La startup italiana Bufaga propone l’installazione di dispositivi in grado di rimuovere le polveri sottili. Prossima tappa: la metro di Roma.
Quali mascherine scegliere per il futuro? Inclusive, personalizzabili, sostenibili
Le mascherine di domani: alla ricerca di sistemi di protezione individuale del respiro ad alta efficienza sociale e ambientale, tra design e materiali.
Di fronte alla diffusione di un virus che richiede dispositivi di protezione individuale (dpi) come mascherine da indossare praticamente sempre, tutti i giorni e per più ore al giorno, design e materiali sono impegnati sul duplice fronte della prestazione e della riduzione degli impatti.
Fino a un anno fa il design di mascherine di filtraggio dell’aria respirata, era rivolto a dare risposte efficaci alla necessità di proteggersi dalle alte concentrazioni di inquinanti nelle grandi città. Oggi invece, con l’esigenza irrinunciabile di difesa dai contagi ovunque, e sia in esterno che in interno, il design deve trovare risposte basate non solo su soluzioni efficienti, ma anche e soprattutto su soluzioni compatibili. È lì che i numeri della pandemia ci hanno condotti.
Il problema delle mascherine monouso è globale
Tutte le mascherine monouso, tanto quelle chirurgiche quanto le più performative ffp2 e ffp3 (o le corrispettive N95 e N99 delle certificazioni statunitensi), privilegiate come prima scelta nell’uso quotidiano, sono basate sull’utilizzo di più strati di tessuto non tessuto in materiali plastici, normalmente polipropilene o poliestere, per ottenere il filtraggio e l’impermeabilità richiesti. Materiali che, nel caso dei prodotti usa e getta, generano problematiche ambientali non indifferenti.
Solamente in Italia sono state stimate all’inizio dell’anno scolastico 44 tonnellate di mascherine monouso da smaltire quotidianamente dopo la fornitura agli asili e alle scuole primarie. Un boomerang ambientale di proporzioni preoccupanti.
In un Paese al primo posto al mondo come “dump site” dei rifiuti plastici, come la Malesia – un Paese che solamente tra gennaio e luglio 2018, avrebbe ricevuto dagli Stati Uniti, primo esportatore mondiale di rifiuti di plastica, qualcosa come 178.238 tonnellate di tali rifiuti –, l’uso di dispositivi usa e getta di protezione personale sta aggravando drammaticamente la situazione delle discariche a cielo aperto. “Non ci sono piani per rivedere le leggi sullo smaltimento delle maschere facciali Covid-19 non cliniche e dei dispositivi di protezione individuale usati, se non per quelli classificati come rifiuti clinici (vale a dire quelli utilizzati e raccolti negli ospedali). Tutti gli altri finiscono nella raccolta differenziata o, peggio ancora, vengono abbandonati nell’ambiente”, secondo quanto ha affermato Datuk Tuan Ibrahim Tuan Man, del ministero per l’Acqua e l’Ambiente di Kuala Lumpur.
La pandemia di lungo periodo sta richiedendo scelte intelligenti e virtuose
Gli ambientalisti per primi hanno lanciato l’allarme su questo nuovo tipo di inquinamento innescato dalla pandemia: un inquinamento, che se non adeguatamente contrastato, come denunciano molte organizzazioni far le quali l’italiana Legambiente, potrebbe peggiorare molto rapidamente la crisi ambientale e favorire una crescita esponenziale dei rifiuti plastici marini.
Anche se tutti ci auguriamo che la lunga parentesi imposta dal coronavirus possa finire presto, l’orizzonte temporale lungo il quale i materiali a protezione del nostro respiro resteranno parte della quotidianità, sembra allungarsi sempre più, e secondo alcuni studiosi, tenuto anche conto della crescente consapevolezza dei danni provocati alla salute dall’inquinamento, la consuetudine a indossare mascherine di protezione potrebbe durare indefinitamente.
L’ambiente da un lato, gli impatti sociali dall’altro
Capire quali scelte di design e di materiali possano rendere questa delle mascherine di protezione, che è una scelta oggi irrinunciabile, anche una scelta a basso impatto, è molto importante.
Non si tratta solamente di un tema di sostenibilità ambientale, ma anche di sostenibilità sociale. Perché gli impatti della pandemia sono anche sociali: per chi si trova in situazioni di fragilità della salute fisica o mentale, la vita all’interno di una comunità globale che indossa costantemente una mascherina facciale, ha risvolti imprevisti e di proporzioni inimmaginabili un tempo.
Susanne Babbel, psicologa californiana specializzata nella cura dei disturbi della salute mentale derivanti da traumi e depressione, ha scritto di recente sulla rivista americana Psychology today, che “le espressioni facciali degli altri ci aiutano a calmare il nostro sistema nervoso, ma se non riceviamo quei segnali, potremmo entrare in modalità sopravvivenza e innescare meccanismi di ansietà, depressione, paura. Ai più fragili della società questo sta accadendo”.
L’uso costante di una mascherina da parte di chi si prende cura di bambini e anziani si è rivelato spiazzante e fuorviante per queste fasce d’età della popolazione mondiale. E per alcuni bambini nello spettro autistico, così come per le persone con demenza senile o Alzheimer, capire cosa ci si aspetta da loro è molto difficile se chi hanno di fronte indossa una mascherina facciale tradizionale.
Le proposte di design alternative alle tradizionali mascherine usa e getta
L’innovazione è stata indirizzata recentemente al progetto di mascherine che possano favorire la socializzazione e permettere a tutti di percepire le emozioni del viso (oltre che di percepire il parlato attraverso il labiale), in grado di ridurre lo stato di ansietà che molte persone avvertono con l’uso forzato delle mascherine.
Unitamente, cercando di contrastare gli impatti ambientali dei dispositivi monouso, il design ha rivolto la propria attenzione alla messa a punto di mascherine ad alta efficienza prestazionale che sia possibile riutilizzare più volte: da lavare, manutenere, e magari anche riparare, con semplici gesti, a casa propria.
Mascherine inclusive
Mymic è la proposta francese di una mascherina inclusiva, pensata per essere durevole, personalizzabile e sostenibile. Nata da un gruppo di designer, tecnici e ingegneri sia francesi che belgi e svizzeri, è stata realizzata in plastica trasparente morbida di origine biologica. Questa mascherina utilizza filtri tessili che vanno sostituiti ogni quattro ore, ma che possono essere lavati in lavatrice. E dispone di un contenitore in tessuto, flessibile, per portarla sempre con sé e riporla quando non è in uso; mentre una piccola tasca aggiuntiva consente di riporre i filtri usati, e un’altra di contenere quelli di ricambio.
Mascherine trasparenti
La trasparenza che viene ricercata oggi come qualità importante da un punto di vista psicologico, ha valore tuttavia, solamente se si tratta di soluzioni che riescano a mantenere il rispetto degli standard richiesti.
Fra queste, ClearMask, una maschera chirurgica di classe II, completamente trasparente. Sviluppata negli Stati Uniti, e approvata dalla Food and drug administration americana (Fda) come maschera chirurgica, è probabilmente la prima al mondo completamente trasparente di questa categoria. La società che la produce, con sede a Baltimora, è stata fondata da Allysa Dittmar, una donna statunitense nata sorda, con l’idea di offrire una soluzione alternativa alle mascherine chirurgiche in tessuto non tessuto, normalmente utilizzate da parte di infermieri e medici nell’assistenza sanitaria di pazienti non udenti e ipoudenti, oltre che di bambini e pazienti anziani.
Poi, con la pandemia da coronavirus la mascherina chirurgica trasparente è divenuta una valida alternativa al modello monouso. ClearMask garantisce una elevata barriera frontale e impermeabilità a liquidi e spruzzi, anche se, come quelle monouso, non è a tenuta d’aria lungo i lati, dove avviene la circolazione dell’aria.
Ancora in attesa di brevetto, ClearMask è stata disegnata per essere completamente riciclabile, sia come materiali di base, sia per la facilità di separare i tre diversi componenti (lo schermo trasparente, i lacci di fissaggio e la schiuma filtrante che sta nella zona del naso e del mento). Non viene specificato che tipo di materia plastica venga utilizzata, forse un polipropilene ad alta trasparenza, ma certamente un materiale plastico relativamente economico, data la capacità di ClearMask di essere competitiva, su grandi forniture, nei confronti dei prezzi delle comuni mascherine chirurgiche usa e getta tradizionali.
Ne esistono due versioni: una versione medica approvata dalla Fda americana, e destinata all’uso in ambienti sanitari, e una non medica, approvata per l’uso individuale. Circa le approvazioni all’estero, nel Regno Unito è stata approvato l’utilizzo della versione non medica di ClearMask, mentre in Europa ancora è in valutazione una sua classificazione come dispositivo individuale. A garanzia dei consumatori, ClearMask non è acquistabile su siti di vendita online multimarche, come Amazon, Google o Ebay, dove è invece facile trovare molte visiere facciali assolutamente non protettive nei confronti del virus. Di questa mascherina chirurgica trasparente, da aprile 2020 ne sono stati venduti oltre 12 milioni di esemplari. Il bilancio ambientale, naturalmente, è migliorativo solo se si immaginano sistemi efficienti di raccolta e riciclo, come per tutte le altre materie plastiche.
Una nuova generazione di maschere trasparenti altamente prestazionali, infine, sta dando risposte del tutto paragonabili alle maschere N95 e N99, o ffp2 e ffp3, usa e getta.
Mascherine morbide
Un team di ricercatori della Khalifa university of science and technology di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, sta lavorando a una maschera riutilizzabile stampata in 3D. Si tratta di un progetto di maschera trasparente adattabile al viso, che possa rispondere agli standard delle maschere N95. L’Aerospace research and innovation centre (Aric) dell’università, che sta supportando il progetto dal punto di vista tecnologico, ha sottolineato che, mentre la maggior parte delle maschere stampate in 3D sono realizzate in plastica dura e perciò non isolano perfettamente naso e bocca, la nuova maschera incorpora diversi materiali sia flessibili che duri, che possono sigillare correttamente il naso e la bocca, senza lasciare spazi vuoti. Il design modulare consente infine una facile pulizia e sterilizzazione dopo la sostituzione dei filtri, che sono realizzati in tessuto non tessuto.
Lungo questo stesso percorso di innovazione il progetto canadese basato sull’utilizzo di un air gel brevettato, per ottenere la perfetta sigillatura della maschera al viso. La società che lo ha sviluppato, aveva avviato la sperimentazione per realizzare maschere rivolte a chi soffre di apnea notturna, che necessitano di un ottimo effetto sigillante, e di un comfort elevato nell’uso prolungato: l’air gel brevettato, simile al materiale che viene usato per le protesi mammarie, non lascia segni sulla pelle anche dopo molte ore. La maschera che ne è nata, Envo mask, classificata N95, è riutilizzabile grazie al fatto che utilizza filtri sostituibili agganciati alla struttura in materiale plastico, e viene fornita con una custodia per riporla quando non è in uso.
Mascherine hi-end
Un mix indissolubile di design, ricerca, e innovazione nei materiali con una forte attenzione a scelte sostenibili, hanno visto la proposta in tempi brevissimi di nuove soluzioni hi-end, vale a dire di altissima tecnologia e decisamente orientati al design di alta gamma. Leaf mask, ultratecnologica, è una mascherina trasparente americana realizzata con gomma siliconica di grado ottico biocompatibile, e classificata di grado N100. Riutilizzabile, è 100 per cento riciclabile grazie al design monocomponente. Il telaio strutturale rigido, che è separabile per favorire il riciclo dei componenti, utilizza policarbonato ad alte prestazioni, resiliente e riciclabile.
Anche i filtri, sostituibili, sono riciclabili al 100 per cento. Leaf mask è autopulente, grazie all’adozione della tecnologia auto sterilizzante UV-C (un metodo di sterilizzazione senza contatto, testato per distruggere i microbi a livello del loro DNA). La sterilizzazione inizia dieci minuti dopo che la maschera è stata tolta e collegata a una presa Usb e richiede due minuti per essere completata. I filtri adottati, di grado aerospaziale, Hepa (che significa High efficency particulate airfilter) sono del tipo utilizzato per contrastare l’inquinamento atmosferico e in grado di rimuovere fino al 99,97 per cento di tutti i particolati presenti nell’aria con diametro superiore a 0,3 μm. Infine la maschera offre la possibilità di addizionare al tessuto del filtro N95 di espirazione, olii botanici naturali al 100 per cento. Il progetto, statunitense, è stato possibile grazie a quasi 4,5 milioni di dollari raccolti in crowdfunding da parte di oltre 26mila sostenitori da 137 paesi.
Mascherine biotech
Nel solco delle nuove proposte, un progetto italo spagnolo, Cliu mask, utilizza filtri in materiali bioattivi con forte attività antimicrobica, originati da scarti agroalimentari e forestali, che sono stati realizzati in collaborazione con Siena BioActive, uno spin-off del Dipartimento di biotecnologie dell’Università di Siena. Il design a museruola consente il disassemblaggio rapido dei diversi componenti a fine vita, per facilitare il riciclo o il recupero separato, e ne esiste una versione Pro dotata di bluetooth, microfono e sensori, utilizzabili, insieme all’app integrata, per monitorare il respiro e lo stato di salute personale, in relazione alla qualità dell’aria esterna. Viene offerta anche la possibilità di un abbinamento a una lampada integrata a raggi Uv per la sanificazione.
U-Mask, prodotta in Italia è la prima mascherina di grado biotech. Approvata come dispositivo medico dal ministero della Salute italiano, e prodotta da U-Earth, società che produce purificatori dell’aria, con sede anche a Londra, è a basso impatto ambientale. Si compone di due parti: una cover esterna e un filtro interno intercambiabile. La copertura è in nylon rigenerato al 100 per cento, realizzata interamente con rifiuti oceanici e materiali di riciclo, e può essere lavata e riutilizzata più volte, oltre a potere essere riciclata nuovamente a fine vita. Il filtro ricaricabile è formato da quattro strati di tessuto non tessuto biocompatibile che sono funzionali alla performace del Bio-Layer, molecola brevettata, collocato al loro interno, garantendo fino a centocinquanta-duecento ore di utilizzo effettivo.
La molecola, una miscela polimerica contenente un principio attivo naturale, è in grado di inibire la crescita di batteri e microbi limitando il rischio di contrarre microrganismi resistenti a più farmaci e trasmettere agenti patogeni tra gli esseri umani. Il filtro a più strati, sostituibile, non si limita quindi a bloccare gli agenti contaminanti (polveri, inquinanti, batteri e virus), ma li cattura e li distrugge all’interno della maschera.
Mascherine biobased e naturali
I centri di ricerca europea sui prodotti bio-based mostrano un crescente interesse per la produzione di mascherine che possano sostituire le classiche mascherine chirurgiche in tessuto sintetico utilizzando sostituti “verdi” prodotti dalle piante, o polimeri a base biologica.
Fra questi nanofibre polimeriche biodegradabili elettrofilate in PLLA (poli acido l-lattico), in grado di rimuovere efficacemente i particolati PM2,5 attraverso la generazione di cariche elettrostatiche. Il materiale rinnovabile a base biologica che incorporano può essere farina di soia, dalla quale filare fibre sottili, con un diametro inferiore a sessanta μm. Più recentemente, i ricercatori del BioProducts institute presso l’Università della British Columbia in Canada hanno sviluppato una maschera medica N95 completamente compostabile e biodegradabile, denominata Can-Mask, utilizzando fibre di legno provenienti da fonti quali pino, abete rosso, cedro e altri legni teneri. L’uso di fibre di questo tipo erano già state utilizzate in passato, a esempio, per il filtraggio dell’acqua nelle macchinette automatiche per il caffè, anche se in termini di standard richiesti con prestazioni molto diverse.
Materiali naturali come cellulosa, cotone e resine bioplastiche, potrebbero diventare potenziali candidati a sostituire il polipropilene e le altre resine termoplastiche utilizzate nella produzione di tessuto soffiato a fusione, per creare le mascherine chirurgiche, dopo aver risolto i problemi relativi alla loro scarsa stabilità termica.
Le caratteristiche di fibre naturali come bambù, canapa o seta, permettono di realizzare tessuti con proprietà antibatteriche e di idrorepellenza, che sono estremamente interessanti per confezionare mascherine di protezione individuale lavabili e riutilizzabili, ma soprattutto igienizzabili con sistemi anch’essi naturali, come la vaporizzazione.
Uno studio del Dipartimento filippino di scienza e tecnologia (Dost) ha mostrato che una mascherina a base di abaca (una fibra vegetale originaria delle Filippine, utilizzata comunemente per produrre cordame di navi per la sua resilienza in ambiente marino) è più resistente all’acqua e ai fluidi rispetto a una maschera N95 monouso, e ha comunque dimensioni dei pori all’interno della gamma raccomandata dagli organi statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie respiratorie. L’abaca ha già avuto in passato applicazioni in campo industriale: circa il trenta per cento delle banconote giapponesi sono fatte utilizzando questa fibra, e il filato di abaca è stato utilizzato nella copertura del sotto-scocca standard per il vano della ruota di scorta delle vetture Classe A Mercedes-Benz al posto di fibre sintetiche.
Con l’ingresso nel mercato delle mascherine di protezione individuale è stata valutata nelle Filippine una crescita della domanda di abaca, con un 10 per cento della produzione destinata a usi medici, rispetto a meno dell’1 per cento del 2019. “La fibra di abaca sta rapidamente guadagnando popolarità anche per la produzione di indumenti medici riutilizzabili per gli operatori sanitari”, ha affermato Pratik Gurnani, consulente senior di Future market insights, società araba di consulenza ai mercati in via di sviluppo, con sede a Dubai.
Anche la canapa è divenuta proposta alternativa alle mascherine chirurgiche monouso. L’italiana Maeko, azienda specializzata in tessuti e filati naturali (non solo canapa ma anche soia, ortica, bambu oltre a fibre animali come alpaca e pecora) con un sistema di controllo dell’intero processo di raccolta lavorazione e trattamento delle fibre, fino alla tintoria e la tessitura, ha realizzato mascherine chirurgiche riutilizzabili in fibra di canapa, che ha un effetto naturalmente battericida e uno strato interno in nylon per il blocco degli aerosol. Le mascherine quindi sono state realizzate senza l’uso di alcuna sostanza chimica impermeabilizzante perché l’impermeabilizzazione è fornita dallo strato interno in nylon. Ne esistono anche modelli con filo in rame e con filo in argento per potenziare le proprietà battericide. Tutte le varianti sono lavabili e gli strati sono separabili, per permettere un riciclo differenziato. I materiali di scarto infine, possono essere utilizzati come fertilizzanti organici anziché creare scarti dannosi per l’ambiente. Il Policlinico di Cagliari ne ha ricevute in dono da Maeko per l’utilizzo chirurgico, in alternativa alle monouso in tessuti plastici.
Solamente etiche o anche estetiche?
Infine c’è il tema della bellezza. Le prestazioni non bastano per il successo di questa nuova generazione di mascherine sostenibili: conta anche l’aspetto. La vera sfida di tecnologia e design anche nel caso dei prodotti covid-helping, è mantenere alto il profilo estetico del nuovo, non dimenticando mai, a supporto di una inalienabile efficienza funzionale, la necessità di essere in sintonia con l’utilizzatore sul piano percettivo ed emozionale.
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