Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Cosa ci insegna il maxi risarcimento dei lavoratori di Victoria’s Secret
Il colosso di lingerie Victoria’s Secret ha pagato un ingente risarcimento ai dipendenti di una fabbrica in Thailandia. Questo cosa significa per il mondo della moda?
- Nel 2021 la fabbrica thailandese di Samut Prakan è fallita licenziando in tronco più di mille lavoratori e negando loro la ricezione del Tfr, maturato in alcuni casi in più di dieci anni di attività.
- Tra i committenti della fabbrica c’era anche il brand statunitense Victoria’s Secret, colosso della lingerie che ha accettato di pagare l’intera cifra dovuta ai lavoratori: 8,3 milioni di dollari.
- Questo risarcimento, oltre ad essere un precedente storico, si inserisce nel percorso di ricostruzione del brand, già travolto dal #MeToo e indirizzato oggi verso una cambio di rotta.
La sostenibilità nella moda paga solo quando è legata a questioni ambientali? Oggi come oggi, i brand si danno un gran daffare per promuoversi come sostenibili; la maggior parte delle attività intraprese e comunicate, però, si concentra sul rispetto dell’ambiente e sulla riduzione dell’impatto della produzione. Ma cosa ne è della sostenibilità sociale? Non è anche questa una parte importantissima del processo produttivo di cui tenere conto?
La sostenibilità nella moda non è solo quella ambientale
Non possiamo considerare la sostenibilità come un concetto a compartimenti stagni: da una parte c’è la salute dell’ambiente, che certamente va salvaguardata il più possibile, ma dall’altra ci sono la salute e il trattamento dei lavoratori, che troppo spesso i brand si scordano di menzionare quando si tratta di parlare di sostenibilità.
Sarà che la salute del Pianete riguarda tutti, mentre quello che succede in una fabbrica dall’altra parte del mondo è lontano dai nostri occhi e dai nostri problemi e ce ne ricordiamo solo quando succede qualcosa di grosso: la tragedia del Rana Plaza, o una storia a lieto fine come quella che recentemente ha coinvolto il brand di lingerie Victoria’s Secret e 1.250 dei suoi ex lavoratori. Una storia, questa, che non ha trovato particolare spazio sui media italiani, ma che segna un (seppur piccolo) passo avanti nella storia della tutela dei lavoratori.
Victoria’s Secret, gli angeli e la produzione in Thailandia
Victoria’s Secret è un brand di lingerie statunitense fondato verso la fine degli anni Settanta da marito e moglie che si basava su una ricetta semplice: biancheria ultra sexy venduta per corrispondenza. La crescita di questa startup coniugale è stata importante fin da subito, ma è esplosa in maniera esponenziale da quando, nel 1995, il brand ha iniziato a realizzare le sue iconiche sfilate. Durante questi eventi mastodontici sfilavano le top model più quotate, da Gigi e Bella Hadid ad Alessandra Ambrosio e Miranda Kerr, portando sulla schiena delle ali gigantesche, da qui l’appellativo di “Angeli” e la necessità di allenarsi a fondo per essere in grado di sfilare indossandole. Il momento clou dello show era l’uscita della modella di punta, alla quale era riservato il Fantasy bra, ovvero un reggiseno gioiello creato appositamente dal gioielliere Pascal Mouawad del valore di milioni di dollari.
Dopo quasi venticinque anni questi faraonici eventi sono stati cancellati definitivamente nel 2019, collassati dopo che il brand è stato travolto in pieno dal movimento del #MeToo. Aver impostato comunicazione e business sull’immagine di donne sexy e provocanti non ha pagato in un momento in cui il sistema ha iniziato a prendere coscienza che prodotti, fisici e culturali, come questi non fanno che alimentare gli squilibri e gli stereotipi di genere. Come se non bastasse uno scoop del New York Times del 2020 ha rivelato che l’allora top manager Ed Razek si era reso protagonista di una storia di molestie e abusi nei confronti delle modelle.
Il colosso statunitense, che un paio di anni fa in molti davano definitivamente per spacciato, è stato poi acquisito nel 2020 da Sycamore Partners, un fondo di private equity, e si è rimesso in carreggiata sfondando il tetto dei 5 miliardi di dollari di fatturato annui (circa 4,2 miliardi di euro). Oggi Victoria’s Secret impiega più di 32mila persone e può contare su una rete distributiva di circa 1.400 store nel mondo. Questo conteggio non comprende però le migliaia di lavoratori impiegati nelle fabbriche fornitrici del brand, dislocate anche nel Sudest asiatico.
L’ultima bufera in ordine temporale che ha travolto Victoria’s Secret riguarda infatti una di queste fabbriche, la Brilliant alliance thai di Samut Prakan, che è fallita nel 2021 lasciando a casa da un giorno all’altro i 1.250 lavoratori che all’epoca impiegava. Oltre ad essere stati licenziati in tronco, i dipendenti in questione si sono visti in blocco negare il Tfr (trattamento di fine rapporto), accumulato da alcuni in più di un decennio di rapporto di lavoro.
Il maxi risarcimento da 8,3 milioni di dollari
Il mancato versamento del Tfr, per alcuni, ha significato vedersi sottratto l’equivalente di quasi quattro anni di stipendio accumulato come trattamento di fine rapporto, i risparmi di tutta una vita praticamente. La fabbrica produceva biancheria intima anche per altri due brand controllati da Sycamore Partners, Lane Bryant e Torrid: pare però che solo Victoria’s Secret abbia firmato l’accordo per risarcire i lavoratori con 8,3 milioni di dollari.
Victoria’s Secret, che dal post #MeToo in poi si sta adoperando molto per dare una spennellata più inclusiva ed etica alla sua immagine, ha quindi accettato di pagare un risarcimento record, forse il più alto pagato fino ad oggi per casi di furto salariale come questo. “Per diversi mesi siamo stati in comunicazione attiva con i proprietari delle fabbriche per facilitare una risoluzione”, ha chiarito la società con una nota. “Ci dispiace che alla fine non siano stati in grado di concludere la questione da soli, quindi per garantire che i lavoratori ricevessero l’intero importo dovuto, Victoria’s Secret ha accettato di anticipare i fondi di fine rapporto ai proprietari delle fabbriche”.
Stando a quando diffuso dal gruppo di attivisti che si è battuto per il risarcimento, il gruppo internazionale per i diritti dei lavoratori Solidarity center, questa è stata la cifra più alta versata per un accordo di furto salariale. Solidarity center ha agito di concerto con il Worker rights consortium, che vigila sulla situazione thailandese e non solo: dopo la pandemia i furti salariali sono all’ordine del giorno e avrebbero coinvolto, anche se non per una cifra tanto alta, circa 31 fabbriche in nove paesi.
Il direttore esecutivo del consorzio, Scott Nova, ha affermato che casi eclatanti come quello che ha coinvolto Victoria’s Secret e la fabbrica di Samut Prakan non sono che la punta dell’iceberg e che la questione del furto salariale nell’industria dell’abbigliamento è frutto del periodo pandemico e del temporaneo stop alle richieste di fornitura di abbigliamento.
Nuova direzione creativa, nuova vita
Sul fronte del brand, invece, dallo scorso gennaio alla guida di Victoria’s Secret c’è un altro direttore creativo, Raúl Martinez, che promette di rivoluzionare il marchio dalle fondamenta. Risarcimento a parte, il cambio di rotta è evidente anche dall’ultima campagna, che coinvolge attiviste per i diritti Lgbt+, modelle curvy e transgender.
Se questa sterzata radicale nei confronti dell’inclusività sia una mossa di marketing o una spinta al cambiamento reale ce lo dirà solo il tempo. Per il momento gli ex lavoratori della fabbrica di Samut Prakan hanno avuto il loro risarcimento e l’occidente aggiunge un tassellino di consapevolezza in più riguardo a quello che succede nei luoghi dove si produce la gran parte dei nostri abiti.
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