La famiglia aveva chiesto più volte a Meta di eliminare i post che incitavano all’odio, ma la società non ha fatto niente.
Ora chiedono la creazione di un fondo da due miliardi di dollari per le vittime delle violenze online.
Meta era già stata denunciata per diffusione di odio online dai rohingya, ma accuse simili arrivano anche da altri paesi.
Meta è responsabile della diffusione delle violenze in Etiopia nel contesto della guerra del Tigray e per questo deve pagare. È quanto sostengono alcune organizzazioni per i diritti umani e familiari di vittime di violenza, che hanno intentato una causa legale in Kenya contro la società.
Tutto nasce dall’uccisione di Meareg Amare, un professore universitario etiope di origine tigrina accusato di aver rubato del materiale didattico. Il suo indirizzo di casa è circolato sulla piattaforma social in un post che i familiari hanno più volte chiesto venisse rimosso. La società Meta, che detiene Facebook, è accusata di non aver fatto nulla per moderare l’odio online in questo e molti altri casi. Non è la prima volta che la società viene denunciata per fatti di questo tipo: era già successo recentemente con i rohingya del Myanmar.
La causa in Etiopia
Meareg Amare insegnava chimica alla Bahir Dar University. Nel 2021 hanno cominciato a circolare alcuni post su gruppi Facebook con decine di migliaia di persone, dove si rivolgevano offese razziste ad Amare per le sue origini del Tigray (vittima di una guerra di aggressione da parte di Addis Abeba, i cui trattati di pace sono stati firmati solo poche settimane fa) accusandolo di aver rubato materiale universitario e di averlo rivenduto. In questi post veniva indicato anche l’indirizzo di casa del professore, incitando gli utenti ad andare a punirlo. E in effetti il 3 novembre 2021 qualcuno si è presentato alla sua dimora e gli ha sparato, uccidendolo.
La famiglia del professore era da tempo che chiedeva a Facebook di rimuovere i post con i dati sensibili di Amare, senza ricevere risposta. Quando il primo post è stato finalmente cancellato dalla piattaforma, l’uomo era già stato ucciso da settimane. Abrham Amare, ricercatore e figlio del professore, ritiene dunque Facebook direttamente responsabile della sua morte. E assieme a Fisseha Tekle, anche lui ricercatore e consigliere legale di Amnesty International, al Katiba Institute e con il sostegno dell’organizzazione per i diritti umani Foxglove, ha intentato una causa legale contro Meta davanti all’Alta corte del Kenya.
Meta is being sued for $2bn for fueling ethnic violence in Ethiopia. One of the lawsuit’s petitioners is the son of Meareg Amare, a University Professor who was hunted down and killed in 2021, weeks after posts inciting hatred and violence against him spread on Facebook.
La società è accusata di non aver fatto nulla per limitare i messaggi di odio in Etiopia, già sferzata da una guerra civile da centinaia di migliaia di morti. E anzi l’algoritmo di Facebook è accusato di aver fatto circolare più degli altri questi post violenti, a causa del loro alto numero di condivisioni da parte degli utenti della piattaforma, che in Etiopia sono circa sei milioni. I denuncianti chiedono alla società di modificare l’algoritmo, di fare investimenti in termini di assunzione di nuove risorse specializzate nelle lingue locali per moderare i contenuti violenti e di creare un fondo per il risarcimento delle vittime della violenza online da due miliardi di dollari.
I precedenti di Meta
Da Meta hanno fatto sapere che la società in Etiopia si avvale di personale con conoscenze e competenze locali e che sta continuando a sviluppare le sue capacità per rilevare i contenuti nelle lingue più parlate nel paese, “tra cui amarico, oromo, somalo e tigrino”, che violano le regole della piattaforma. Ma il problema è che nel paese si parlano circa 45 lingue.
Non è la prima volta che Meta viene denunciata, o accusata, di non aver moderato messaggi d’odio in contesti sociali critici. Nel 2021 negli Stati Uniti e nel Regno Unito è partita una class action da parte di decine di persone contro Facebook, con richiesta di risarcimento di 175 miliardi di euro, per avere favorito la circolazione di contenuti violenti in Myanmar che incitavano al genocidio della minoranza musulmana dei rohingya.
In Somalia su Facebook ci sono decine di account di pagine jihadiste, amministrate dagli stessi gruppi che causano morte e devastazione nel paese, che operano senza alcuna moderazione. Altri problemi dello stesso tipo sono stati riscontrati in Indonesia, Cambogia e Sri Lanka.
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