Aggiornamento 3 ottobre 2023 – Dopo vent’anni di negoziati, il meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere esterne dell’Unione europea, noto come carbon border adjustment, è entrato in vigore il 1 ottobre 2023. Dovrebbe spingere a comportamenti più sostenibili le industrie che emettono grandi quantità di gas ad effetto serra: produttori di energia, di acciaio, di ferro, di prodotti chimici e di cemento dovranno pagare una tassa alle frontiere sulle loro esportazioni verso paesi dell’Ue.
Il meccanismo è stato avviato in una fase transitoriache durerà fino al 2026. Essa impone agli industriali europei solamente un rapporto annuale sul volume delle loro importazioni e delle emissioni di CO2 legate alle produzioni degli stessi beni fatti arrivare nel Vecchio Continente. Non sarà dunque applicata per i primi tre anni alcuna tassa: l’obiettivo è di permettere di valutare i quantitativi in gioco e calcolare di conseguenza quale sia il giusto “prezzo” da attribuire alle “emissioni di gas ad effetto serra importate”.
Solo a partire dal 2026, dunque, gli importatori dovranno, al momento dell’acquisto dei prodotti, consegnare dei certificati, che corrispondono alle emissioni che si presuppone siano state necessarie per la fabbricazione, estrazione o trattamento delle merci in questione. Concretamente, un produttore di acciaio cinese o di cemento statunitense dovrà dichiarare le emissioni legate ai beni venduti e, se esse superano determinate soglie stabilite dall’Unione europea, dovrà pagare una tassa. Che prenderà la forma dell’acquisto dei certificati citati. Qualora il produttore abbia sede in una nazione in cui esiste già un sistema fiscale simile, allora dovrà pagare solo l’eventuale differenza tra quanto già sborsato in patria e quanto previsto dal meccanismo europeo.
Il 23 luglio del 2020, la Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica su due iniziative volte a sfruttare la leva fiscale per contribuire a centrare gli obiettivi climatici. E, al contempo, difendere le industrie del Vecchio continente dalla concorrenza di chi, in paesi terzi, produce a costi più bassi sulla base di standard ambientali meno stringenti. La prima iniziativa è relativa alla revisione della direttiva sulla tassazione dell’energia. La seconda punta a creare un meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere esterne dell’Unione europea: il carbon border adjustment.
#SOTEU, @vonderleyen: le emissioni di CO2 devono avere un prezzo – perché la natura non può più rimetterci. Lavoriamo a un meccanismo di adeguamento delle emissioni di carbonio alle frontiere. Lo stesso vale per la tassazione del digitale.#EUGreenDealpic.twitter.com/RMvyzbjoYU
I principali obiettivi del carbon border adjustment mechanism
L’idea, prevista dal green deal della stessa Ue, è tanto ambiziosa quanto complessa nella sua attuazione. Si vuole infatti introdurre un sistema in grado di incidere sui prezzi dei prodotti importati, facendo sì che esso “integri” anche il costo delle emissioni di gas ad effetto serra legate alla fabbricazione. In parole più semplici, l’idea è da un lato di evitare una concorrenza sleale da parte di paesi che non si stanno impegnando a sufficienza sul clima. Dall’altro, che alcune aziende europee possano scegliere di delocalizzare la produzione, sfruttando proprio le regole più permissive adottate al di fuori dei confini comunitari. E spostando così semplicemente le emissioni nocive al di fuori dell’Europa, il che per il Pianeta non cambia assolutamente nulla.
Ma in cosa consisterà, concretamente, il meccanismo di adeguamento della CO2 alle frontiere? “Ciò che vogliamo al Parlamento europeo – ha spiegato l’eurodeputato del gruppo Renew Pascal Canfin, parlando al giornale online Euractiv – è un sistema che rispecchi l’Ets, il Sistema per lo scambio delle quote di emissione”. Ovvero un mercato, introdotto nel 2005, che impone un prezzo ai cosiddetti “diritti ad inquinare”. Prezzo che però, va ricordato, è stabilito secondo logiche di mercato e che a lungo è rimasto a livelli irrisori, facendo piovere critiche sull’efficacia dello stesso sistema Ets.
Il nodo dell’Organizzazione mondiale del commercio e l’ipotesi di un sistema Ets
Le alternative appaiono tuttavia impraticabili, per diverse ragioni. L’imposizione di una tassa sui prodotti importati assomiglierebbe troppo ad un dazio doganale. E susciterebbe per questo, con ogni probabilità, i malumori dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Il meccanismo, per essere compatibile con le regole internazionali, dovrà dunque essere elaborato minuziosamente. E dovrà basarsi non sulla mera volontà di preservare la competitività delle imprese europee, ma sulla necessità di lottare contro i cambiamenti climatici. Almeno ufficialmente. “Le misure ambientali non devono essere utilizzate come strumento protezionistico”, ha già ammonito Alan Wolff, vice-direttore del Wto, nel corso di webinar tenuto il 14 gennaio.
Una semplice tassa sarebbe inoltre complicata da approvare in seno al Parlamento europeo: “Servirebbe l’unanimità – prosegue Canfin – il che complicherebbe il processo decisionale. Mentre un meccanismo che rispecchi l’Ets potrebbe essere approvato a maggioranza qualificata”. L’eurodeputato, tuttavia, non nasconde che “i produttori europei di acciaio e cemento stanno già affrontando costi di produzione aggiuntivi legati al vincolo sulle emissioni imposto dall’Ets. Per questo dobbiamo confrontarci con quello che stanno facendo gli altri Paesi”.
Occorrerà verificare dunque se il nuovo meccanismo sarà in grado non solo di accontentare il Wto. Ma anche, soprattutto, di convincere le imprese europee a non delocalizzare le produzioni. La prima proposta concreta, da parte della Commissione europea, è prevista per il secondo trimestre di quest’anno.
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