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L’economista Mario Pianta. Ecco perché dalla crisi non abbiamo imparato nulla
Mario Pianta, docente di Politica economica all’università di Urbino, racconta un decennio di crisi economica. E avverte: “Oggi rischiamo più di allora”.
L’Europa “non ha ancora superato la crisi”. E oggi i rischi di una ricaduta “sono ancora più importanti di ieri”. Paesi come l’Italia, nel frattempo, “si sono impoveriti” e altri, come la Grecia, sono finiti in una situazione “disperata”. Perché è accaduto tutto ciò? Per via di un “irrigidimento ideologico liberista”, che non ha permesso all’Europa di fare autocritica e di rispondere in modo adeguato al terremoto economico-finanziario. Mario Pianta, docente ordinario di Politica economica presso l’università di Urbino, ripercorre un decennio di crisi, spiegando cosa occorrerebbe fare per scongiurare nuove difficoltà.
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Dalla fine del 2008 l’intero mondo occidentale è alle prese con una crisi, prima finanziaria poi economica, devastante. Cos’è accaduto?
L’effetto della crisi finanziaria, originata dal crollo di alcuni istituti bancari negli Stati Uniti, si è manifestato con due modalità: da una parte dal lato della domanda, a causa del crollo del reddito e della produzione. Dall’altro dal lato finanziario. In pratica le banche, dopo aver sperimentato un terremoto generalizzato, causato da speculazioni e abusi di prodotti pericolosi, hanno dovuto rivedere i loro bilanci, riconsiderare i rischi ed adottare maggiore prudenza. In pratica, hanno chiuso i rubinetti del credito. E ciò ha penalizzato pesantemente le imprese, che non hanno potuto contare sul sostegno di cui avevano bisogno.
Cosa c’entrano in tutto ciò i debiti pubblici dei paesi europei e lo spread?
Successivamente, le banche si sono chieste anche quale fosse il livello di rischio sugli investimenti sui debiti pubblici delle varie nazioni. Il problema è che in Europa, prima della crisi, si credeva che il debito pubblico delle varie nazioni fosse in qualche misura garantito dalla collettività degli stati. Invece, improvvisamente la Germania, la nazione economicamente più forte, ha scaricato gli altri, soprattutto i paesi del sud. E la finanza ha detto: “Bene, se ciascuno va per conto proprio, allora i rischi presi singolarmente sono molto più alti”. Di conseguenza, per accettare di comprare il debito (ovvero i titoli di stato, ndr) hanno preteso tassi di interesse molto più alti. Così è cresciuto lo spread (ovvero la differenza tra i tassi di una nazione e quelli tedeschi, considerati i più sicuri, ndr).
A tutto ciò i governi hanno risposto con l’austerità. È stata una scelta corretta?
Non tutti i governi: negli Stati Uniti c’è stata una risposta all’altezza della gravità della crisi. Si è scelto di aumentare immediatamente la spesa pubblica, già con Bush, prima ancora di Obama. Tale aumento della spesa ha consentito di rispondere al crollo della domanda privata. Inoltre, è stato introdotto subito il “quantitative easing”, ovvero un’enorme immissione di liquidità nel sistema: ossigeno per fa riprendere soprattutto la Borsa, che aveva perso il 40 per cento del proprio valore.
Ha funzionato?
Di fatto, negli Stati Uniti c’è stata una breve recessione e poi una ripresa. Ma va detto che essa, purtroppo, è stata alimentata di nuovo dalla speculazione. Come prima del terremoto finanziario. Così, il valore della Borsa di Wall Street è tornata a livelli pre-crisi già nel 2011 e ora siamo al 150 per cento. Con tutti i rischi che ciò comporta.
E in Europa cosa è stato fatto invece?
Nell’Unione europea sono passate due idee: in primo luogo, che gli stati non dovessero intervenire, perché il libero mercato è in grado di auto-regolarsi e rispondere alle crisi. In secondo luogo, il fatto che il problema fossero i debiti pubblici e non l’architettura della stessa Europa. In altre parole, i governi hanno ridimensionato la spesa, tagliato tutto ciò che potevano, per risparmiare. E così hanno aggravato la crisi. Le istituzioni hanno poi imposto provvedimenti come il Fiscal compact, che addirittura obbliga tutti a mantenere il pareggio di bilancio, imponendo ad ogni governo politiche di austerità. Ciò ha paralizzato l’economia, soprattutto per quei paesi, come l’Italia, che non dipendono solo dalle esportazioni ma anche dalla domanda interna.
Il risultato qual è stato?
Che oggi in Italia il Pil è ancora 8 punti percentuali al di sotto dei livelli di prima della crisi. Quindi siamo più poveri di 10 anni fa. In termini di reddito pro-capite, poi, il livello è addirittura quello di 15 anni fa. E se escludiamo il 10 per cento più ricco della popolazione, per il restante 90 per cento il reddito è quello di 20 anni fa.
Quindi non siamo usciti dalla crisi in realtà?
Non c’è stata alcuna uscita dalla crisi. Anzi, abbiamo sperimentato un crollo strutturale della produzione industriale, che è ancora del 25 per cento più bassa rispetto a 10 anni fa. Abbiamo in pratica perso un quarto della nostra capacità produttiva.
Qual è stato l’errore dell’Europa?
L’Ue ha rifiutato qualunque riforma che consentisse di diminuire la percezione del rischio da parte dei mercati. E ha affossato la domanda con l’austerity. Il contrario esatto di quello che si sarebbe dovuto fare. La sola cosa che ha evitato l’implosione è stata la scelta del governatore della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, che ha introdotto anche nel Vecchio Continente il quantitative easing. Ma la Bce, a differenza delle altre banche centrali, non può acquistare direttamente titoli di stato, ovvero il debito, dei paesi membri. Così si è deciso di dare alle banche private la liquidità necessaria per farlo. Su questo fronte la strategia ha funzionato ma dal sistema finanziario non sono arrivati soldi a imprese e famiglie. Quindi è mancato uno dei due aspetti del quantiative easing che ha funzionato negli Stati Uniti.
In Grecia, in particolare, la sofferenza è stata enorme.
La Grecia è l’esempio estremo di queste dinamiche. Lo sviluppo prima della crisi era stato forte e basato sulla spesa pubblica, senza però una capacità produttiva interna adeguata. Atene si è poi ritrovata al centro di un braccio di ferro politico: si voleva dimostrare che la Grecia dovesse obbedire ai diktat europei, anziché poter decidere liberamente e democraticamente come rispondere alla crisi. È stata così imposta l’austerità e la situazione è diventata disperata. La capacità produttiva e il reddito pro-capite sono scesi del 40 per cento. La spesa pubblica è stata tagliata in modo selvaggio, tanto da rendere impossibile la fornitura anche di servizi essenziali, come la sanità. Il tutto a causa in particolare della Germania, ossessionata dalla volontà di imporre il proprio modello a tutti. Ma la realtà è che la Germania ha un flusso commerciale maggiore di quello della Cina: copiarla è impossibile.
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C’è chi indica però il Portogallo come caso di funzionamento dell’austerità.
La verità è che dopo il disastro di Atene, l’Ue ha capito che non poteva permettersi un’altra Grecia. Il Portogallo aveva avuto una crisi analoga ma gli sono stati concessi più margini per mantenere un minimo di spesa pubblica e di domanda interna. Inoltre, sono stati mantenuti un flusso di capitale dall’estero e politiche sociali decenti. Governi moderatamente progressisti, appoggiati dalla sinistra radicale, hanno consentito di ottenere un compromesso. Ma anche in Portogallo i margini restano limitati: se non si cambierà il Fiscal compact, se non si mutualizzerà il debito, è chiaro che l’Europa è destinata a viaggiare a più velocità.
Ha citato la Germania: non avrebbe fatto comodo anche a lei avere partner europei in buona salute?
La Germania da un lato ha un livello di esportazioni estremamente alto. Ma la sua competitività non è basata sulle merci a basso costo. Berlino esporta automobili, si rivolge a consumatori ricchi. E questi ultimi sono molto più protetti dalla crisi. Inoltre, i governi tedeschi hanno deciso di diversificare, esportando molto in Asia e limitando così la dipendenza dall’Europa meridionale. Senza dimenticare che il sistema di produzione tedesco è molto complesso: tutto ciò che è a basso contenuto tecnologico è delocalizzato in altre nazioni, specie nell’Europa orientale. Il che consente alla Germania di controllare i processi produttivi di molti paesi. Parte della stessa Italia è legata al carro tedesco.
Eppure il mondo accademico ha ripetuto a più riprese che l’austerità non avrebbe funzionato. Perché la politica non ha ascoltato gli esperti?
Da una parte per un irrigidimento ideologico liberista. È l’idea dominante, alla base delle politiche che hanno permesso la speculazione. Non a caso, la finanza ha appoggiato questo approccio: basti pensare che quasi tutti i governatori delle banche centrali dei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) vengono da istituti come Goldman Sachs o dal Fondo monetario internazionale. Questo blocco, profondo e consolidato, ritiene che ogni intervento dello stato distorca il mercato e debba essere dunque ridotto. Salvo però che alla fine sono stati gli stati a salvare il capitalismo da sé stesso.
Però all’interno del Fondo monetario internazionale (Fmi) ci sono state anche voci fuori dal coro, come quella del capo economista Olivier Blanchard.
Nel Fmi c’è una schizofrenia. Blanchard è stato un po’ più keynesiano e ha sviluppato posizioni critiche sull’austerità. Così, a volte se si leggono le analisi del servizio studi del Fmi si trovano posizioni perfino più a sinistra di tanti governi socialdemocratici europei. Poi però quando si è trattato di prendere decisioni sulla Grecia, il Fondo si è dimostrato una forza conservatrice.
Benché la risposta ad essa sia stata sbagliata, almeno la crisi è servita a creare gli anticorpi per evitare nuovi terremoti finanziari?
Assolutamente no. La bolla finanziaria attuale è peggiore di quella di prima della crisi e potrebbe scoppiare in qualunque momento. Fatto salvo per il quantitative easing, non è stato introdotto alcuno strumento efficace. Per capire la situazione, è utile immaginare che prima avevamo una casa senza il tetto, e la speculazione l’ha inondata con una pioggia torrenziale. Oggi siamo ancora senza tetto e le nuvole nere sono aumentate sulla testa.
La popolazione se ne rende conto a suo avviso?
Questi dieci anni non hanno consentito di imparare molto, perché l’impoverimento imposto soprattutto all’Europa meridionale ha innescato una dinamica sociale populista. Ha portato la gente a ragionare con la pancia, a cercare capri espiatori. Così, anziché capire che questo tipo di poteri economici sono la causa delle disuguaglianze, della povertà, delle difficoltà che affrontiamo, i nemici sono diventati i migranti.
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