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Perché dovremmo smettere di indossare materiali di origine animale
Dalle pellicce alla lana, il documentario Slay affronta il tema dei materiali animali nella moda senza fare sconti e offrendo delle alternative.
Il documentario “Slay” sarà proiettato a Milano al cinema Anteo il 14 giugno 2023 come evento speciale all’interno della nona edizione del Milan Fashion Film Festival, alla presenza di studenti delle scuole di moda e giornalisti. A seguire, si terrà una panel discussion con Emma Hakansson, co-autrice del film oltre che attivista e fondatrice di Collective Fashion Justice e membro della giuria 2023 del Fashion Film Festival Milano.
- Anche quando si parla di moda sostenibile, raramente si discute di diritti degli animali. Oltre alle pellicce e alle pelli esotiche – ormai condannate dai più – molti sono i derivati animali che indossiamo quotidianamente, su tutti pelle e lana, ma anche seta, piume, cashmere.
- Il documentario Slay della regista francese Rebecca Cappelli – visibile gratuitamente online – affronta questo tema cercando di sfatare alcuni falsi miti e parlando delle alternative ormai disponibili.
- Slay mostra una filiera opaca e mal regolamentata che, dalla Cina alla Toscana fino in Australia, rifornisce un sistema moda basato sul consumo frenetico e la sovrapproduzione.
Ciò che indossiamo non è più soltanto espressione della nostra personalità: è diventato lo specchio dei valori in cui crediamo. Esattamente come ciò che mangiamo. Eppure, se è vero che la discussione sull’inutilità della sofferenza animale in alimentazione è ormai sdoganata, anche ai pranzi in famiglia, non lo è per quanto riguarda l’industria della moda. La sensibilità sociale è certamente cambiata rispetto al tema pellicce – tanto che molti brand sono diventati fur free – e in parte anche rispetto all’uso di pelli esotiche, ma non riguardo a tutti gli altri derivati animali, dal pellame a lana e seta. Anzi, è un argomento che rimane spesso in secondo piano persino quando si parla di moda etica e sostenibile.
Perché utilizziamo i derivati animali?
Il documentario Slay della regista francese Rebecca Cappelli è, in questo senso, un punto di svolta. Ben costruito, crudo senza essere eccessivo (la regista voleva che potesse vederlo un pubblico più ampio possibile), pone una domanda ben precisa: perché utilizziamo i derivati animali nella moda visto che abbiamo delle alternative?
La risposta è certamente complessa e Cappelli l’ha cercata in un lungo lavoro costatole tre anni e mezzo di ricerche e un viaggio intorno al mondo, in cui si è messa in gioco in prima persona. “Sono cresciuta a Parigi, adoro la moda. Slay è il mio viaggio personale come consumatrice di moda. Amavo indossare accessori di lusso in pelle, cashmere e persino pellicce. Allo stesso tempo mi consideravo una persona che amava gli animali, una di quelle che aiutava a salvarli. Mettermi dentro il film mi ha resa vulnerabile e mi ha fatto uscire dalla mia zona confort, ma era essenziale”, racconta la regista dopo la prima italiana del film, proiettato a Milano. Il documentario, per scelta della regista e dei produttori, è visibile gratuitamente online su WaterBear, una piattaforma di streaming gratuito di film a contenuto etico e ambientale.
Dalla Cina alla Toscana fino all’India
Slay (dal verbo inglese “ammazzare”) si concentra su tre ambiti specifici – pelliccia, pelle e lana – e cerca di smontare i luoghi comuni che ruotano attorno a questi materiali e di rendere chiaro l’impatto negativo che hanno non solo sugli animali stessi, ma anche sull’inquinamento ambientale, sulla perdita di biodiversità, sui lavoratori coinvolti nella filiera.
“Slay non ha una sceneggiatura di partenza, tutto è filmato in location per la prima volta senza sopralluoghi. Ho scelto di non inserire le scene più crude che ci siamo trovati davanti, come lo scuoiamento o l’uccisione di un animale, perché,onestamente, sono qualcosa di inguardabile”, continua la regista.
Dalla Cina, dove Cappelli indaga il mondo delle pellicce e dei terribili allevamenti, a Santa Croce sull’Arno in Toscana, dove invece si affronta il tema delle concerie di pelle, il filo rosso che tiene unite le scene è il generale senso di illegalità e mancanza di controlli e di trasparenza della filiera. A Haining, a un’ora da Shanghai, Cappelli si trova facilmente a poter acquistare pellicce di specie protette, mentre in Toscana le condizioni dei lavoratori stranieri delle concerie non appaiono poi tanto diverse da quelle riprese a Kanpur, in India, la città produttrice mondiale di pellame a basso costo, dove la popolazione soffre di diverse malattie a causa degli elementi chimici usati per trattare le pelli e poi scaricati in fiumi e terreni.
Cappelli riserva al tema della pelle la parte centrale di Slay e la correda di dati e ricerche raccolte insieme a Collective fashion justice, un’organizzazione no profit che promuove una moda etica e giusta per il Pianeta, gli animali e le persone. Il luogo comune che cerca di sfatare è che la pelle utilizzata nella moda sia un sottoprodotto dell’industria alimentare e che, quindi, se non fosse sfruttata in questo modo sarebbe comunque un elemento di scarto.
In realtà, si tratta di due facce della stessa medaglia. La pelle stessa è di per sé un bene per cui vengono allevati e uccisi gli animali, un mercato di prodotti stimato in 394 miliardi di dollari (nel 2020). Oltre alla sofferenza animale, la questione riguarda quindi il disboscamento per far posto agli allevamenti, in primis in Amazzonia, e le condizioni dei lavoratori, sia nei macelli che nelle concerie.
Si stima che la produzione di un paio di stivali in pelle bovina produca 66 chili di CO2 e utilizzi 12.370 litri d’acqua. A confronto viene mostrato che le alternative ai pellami ormai disponibili, sia quelle sintetiche che quelle cosiddette bio-based, ovvero derivate da vegetali, hanno un impatto minore per quanto riguarda le emissioni e l’impronta idrica. Si tratta di un punto che Rebecca Cappelli vuole affrontare seriamente, perché spesso è da qui che si apre il dibattito su cosa sia più sostenibile. Per questo sul sito di Slay viene messo a disposizione un mini book con dati e ricerche per approfondire la questione.
Bisogna interrogarsi su ciò che indossiamo
Per uno spettatore non vegano e non connesso al mondo dell’attivismo per i diritti degli animali, la parte forse più sorprendente di Slay è quella dedicata alla lana. Un materiale talmente diffuso nel quadro di sovrapproduzione della moda che si appoggia, giocoforza, a un sistema di allevamenti intensivi, ben lontano dall’idea bucolica delle pecore libere e felici sui prati. “So che spesso il pubblico rimane sorpreso sulla lana. Di certo esistono delle fattorie minuscole con pochi animali che sono trattati bene, ma questo non è il caso della stragrande maggioranza dei capi in lana che indossiamo. Pecore e agnelli sono considerati una merce: quando iniziano a costare più del valore di ciò che producono, sono uccisi, anche se giovani e sani”, conclude Cappelli.
La potenza di un film come Slay è di innescare la conversazione intorno a un tema poco trattato. Solo pochi anni fa sembrava impossibile rinunciare alle pellicce, mentre oggi la prospettiva di un’Europa senza allevamenti da pelliccia è reale e sempre più vicina, e sembra ragionevole anche a chi non è particolarmente attento ai diritti per gli animali (la campagna Fur free europe promossa anche da Slay ha raggiunto oltre 1 milione 700mila firme di cittadini europei).
Come nella filiera alimentare, anche in quella della moda, il consumatore finale ha ormai perso la connessione con l’origine di ciò che acquista, che poi mangia o indossa, e il mondo dei mercati globali ha contribuito ad allentare ancora di più la percezione di questo legame e della provenienza delle cose. La pelle delle scarpe e la lana dei maglioni prima stavano sopra un essere vivente. Slay torna a ricordarcelo.
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