi anni è andata fuori controllo, ci sono stati anche dei processi, per esempio la Johnson & Johnson di recente si è presa una multa da centinaia di milioni di dollari per la pubblicità aggressiva che aveva fatto dei propri farmaci contenenti oppiacei. Quello che sta succedendo in America è che muoiono migliaia di persone di overdose ogni anno perché magari cominciano ad assumere queste sostanze sotto prescrizione medica e poi finiscono a prendere l’eroina per strada.
La cannabis medica in tutto questo processo ha rappresentato un game changer: visto che gli oppiacei vengono prescritti in larga parte per la terapia del dolore, e per quanto riguarda la cannabis ormai ci sono decine di studi che la indicano come uno dei trattamenti più adeguati, è accaduto che negli Stati in cui si legalizzava la cannabis per uso medico le persone cominciavano a sostituire gli oppiacei con la cannabis, e diminuivano i casi di overdose. Questo significa che passare dagli oppiacei alla cannabis terapeutica salva decine di migliaia di vite.
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Lei ha intervistato George Jung, uno dei maggiori trafficanti di cocaina degli anni Settanta-Ottanta, nonché uno dei pilastri del cartello di Medellín. In che modo pensa che figure come la sua e quella di Pablo Escobar abbiano influenzato la cultura statunitense, e l’immaginario collettivo a livello globale?
Penso in un modo molto forte. L’ho visto da come lui stesso mi parlava, dicendo di aver “ragionato come un americano, senza i timori che l’americano medio ha”. In America c’è ancora la mentalità che tu, quello che vuoi, te lo devi prendere: perché non c’è un welfare state, non ci sono condizioni sociali “protettive” come ci potrebbero essere in Europa, l’iniziativa è molto più individuale. Jung dice che il suo atteggiamento nella vita è stato proprio quello, quello di dire: “Se voglio una cosa, me la prendo”. I suoi affari li mette sul piano strettamente capitalistico: dal suo punto di vista, lui ha soddisfatto una domanda del mercato. Non è soltanto un modo di fare che è molto americano, è anche un discorso di sostanze: la cocaina ha caratterizzato i nostri anni Ottanta, Novanta e continua a farlo tutt’oggi perché è stata associata per anni al successo, ad un atteggiamento vincente nella vita, a tutta una serie di caratteristiche che con lo stereotipo di colui che in America ce l’ha fatta si sposano molto bene.
Torniamo in Italia: mi racconti la storia della Masseria del Carmine.
È una masseria che sorge nei dintorni dell’ex Ilva. Ai tempi – parliamo di qualche anno fa – aveva dovuto chiudere perché negli ovili erano stati trovati livelli di diossina particolarmente alti. La canapa, tra le mille proprietà che ha, è una pianta “fitorimediatrice”, è in grado cioè di estrarre inquinanti e metalli pesanti dal terreno e di stoccarli al proprio interno, principalmente nelle radici e nelle foglie. A partire dal 2014 Canapuglia e Abap (Associazioni biologi ambientalisti pugliesi) hanno avviato questo progetto di fitorimediazione con la canapa della masseria. È stata una delle prime esperienze italiane in questo senso ed è stata poi ripetuta in Sardegna. Nel mondo, uno dei primi studi ha riguardato Chernobyl all’indomani del disastro nucleare che tutti conosciamo, ed è stato proprio lo scienziato che ha condotto la ricerca, Ilya Raskin, a coniare il termine “fitorimediazione”.
Quale potrebbe essere il ruolo della canapa nella transizione energetica?
Prima di tutto, essendo una pianta che può essere utilizzata in ogni sua parte, si sposa perfettamente con il concetto di economia circolare. Dalla canapa si ottiene una plastica biodegradabile, oltre che dei combustibili che potrebbero contribuire a risolvere il problema dell’utilizzo delle fonti fossili: già nel 1941, quando Henry Ford creò la Hemp body car, la costruì con una scocca realizzata in soia, canapa e altri vegetali ed era alimentata proprio a etanolo ricavato dalla canapa.
Un altro tema è l’utilizzo della canapa in bioedilizia: ad oggi l’edilizia incide, in termini di emissioni di CO2, per il 30-40 per cento a livello globale. La canapa, mischiata alla calce, dà vita a tutta una serie di materiali che possono essere utilizzati nell’edilizia ed è alla base dell’unica filiera costruttiva che è considerata carbon negative, cioè toglie dall’atmosfera più CO2 di quella che viene prodotta nell’intero processo. Questo perché la cannabis assorbe in media il quadruplo dell’anidride carbonica rispetto agli alberi. C’è uno studio del Politecnico di Milano che sostiene che un metro cubo di canapa e calce possa prelevare dai venti ai sessanta chili di CO2. Inoltre, le case realizzate in questo modo vantano doti antisismiche.
Quali sono i vantaggi della fibra di canapa?
Noi ad oggi non abbiamo più una filiera della canapa tessile in Italia, ma fino agli anni Quaranta-Cinquanta eravamo i secondi produttori al mondo per quantità e i primi per qualità. Poi, complici vari fattori, la produzione è nettamente calata. Qualcuno adesso sta cercando di riavviarla. E se ne trarrebbero grandi vantaggi a livello ambientale: il cotone è una delle coltivazioni più inquinanti del Pianeta; occupa il 2,4 per cento dei campi di tutto il mondo, ma incide sulle vendite globali di insetticidi per il 24 per cento e di pesticidi per l’11. La canapa è più assorbente, resistente e isolante del cotone; la coltivazione richiede poca acqua e in molti casi può essere affrontata senza pesticidi. Il tessuto di canapa, inoltre, ha proprietà antibatteriche. In Italia una cosa bella che è successa di recente è che diverse aziende hanno lanciato una produzione di mascherine di canapa che possono essere lavate e riutilizzate, e potrebbero quindi risolvere il problema dello smaltimento.
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Quali sono le proprietà della farina, dell’olio e dei semi di canapa?
Per la produzione di cibo si utilizza la canapa cosiddetta “da seme”, che quindi produce una grande quantità di semi. Questi possono essere o mangiati così o decorticati, oppure vengono spremuti per ricavarne l’olio, che può essere impiegato sia nell’alimentazione sia nella cosmesi. Contiene omega 3 ed omega 6 nel giusto rapporto, fitosteroidi, vitamine, proteine, antiossidanti. Viene considerato un alimento che, se assunto quotidianamente, addirittura può rafforzare il nostro sistema immunitario e far calare problematiche come alti livelli di colesterolo cattivo.
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