Sotto il cappello “moda circolare” ricadono diverse buone pratiche: occorre applicarle su larga scala per limitare i danni della sovrapproduzione.
Il mercato dell’usato cresce sempre di più
Entro il 2026 il volume d’affari del second hand raggiungerà gli 82 miliardi di dollari: siamo di fronte a un cambio di rotta epocale nei consumi?
Il mercato del second hand sta esplodendo. Con una crescita di tre volte superiore rispetto a quella del normale mercato dell’abbigliamento, si stima che possa raggiungere una crescita del 217 per cento entro il 2026, raggiungendo nei soli Stati Uniti la cifra di 82 miliardi di dollari. Il picco di crescita lo stiamo sperimentando proprio adesso: l’anno che sta volgendo al termine è quello che ci ha visto fare acquisti nel mercato dell’usato con un incremento del 24 per cento. Ma quali sono i fattori di questa crescita esponenziale e continua?
ThredUP è un retailer di abiti usati online che da dieci anni monitora il settore del resale e che annualmente produce il Resale Report in cui viene riassunto lo stato del settore del second hand, vengono analizzate le dinamiche e delineate le proiezioni per il futuro.
I fattori di crescita del second hand
Tra il 2020 e il 2021 i retailer di abiti usati sono passati da 8 a 30: questo significa, in termini percentuali, un incremento del 275 per cento. Una crescita tanto verticale non può essere frutto del caso, ma è sintomatica di un cambio di prospettiva e di abitudini da parte dei consumatori. Un segnale positivo con enormi benefici per il pianeta e per un settore della moda più etico e sostenibile.
Finalmente, forse, il potere collettivo di consumatori consapevoli è stato in grado di influenzare e dirottare l’industria della moda, ma non solo. Un ruolo importante in questo senso è rivestito dalla tecnologia e dai marketplace online, che hanno portato una diffusione capillare e diffusa sul territorio dell’abbigliamento di seconda mano.
Si stima infatti che entro il 2024 la metà degli acquisti in fatto di vintage proverranno da siti di e-commerce. Un dato che non stupisce, soprattutto se comparato a quello per cui il 70 per cento dei consumatori afferma che oggi comprare second hand è più facile rispetto a 5 anni fa, grazie alle app e ai siti dedicati.
Inoltre soggetti del settore come Vinted o Vestiaire Collective, non solo hanno reso più semplice vendere e compare l’usato, ma anche di tendenza. Alzi la mano chi, in tempo di pandemia, non si sia messo a fare un po’ di decluttering del proprio armadio e si sia chiesto come diamine fare a disfarsi di capi comprati in altre epoche della vita e ormai dimenticati. Vinted ha reso questo processo incredibilmente liscio: si fotografano i capi che si vogliono vendere, si fissa un prezzo, si aspetta che qualcuno compri, o rilanci con un altro prezzo, e poi si spedisce.
Un negozio dell’usato a portata di palmo e connessioni che non richiede una selezione di brand specifica, si può vendere qualunque cosa, dal fast fashion, al brand blasonato fino al maglione fatto dalla nonna.
Ma se Vinted si muove su un range di prodotti non eccessivamente costosi, una piattaforma come Vestiaire Collective ha avuto il grande merito di esportare il second hand su larga scala nel settore del lusso. Coniando termini come “pre-loved” o “fashion activist” ha avuto il grande merito di sdoganare l’acquisto di capi usati presso un pubblico meno incline a fare acquisti di seconda mano. Le boutique di usato di alta gamma sono sempre esistite, ovviamente, ma non erano così globali e semplici da fruire.
Complessivamente, nel corso del 2021, sono stati 244 i milioni di consumatori che hanno affermato di aver comprato o essersi aperti allo shopping di prodotti second hand, con un aumento del 7 per cento rispetto al 2020. Una buona notizia per l’ambiente: il miliardo di acquisti di abiti o accessori usati effettuati nel corso dell’anno sono un miliardo di acquisti in meno sul mercato del nuovo. Questo significa che quasi due consumatori su tre credono che le loro azioni possano avere un impatto positivo sull’ambiente.
Un cambio di prospettiva
Sugli acquisti totali nel settore dell’abbigliamento il settore del second hand sta pesando più di tutti gli altri canali messi insieme. L’81 per cento di quelli che hanno fatto acquisti nell’usato per la prima volta, prevede di spendere lo stesso importo, o di più, nel corso dei prossimi 5 anni. Un dato rafforzato anche dal fatto che il 41 per cento dei consumatori afferma che quando si tratta di abbigliamento, il second hand è la prima opzione che prende in considerazione e che il 46 per cento degli appartenenti alle dei Gen Z e Millennial, prima di fare un acquisto, tiene in considerazione anche il suo possibile valore nel mercato del resale.
Il fatto è che sempre più persone, se interrogate in merito alla sostenibilità delle proprie scelte d’acquisto, giudica in maniera più favorevole comprare qualcosa che già esiste piuttosto che scegliere un brand i cui prodotti sono eco compatibili ma nuovi.
Il vintage e l’usato sono visti come più accessibili e inclusivi rispetto al brand sostenibile che solitamente è anche molto più caro e non sempre riesce a conquistare la fiducia dei possibili acquirenti. Per il 37 per cento degli intervistati da ThredUP chi si approccia a un brand sostenibile nutre il dubbio che si possa trattare di greenwashing. Il fatto poi che nell’usato si trovi un range di taglie più vario fa sì che 1 acquirente su 4 si senta più rappresentato e invogliato a cercare altri capi della propria taglia.
L’identikit di chi compra nei thrift shop
Molti di quelli che oggi comprano usato sono dei “pentiti del fast fashion” ovvero persone che, nel 50 per cento dei casi, sono convinte che il modello di business del fast fashion sia dannoso, ma poi lo comprano perché più conveniente in termini di soldi (il 74 per cento) o di tempo (il 53 per cento). Pur essendo convinti che il fast fashion ci induca a comprare cosa di cui non abbiamo il minimo bisogno (il 62 per cento) la maggior parte dei consumatori trovano estremamente difficile abbandonare lo shopping compulsivo (il 59 per cento). In più 1 intervistato su 5 ha dichiarato di sentirsi spinto a fare sempre nuovi acquisti dalla pressione sociale, in particolar modo dall’esigenza di avere qualcosa di nuovo da mostrare sui social media.
Da quando si è diffuso il fast fashion infatti, ovvero all’incirca dagli anni 2000, il consumo di abiti è aumentato a dismisura, arrivando alla astronomica cifra di 17 milioni di tonnellate di abiti prodotti ogni anno su questo pianeta. Una quantità tale che non siamo in grado né di comprare e né di indossare e che non fa che dare fondo alle risorse già scarse del pianeta e lasciare in cambio una marea di rifiuti tessili. Va da sé che quella del second hand sia una strada più che sensata da percorrere da chi ha a cuore le sorti dell’ambiente, che in un colpo solo risparmia ed evita di incentivare la produzione tessile, arrivata ormai a quantitativi insostenibili.
Quando si hanno infinite opzioni, spesso molto economiche, come quelle offerte dai vai Shein o Zaful, non è semplice prendere altre strade, ma il fatto che sia la stessa mentalità dei consumatori a cambiare è un notevole passo avanti. È fondamentale però che un approccio di tipo iper consumistico venga eradicato anche quando si parla di second hand. Il fatto che questi prodotti esistano già non deve diventare un’impulso all’acquisto, quanto una presa di coscienza del problema.
Con i suoi 75 milioni di membri registrati, distribuiti in 18 mercati tra Europa e Nord America, Vinted vede sulla sua piattaforma la presenza di 550 milioni di articoli a livello globale. Una cifra di per sé gigantesca, che però vede l’allinearsi di un altro fenomeno, che la rende meno preoccupante. Stando a quanto dichiarato dalla società lituana infatti una fetta particolarmente significativa dei membri tende sia a vendere che ad acquistare, chiudendo il cerchio e creando un circolo virtuoso.
Resale, luci e ombre
Comprare abiti e accessori usati, al momento, è in cima alla lista dei comportamenti migliori che come consumatori possiamo tenere per il bene del nostro Pianeta. Questo però funziona se non si verificano due fenomeni: ovvero il fatto che il minor costo del second hand non sia che un altro catalizzatore dello shopping, e che non incoraggi il rincorrere di mode passeggere con l’idea che poi gli abiti o gli accessori comprati possano tranquillamente essere venduti con un click.
Comprare con l’idea che non sia un’azione impattante perché si tratta di usato, o sperimentare tutti i trend del momento con l’idea che tanto poi questi capi si possano rivendere e pensando già a quanto si possa guadagnarne non è neanche lontanamente un comportamento virtuoso. Perciò serve responsabilità anche da parte dei maggiori soggetti del settore.
E i trasporti? Quanto incidono le spedizioni sull’impatto globale degli abiti? Se paragonate a quelle necessarie per realizzare un capo da zero rappresentano comunque la scelta meno inquinante? A quanto pare sì. Nel suo primo Impact report, Vestiaire Collective ha dimostrato come il 70 per cento degli acquisti fatti tramite la app abbia permesso di evitare un acquisto di prima mano per una misura equivalente di circa 40mila tonnellate di CO2 senza l’utilizzo di una ulteriore compensazione.
Ma come si è arrivati a questo risultato? La società ha raccolto i dati su tutte le tipologie di emissioni calcolando prima la propria impronta di carbonio sulla piattaforma Aktio e raccogliendo le cifre sulle emissioni di gas serra direttamente dai suoi fornitori (ad esempio i vettori), e poi misurando le emissioni evitate confrontando, ad esempio, il tasso di spostamento e calcolando le emissioni associate allo scenario di riferimento sulla base dei dati del Product environmental footprint (PEF) della Commissione europea sull’impatto della valutazione del ciclo di vita di capi d’abbigliamento e calzature.
Uno dei passaggi più impattanti, a livello di emissioni, ad esempio è costituito dai centri di controllo e smistamento. Passando alla spedizione diretta, nel 65 per cento dei casi, viene dimezzata la distanza che un capo deve percorrere per andare dal venditore all’acquirente, ma anche tagliando il trasporto aereo, scelta che la società ha fatto per il 62 per cento delle sue transazioni. Insomma: second hand sì, ma non se questo significa shopping fatto in maniera acritica.
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