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Michele Cinque. Nei miei film le ingiustizie che riguardano tutti noi
Basta separazioni fra migranti ed europei. Ecco il messaggio di Michele Cinque, regista dei documentari Iuventa e Jululu presentato al Milano Film Festival 2017.
Dal caporalato alla controversa vicenda della nave Iuventa che salvava i migranti nel mar Mediterraneo prima di essere posta sotto sequestro preventivo. Il documentarista romano Michele Cinque, 33 anni, racconta a LifeGate i retroscena e l’ispirazione dei suoi docufilm Jululu, già presentato a Venezia e all’edizione 2017 del Milano Film Festival, e Iuventa appunto, in uscita nei primi mesi del 2018.
Jululu, unisce musica e immagini evocative per raccontare lo sfruttamento nei campi di pomodori in Puglia. Nell’atteso Iuventa, invece, il regista ha filmato alcuni giovani tedeschi della ong Jugend Rettet, che nel 2015 lanciarono un crowfunding per comprare una nave e andare in prima persona a salvare i migranti nel Mediterraneo. Il loro sogno, però, si è infranto il 2 agosto scorso. Assieme al sequestro preventivo della nave, sono stati accusati di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” dalla Procura di Trapani. Gli attivisti si difendono, ripetendo che contro di loro sono state lanciate “falsificazioni terrificanti”.
Il sogno e l’impegno politico di Michele Cinque
“È arrivato il momento di abbandonare le categorie che dividono: ‘noi versus i migranti’ non ha più senso. Io non faccio film sui migranti, – racconta Cinque – ma sul 99 per cento schiacciato dall’1 per cento. Sulle ingiustizie che riguardano tutti noi. Nei campi gli africani e gli italiani sono uniti, purtroppo anche nello sfruttamento. Due donne sono morte, Paola Clemente e Giuseppina Spagnoletti. E racconto anche degli europei che cercano di migliorare il mondo, insieme con personaggi come Yvan Sagnet, ragazzo del Camerun che qui, in Italia, ha dato vita a un movimento contro il caporalato. Basta divisioni”.
Chi è Jululu?
In dialetto senegalese significa l’anima collettiva africana. Non esiste una traduzione letterale, ma è come se fosse uno spirito collettivo che veglia sull’intero popolo africano. Lo abbiamo ripreso da un testo di Badara Seck. Nel film il noto cantore griot, cioè custode della tradizione orale, erra alla ricerca di Jululu, sperando che protegga i migranti che raccolgono pomodori.
Quando e dove è stato girato?
Tra giugno e luglio in Puglia, nei ghetti dove vengono ammassati i lavoratori stagionali.
Insieme con Badara Seck, altro protagonista del docufilm è Yvan Sagnet, giovane leader della rivolta contro il caporalato di Nardò nel 2011. Grazie a quelle proteste il caporalato è diventato reato e diversi imprenditori sono stati condannati per riduzione in schiavitù. Com’è la situazione oggi?
Come sostiene Sagnet, il caporalato è solamente un sintomo. Sagnet cita il rivoluzionario burkinabè Thomas Sankara che nel 1984 all’Onu fece un discorso estremamente lungimirante, come se avesse già conosciuto la società post-capitalistica. Ci premeva partire dai caporali per arrivare alle cause generali che risalgono al sistema economico ultraliberista.
Può elencarle?
Un sistema economico paradossale, che privilegia la merce alle persone. Se le grandi catene di distribuzione (gdo) decidono per esempio di pagare 80 euro una tonnellata di pomodori, è evidente che sul campo determinano una guerra per abbassare i prezzi. Il caporale è obbligato a perpetuare delle dinamiche che ricordano la schiavitù. A un lavoratore, per esempio, tre quintali di pomodori vengono pagati 3,50 euro. Vogliamo che il mercato decida della nostra sorte? O, forse, vogliamo cercare delle filiere alternative?
Condizioni estreme che hanno prodotto morti bianche.
Sì e non solo fra i migranti. Sono decedute per fatica e caldo anche due donne italiane, Paola Clemente e Giuseppina Spagnoletti. Nei campi non lavorano solamente gli africani, ma anche gli italiani. La lotta contro questa schiavitù è di tutti e non dipende dal colore della pelle. Inoltre, riguarda anche i consumatori.
Per la qualità dei prodotti?
Certamente. La terra di Capitanata è quasi una “terra dei fuochi”. Ma nessuno lo sa.
Le immagini del film sono evocative. Ricordano i campi di cotone del Sud degli Stati Uniti. Anche le musiche del film si ispirano al blues e alla sofferenza cantata in quelle terre?
Assolutamente sì. In Jululu la musica è narrazione. Con Badara Seck ho costruito la drammaturgia. A tratti favolistica. I testi hanno una loro funzione narrativa. La musica, proprio come per il blues, è una via di fuga. Ci fa superare la sofferenza e travalica le barriere razziali. Il jazz fu il seme nato dall’America segregazionista.
Lei lavora anche in televisione. Pensa che i nostri mass media, soprattutto la tv, vadano fermati nei loro messaggi discriminatori?
Sì e aggiungo che ciò non è casuale. Ne è simbolo la vicenda della nave Iuventa, tuttora sotto sequestro preventivo per disposizione del gip di Trapani.
Iuventa sarà il soggetto e il titolo del suo prossimo lungometraggio, che uscirà nei primi mesi del 2018. Lei, che li ha filmati per tanto tempo, cosa può dirci di questi ragazzi accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?
È stata colpita la ong più debole. Un diciannovenne e altri nove ragazzi creano questa missione l’indomani del naufragio nel Canale di Sicilia del 18 aprile 2015, in cui muoiono fino a 900 persone: 58 le vittime accertate e in un numero compreso fra 700 e 900 i dispersi. Sentono che devono fare qualcosa, perché le istituzioni europee nonostante le manifestazioni di cordoglio per questa vicenda, non agiscono in modo adeguato. Quello slancio, quella scintilla utopica, mi hanno completamente rapito. Così, a quindici giorni dalla loro prima missione, superando vari ostacoli, sono salito sulla nave.
E poi, dopo 14mila persone salvate come riportato da Jugend Rettet, cos’è accaduto?
A partire dall’estate scorsa, dalle nuove disposizioni del Ministro dell’interno Marco Minniti, la Iuventa ha subito un processo mediatico. Ho esaminato le 500 pagine della Procura e mi sembra che sia stato raggiunto l’obiettivo di discreditare l’ong più fragile. Non avevano un avvocato. Erano naïf. Ma se per chi li accusa, ovviamente, l’innocenza è un difetto, per me è la storia da raccontare. E’ l’utopia che si scontra in modo drammatico con la realtà. Se il giorno prima erano salutati come i giovani puri che salvano la coscienza sporca dell’Europa, ventiquattro ore dopo sono diventati i cattivi.
Le sembra assurdo?
C’è chi come Stefania Maurizi de La Repubblica ha decostruito l’impianto accusatorio della procura. Inoltre, le indagini sono partite dalle accuse di agenti di sicurezza privati, legati a gruppi di estrema destra. Imi Security Service e Generazione identitaria, che appoggia l’iniziativa Defend Europe per “monitorare e denunciare l’attività illecita delle navi delle ong”.
Gli agenti privati della Imi, dopo essere saliti sulla nave, secondo Il Fatto Quotidiano avrebbero contattato anche la segreteria del presidente della Lega Nord, Matteo Salvini.
Dall’ottobre 2016 Generazione Identitaria e Defend Europe hanno creato un think tank per influenzare i media, lanciando accuse contro le ong. Però, non si diceva mai che Iuventa, come tutte le altre ong, ha sempre obbedito agli ordini del centro della Guardia costiera di Roma.
Cos’altro non si dice?
I flussi migratori non si fermeranno mai. Minniti ha ripreso l’accordo che nel 2008 Silvio Berlusconi da premier siglò con Muammar Gheddafi. Ma come scrisse il filosofo Zygmunt Bauman, prima di morire, le persone non fuggono solo da guerre, situazioni economiche sfavorevoli, ma anche dai cambiamenti climatici. Il problema è che in Europa non si stanno cercando onestamente delle soluzioni, seppur difficili e a lungo termine, ma si agisce in base alle campagne elettorali. Bloccare gli esuli in Libia significa macchiarsi di un crimine contro l’umanità. I centri di detenzione sono campi di concentramento, secondo i racconti delle persone che io stesso ho intervistato cinque minuti dopo essere scese dai barconi. Le future generazioni ci chiederanno perché l’abbiamo fatto, come noi chiedemmo ai nostri nonni le ragioni per cui non si opposero al nazi-fascismo.
La presidente internazionale di Medici senza frontiere, Joanne Liu, e la commissaria Ue responsabile per il Commercio, Cecilia Malmstrom, hanno confermato questa tragica situazione nei centri di detenzione libici. Il suo è un impegno politico?
Sì. Iuventa è solo un simbolo, dell’unico movimento ancora attivo in Europa contro le ingiustizie. Questo movimento è più ampio e si ispira alle lotte per un mondo migliore degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, alle quali io stesso ho partecipato.
Gran parte di quei movimenti si sono spenti o sono stati spenti. Poi Yvan Sagnet, africano, si ribella per tutti i suoi compagni di lavoro. Dagli altri, da chi è diverso da noi, dai migranti, ci è pervenuta una nuova iniezione di coraggio?
Sagnet continua a ricevere minacce, ma non si ferma. Intorno a lui si è creato un movimento che denuncia l’intera filiera. Dai caporali – presenti in tutta Italia, da nord a sud – risale alle aziende di trasformazione e distribuzione. Sta lanciando una certificazione etica per il cibo per rendere i consumatori più consapevoli. Queste iniziative riguardano ciascuno di noi. E’ arrivato il momento di abbandonare le categorie divisorie: “noi e i migranti” non ha senso. Io non faccio film sui migranti, ma sul 99 per cento schiacciato dall’1 per cento.
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