Ha 300 anni e può essere visto persino dallo spazio. È stato scoperto nel Triangolo dei Coralli grazie a una spedizione della National Geographic society.
La guerra del pesce nel Mediterraneo, un mare sempre più caldo e inquinato
Commercianti senza etica, concorrenza sleale e regolamenti stringenti stanno affossando i pescatori tradizionali. Per proteggere la fauna marina e la biodiversità, bisogna ripensare a una gestione comune del Mediterraneo.
Sciacca, Sicilia, Mediterraneo. Quando Carlo Giarratano aveva 9 anni, soleva trascorrere le estati in mare con il padre, a bordo del peschereccio a vela di famiglia, costruito dal nonno e poi modernizzato con l’avvento dei motori. Fino agli anni Novanta, il porto di Sciacca pullulava di navi, marinai e barcaioli. La vita del porto era in pieno fermento, le imbarcazioni entravano e uscivano, cariche di pescato di ogni tipo, pronto da vendere ai mercati locali. Grazie alla pesca, intere generazioni hanno potuto mandare i figli all’università o comprare loro una casa. Incluso il papà di Carlo. Oggi il porto di Sciacca è vuoto e silenzioso. Solo gli alberi delle navi ormeggiate in banchina diffondono un suono metallico. Lenzuola bianche con scritto “Sciopero. Caro Gasolio” e “Rispetto ai pescatori” sventolano solitarie. “Ci trattano come se fossimo ignoranti e bracconieri. Ma siamo solo noi il problema? Le regole dell’Unione europea hanno creato concorrenza sleale”, dice Carlo Giarratano, “Così ora i commercianti comprano lo stesso pesce ma a prezzi più bassi dai tunisini e dagli egiziani. Noi lo conosciamo il mare, ci abbiamo passato tutta la vita”.
Carlo Giarratano è capitano del peschereccio Accursio Giarratano. Per generazioni la sua famiglia si è dedicata alla pesca. Prima a strascico di gamberi, merluzzi e triglie. Poi si è specializzata in pesca a sciabole. Oggi, nella casa dove un tempo sua nonna rammendava le reti, Giarratano ha deciso di aprire un bed & breakfast. Tra l’aumento vertiginoso del prezzo del carburante e la concorrenza con i pescherecci stranieri, la pesca è sempre meno redditizia per Carlo e per le flotte siciliane. Sono sempre meno, infatti, le imbarcazioni dei pescatori. La causa risiede in una serie di fattori strutturali verificatisi negli ultimi vent’anni anni in Sicilia e nel resto d’Italia: i finanziamenti dell’Unione europea per demolire le imbarcazioni, il caro carburante, l’assenza di un ricambio generazionale, le normative sulla pesca e la concorrenza con il Nordarica, nello specifico con i pescherecci tunisini ed egiziani, che vendono lo stesso prodotto pescato dai siciliani ma a costi inferiori e senza l’obbligo di applicare le regole comunitarie.
Il Mediterraneo è tra i mari più sfruttati al mondo
Se è vero che le regole dell’Unione europea avevano come obiettivo la protezione delle popolazioni di pesci e del mar Mediterraneo – uno dei mari più sfruttati al mondo – è altresì vero che lo sforzo di pesca in realtà non si è ridotto. O meglio, è diminuito solo da una parte del Mediterraneo. A spiegarlo, è un gruppo di biologi che, dall’ufficio del Centro nazionale delle ricerche di Mazara del Vallo, monitora la situazione dei nel Mediterraneo centrale. “Una delle criticità maggiori oggi è che per risorse condivise come il pesce ci siano piani gestionali differenti. L’Unione europea ha posto al centro delle sue politiche la sostenibilità ecologica. Per Tunisia, Egitto o Libia, le priorità sono altre, come il lavoro. Sono anni che chiediamo informazioni sullo sforzo di pesca delle flotte tunisine ed egiziane, senza successo. Nel 2021, sappiamo che la flotta tunisina ha superato quella italiana nella cattura di merluzzi. Per quanto riguarda il gambero rosa, la cattura resta cinquanta per cento per la flotta italiana e cinquanta per cento per quella tunisina. I tunisini prima o poi arriveranno a superare gli italiani anche sulla pesca del gambero rosso”.
Fiorentino e il collega Sergio Vitale spiegano che il pregiato gambero rosso è attualmente sovrapescato e le popolazioni di pesce in diminuzione. Questo è dovuto, almeno in parte, all’aumento dello sforzo di pesca delle flotte tunisine, ma anche egiziane e libiche. Un crostaceo come il gambero rosso fino a qualche anno fa era il bersaglio quasi esclusivo delle flotte siciliane nel Mediterraneo centrale, oggi però la concorrenza è aumentata fuori misura. “Si stima che in Egitto ci siano 150 pescherecci che pescano gamberi rossi, e il 70 per cento lo facciano illegalmente”.
Se pescherecci come quello di Carlo Giarratano devono far fronte a regole stringenti, seppur necessarie, dell’Unione europea, e utilizzare tecnologie di tracciamento satellitare affinché non entrino in aree protette, le flotte di pesca a strascico nordafricane, invece, continuano a pescare nel mar Mediterraneo, senza alcuna regola. Pescano le stesse specie, e le vendono sullo stesso mercato, quello europeo, ma a prezzi più competitivi e con margini di guadagno maggiore per i commercianti. “L’anello debole del sistema non sono i pescatori, ma i commercianti. Sono stati sviluppati controlli sulla produzione (quindi sulla pesca) del gambero, ma non sul commercio”, continua Fiorentino. Sono infatti i commercianti a dettare i prezzi ai pescatori siciliani, perché hanno la possibilità di importare il gambero da altri Paesi e piazzarlo sul mercato italiano. Il risultato è che i pescatori siciliani pagano lo scotto della concorrenza, ma a livello ambientale la pressione sulle specie non cambia, perché viene continuata da altri pescatori, la cui tracciabilità delle attività di pesca è spesso impossibile. “I commercianti non sono legati ai ritmi della natura, mentre i pescatori sanno che la natura presenta il conto. La pesca e le risorse comuni devono essere condivise da tutti con regole condivise altrimenti salta il sistema”, conclude.
Secondo diversi esperti, regolamentare l’accesso alle risorse condivise del mare, come la popolazione di pesci, è fondamentale per garantire un regolare ciclo di riproduzione delle specie marine più commercializzate. Negli scorsi anni, si è visto come le marinerie di diversi paesi in competizione non riuscivano a trovare accordi, come nel caso delle acciughe e delle alici del mar Adriatico. Queste specie pelagiche infatti stavano arrivando a una situazione di collasso nel 2018, per l’impossibilità di trovare un accordo tra Italia, Croazia e Slovenia. Alla fine è stato il General fishery committee for the Mediterranean (Gfcm), organismo della Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, a sollecitare misure urgenti per evitare la scomparsa di questi pesci nel mar Adriatico. “Nel golfo di Biscaglia, nel tratto atlantico del nord della Spagna, le acciughe arrivarono vicine al collasso nel 2006, e la pesca venne chiusa completamente a qualsiasi tipo di sfruttamento di queste specie”, spiega Nicolas Fournier, direttore della ong Oceana. “È stato necessario un piano ambizioso di gestione per recuperare queste specie. Oggi questa popolazione è in ottimo stato”. Oceana è anche l’organizzazione che ha collaborato con l’Unione europea e il Gfcm per instaurare le cosiddette zone FRA nel Canale di Sicilia, aree di ripopolamento in cui la pesca ora è vietata per fare in modo che specie come il gambero rosso e il merluzzo, entrambe sovrasfruttate, possano ripopolarsi in tranquillità senza l’accanimento dei pescherecci in competizione tra loro.
Le emergenze del Mediterraneo: riscaldamento delle acque
La pesca a strascico e lo sovrasfruttamento delle risorse ittiche non sono l’unico fattore di disturbo dei fondali marini. Il riscaldamento delle acque e l’inquinamento da plastiche e microplastiche sono altri fattori di grande pericolo per il mar Mediterraneo. Lo scorso maggio, alcuni pescatori mazaresi che stavano pescando nelle acque profonde a nord dell’isola di Creta, hanno registrato una temperatura di 15,1 gradi centigradi, quando normalmente la temperatura è stabilmente intorno ai 13,8 gradi a queste profondità. “L’aumento di più di un grado a queste profondità è un dato veramente allarmante”, spiega sempre il biologo del Cnr Fabio Fiorentino. Secondo i primi risultati raccolti dal progetto CAREHeat (deteCtion and threAts of maRinE Heat waves) finanziato dall’Agenzia spaziale europea (Esa), al quale partecipano per l’Italia Enea e Cnr, l’ondata di calore che ha colpito il mar Mediterraneo quest’estate ha innalzato la temperatura marina di circa 4 gradi centigradi rispetto alla media del periodo 1985-2005, con picchi superiori ai 23 gradi.
Secondo le proiezioni dell’Ipcc (International panel for climate change, Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici), raccolte nel rapporto del 2022, l’aumento delle onde di calore marine nel Mediterraneo stanno aumentando la pressione sugli ecosistemi marini. I pesci di acque calde si sposteranno verso nord, le specie di acque fredde diminuiranno gradualmente e altre specie tropicali, come già avviene, saranno sempre più presenti. Il cambio di temperatura delle acque porterà all’estinzione di quattordici specie endemiche del bacino, su un totale di 75. Quasi tutte queste specie a rischio sono specie che si trovano sui fondali marini. Secondo altri studi le attività umane – costruzioni di porti, scarichi, pesca a strascico – unite al riscaldamento globale, stanno causando un’alta mortalità delle cosiddette praterie mediterranee, nello specifico della Posidonia oceanica, un’importante foresta sommersa del Mediterraneo, capace di fissare il diossido di carbonio e riparo per decine di specie marine. Nell’ultimo mezzo secolo, la prateria di posidonia avrebbe perso un 34 per cento della sua superficie.
Le emergenze del Mediterraneo: l’inquinamento delle plastiche
L’altra grande emergenza del Mediterraneo è la plastica. Un report del Wwf del 2022 – Inquinamento da plastica negli oceani – mostra quella che è una vera e propria crisi planetaria, secondo la definizione data dalle Nazioni Unite. Secondo il report del Wwf “ogni anno finiscono nel Mediterraneo 229mila tonnellate di plastiche: è come se ogni giorno 500 container scaricassero in acqua il proprio contenuto. Più della metà di questa plastica proviene da soli tre Paesi: il 32 per cento dall’Egitto, il 15 per cento dall’Italia e 10 per cento alla Turchia. La situazione appare ancora più drammatica se si guarda al dettaglio delle città più inquinanti del bacino del Mediterraneo: tra le prime dieci, ben cinque sono italiane (Roma – che detiene il primato assoluto – Milano, Torino, Palermo e Genova). Fonte principale di immissione della plastica in mare sono le attività costiere e una gestione inefficiente dei rifiuti.
Seguono (con il 22 per cento) le attività in mare che, con pesca, acquacoltura e navigazione, disperdono nasse, reti e cassette per il trasporto del pesce. Il mar Mediterraneo raggiunge così un triste primato: nelle sue acque si trova la più alta concentrazione di microplastiche mai misurata nelle profondità di un ambiente marino: 1,9 milioni di frammenti per metro quadrato. L’ong Sea Shepherd, da decenni impegnata nella protezione degli oceani, ha lanciato numerose campagne per rimuovere reti fantasma e attrezzi da pesca illegali abbandonati al largo delle coste del mar Mediterraneo. Tra questi, ci sono i Fad – dall’inglese Fishing aggregative devices – metodi di pesca illegale formati da un filo di plastica ancorato in fondo al mare che tiene a galla in superficie delle larghe foglie, dove si forma una zona d’ombra sotto la quale si radunerà una gran quantità di pesci. Nel 2021, durante i due mesi di operazione in mare, l’ong ha raccolto 237 Fad illegali. Secondo Andrea Morello, presidente di Sea Shepherd Italia, questi “oggetti abbandonati hanno un impatto enorme non solo sull’ambiente ma anche sulla migrazione degli animali, come delfini, tartarughe e altri esemplari che ne restano intrappolati. Bisognerebbe renderli illegali”, spiega.
Quale futuro per il Mare Nostrum?
Le regole dell’Unione europea come gli incentivi dati per demolire i pescherecci hanno portato a una riduzione dello sforzo di pesca da parte di italiani, spagnoli e greci. Al tempo stesso, però, le flotte del Nordafrica sono cresciute e oggi forniscono ai commercianti lo stesso pesce, a basso costo, un tempo pescato dai pescatori dell’altra sponda del Mediterraneo. Il tema vero da porre al centro è un altro, sottolinea Tommaso Maccadino della Uila Pesca di Mazara del Vallo, “il Mediterraneo è di tutti. Oggi manca una politica comune del mare delle sponde nord e sud del Mediterraneo. Se da questa parte i pescatori si fermano durante il fermo biologico e dall’altra parte si continua a pescare senza regole e controlli, il mare e i suoi abitanti non sono di certo protetti. Oggi dovremmo ripensare alla funzione dei pescatori. Loro possono salvare il mare, se li incentivassimo a pulirlo”. Per il futuro del Mediterraneo, dunque, serve una politica di cooperazione tra le due sponde e soprattutto regole più rigide per i commercianti, gli unici a guadagnarci, in un mar Mediterraneo sempre più inquinato e caldo.
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