
Una missione scientifica in un atollo della Polinesia francese ha permesso di scoprire l’esistenza di coralli che sopravvivono in acque molto calde.
Circa metà degli ecosistemi terrestri privi di ghiaccio è ancora intatta e, agendo subito, può essere conservata.
Nonostante la nostra specie, in termini di biomassa, costituisca solo lo 0,01 per cento della vita sulla Terra, ha avuto dalla sua recente origine un impatto catastrofico sull’ambiente e sulle altre specie. La sistematica distruzione degli habitat causata dall’espansione delle attività umane è la principale minaccia per la fauna e ha vaste ripercussioni su interi ecosistemi.
Circa la metà delle foreste primarie del pianeta è stata rasa al suolo e ogni anno vengono abbattuti 15 miliardi di alberi. Ciononostante, ci sarebbe ancora speranza. Circa metà delle terre emerse non ricoperte di ghiaccio sarebbe infatti ancora relativamente integra, e potrebbe ancora essere salvata, purché si agisca ora.
È quanto sostiene lo studio Global human influence maps reveal clear opportunities in conserving Earth’s remaining intact terrestrial ecosystems, pubblicato sulla rivista Global change biology e condotto da un gruppo internazionale di ricercatori guidato dalla National geographic society e dall’università della California. I ricercatori hanno analizzato quattro mappe realizzate di recente riguardo la conversione delle aree naturali per usi antropogenici.
Dalle mappe è emerso che oltre il 50 per cento delle terre è ampiamente sfruttato ed è caratterizzato da città, campi coltivati, allevamenti e siti di estrazione. Tre valutazioni spaziali su quattro concordano però sul fatto che il 46 per cento delle terre emerse non coperte da ghiacci permanenti o neve sia ancora privo di una significativa influenza umana. “L’aspetto incoraggiante di questo studio è che mostra che, se agiamo in modo rapido e deciso, possiamo ancora conservare circa la metà delle terre emerse in uno stato relativamente intatto”, ha dichiarato il principale autore dello studio, Jason Riggio.
Lo studio, in particolare, ha individuato determinate aree caratterizzate dall’assenza di attività umane o da un basso impatto (che però sono caratterizzate da una biodiversità nettamente inferiore rispetto quella delle zone attualmente più minacciate, come le foreste pluviali). Gran parte di queste zone è costituita da ambienti freddi o aridi. Le più estese sono le foreste e le vaste tundre dell’Asia settentrionale, le foreste boreali del Nord America e le grandi aree desertiche, come il deserto del Sahara in Africa e l’outback australiano. Queste aree sarebbero rimaste più integre in virtù delle loro peculiari caratteristiche climatiche e ambientali, che le rendono meno idonee ad attività come l’agricoltura.
Tali aree, riferisce lo studio, non escludono necessariamente la presenza di insediamenti e attività umane, a patto che le risorse vengano gestite in modo sostenibile. Le esigenze delle popolazioni locali, come la sovranità alimentare, e la tutela dei servizi ecosistemici e della biodiversità dovrebbero andare di pari passo, secondo i ricercatori. “Il raggiungimento di questo equilibrio sarà necessario se miriamo a raggiungere ambiziosi obiettivi di conservazione – ha affermato Riggio -. Il nostro studio dimostra che questi obiettivi sono ancora a portata di mano”.
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