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Quali danni causano le microplastiche rilasciate dai tessuti sintetici e cosa possiamo fare per limitarli, dalla progettazione allo smaltimento dei capi.
Ad oggi, oltre 14 milioni di tonnellate di microplastiche si sono accumulate sul fondo degli oceani. A dirlo è la European Environment Agency (Eea), i cui report rivelano anche che circa l’8 per cento delle microplastiche europee negli oceani proviene da tessuti sintetici e, a livello globale, questa percentuale sale tra il 16 e il 35 per cento. Questo significa che ogni anno, nel mondo, tra 200mila e 500mila tonnellate di microplastiche provenienti dai tessuti entrano nell’ambiente marino. Per inquadrare meglio la problematica a livello dell’industria tessile è utile sapere che la maggior parte viene rilasciata nei primi lavaggi e che i settori del fast fashion e dell’ultra fast fashion hanno un’importante responsabilità, poiché i capi durano per un periodo breve e tendono a deteriorarsi rapidamente a causa della loro bassa qualità. Tuttavia è possibile ridurre o prevenire il rilascio di microplastiche dai tessuti implementando processi di progettazione e produzione sostenibili, adottando misure di cura che controllino le emissioni durante l’uso e migliorando lo smaltimento e il trattamento a fine vita.
È difficile stimare e misurare con precisione le quantità di microplastiche rilasciate nell’ambiente, a causa delle molteplici fonti e della mancanza di metodi standardizzati di campionamento e misurazione. Il report del Centro tematico europeo per l’economia circolare e l’uso delle risorse (Etc/Ce) dell’Eea sulle microplastiche provenienti dai tessuti stima tuttavia che ogni anno entrino nell’ambiente tra 6 e 15 milioni di tonnellate di plastica, pari al 2,4 per cento della produzione globale. Mentre le fonti terrestri, come lo smaltimento incontrollato dei rifiuti e i rifiuti plastici dispersi, rappresentano circa l’80 per cento dei rifiuti marini. Luce solare, vento, onde e altri fattori fanno sì che la plastica si degradi in piccoli frammenti che prendono il nome di microplastiche (che misurano 0,001-5 mm) o addirittura nanoplastiche (meno di 0,001 mm).
L’intera catena del valore della plastica comporta il rilascio di microplastiche: questo fenomeno avviene durante la produzione, il trasporto, l’uso e alla fine del ciclo di vita del prodotto. In generale, possono essere suddivise in due categorie principali a seconda dei processi di formazione. Le microplastiche primarie sono prodotte intenzionalmente, come gli stabilizzanti nei cosmetici o i granuli utilizzati nei campi sportivi in erba artificiale, mentre le microplastiche secondarie sono l’esito della degradazione di oggetti di plastica più grandi, come abbigliamento sintetico, attrezzature da pesca abbandonate, imballaggi in plastica dispersa o rifiuti plastici provenienti da discariche non gestite correttamente. L’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) stima che ogni anno in Europa vengano utilizzate 145mila tonnellate di microplastiche primarie, ovvero prodotte intenzionalmente, mentre 176mila tonnellate di microplastiche formatesi involontariamente siano rilasciate nelle acque superficiali europee a causa dell’abrasione e dell’invecchiamento dei prodotti plastici.
A livello europeo, lo studio ha infatti stimato che ogni anno vengano rilasciati nell’oceano tra 307 e 925 milioni di rifiuti, l’82 per cento dei quali in plastica. Le microplastiche provenienti dai tessuti hanno spesso una forma fibrosa e sono quindi chiamate microfibre: si stima che i tessuti sintetici siano responsabili di una dispersione globale compresa tra 0,2 e 0,5 milioni di tonnellate di microplastiche negli oceani ogni anno (dati provenienti dalla Ellen MacArthur Foundation, 2017). In Europa, in particolare, dove la maggior parte delle famiglie è collegata a un sistema di trattamento delle acque reflue, si stima che ogni anno vengano rilasciate 13mila tonnellate di microfibre tessili nelle acque superficiali, pari a 25 grammi per persona. Una vasta gamma di organismi ingerisce microplastiche, dai plancton ai pesci, fino ai grandi mammiferi marini. Inoltre, sono state trovate in alimenti e bevande umane, come frutti di mare, acqua potabile, birra, sale e zucchero.
Per ridurre il rilascio di microplastiche dai tessuti in Europa, l’European Environment Agency propone infatti tre strategie principali. Si parte da progettazione e produzione, ripensandole in modo tale da privilegiare materiali meno inquinanti e che riducano la perdita di microfibre durante la produzione. Dopodiché entrano in gioco le misure di cura e utilizzo dei capi, come filtri per lavatrici, detersivi meno aggressivi e cicli di lavaggio a basse temperature. Infine bisogna concentrarsi sul miglioramento del loro smaltimento e del fine vita. L’Unione europea ha infatti già avviato strategie per contrastare il problema, come il Piano d’azione per l’economia circolare e la strategia per ridurre l’uso e l’impatto della plastica.
L’uso di fibre naturali nel settore tessile è stato proposto come alternativa alle sintetiche per ridurre il rilascio di microfibre nell’ambiente. Tuttavia, questa soluzione potrebbe non essere così efficace. Le fibre naturali, infatti, subiscono ugualmente usura e rilasciano microfibre, che possono contenere additivi chimici con possibili effetti negativi. Inoltre, non tutte sono biodegradabili: il poliestere di origine biologica, ad esempio, si comporta come quello fossile e contribuisce all’accumulo di microplastiche. Anche i processi industriali di produzione tessile influiscono sulla dispersione di microfibre, soprattutto a causa delle frizioni abrasive. Un miglior trattamento delle acque reflue e il prelavaggio negli impianti potrebbero ridurre significativamente il problema, intercettando le microfibre prima che raggiungano l’ambiente.
Per contrastare il rilascio di microfibre nell’ambiente, una soluzione chiave è l’integrazione di filtri nelle lavatrici. La Francia, pioniera in questa direzione, ha imposto l’obbligo di installarli su tutti i nuovi modelli a partire dal 2025, mentre a livello europeo a partire dal 2028, con una potenziale riduzione delle microfibre fino all’80 per cento. Anche i detersivi giocano un ruolo cruciale: quelli in polvere, soprattutto sui tessuti sintetici, aumentano l’attrito e favoriscono la rottura delle fibre. Preferire detergenti liquidi delicati ed efficaci a basse temperature potrebbe limitare il problema. Inoltre, il fast fashion contribuisce alla dispersione di microfibre, poiché i capi nuovi rilasciano più fibre nei primi lavaggi. Adottare modelli di consumo più circolari e allungare il ciclo di vita dei vestiti può ridurre l’impatto ambientale, come evidenziano i recenti studi dell’Eea.
Oltre al riutilizzo e al riciclo, una corretta raccolta e gestione dei rifiuti tessili è essenziale per limitare la dispersione di microplastiche. Le discariche a cielo aperto e la cattiva gestione dei rifiuti contribuiscono all’inquinamento secondario, ma l’export dei tessili usati dall’Europa pone ulteriori rischi: molti paesi destinatari non dispongono di adeguati sistemi di trattamento, favorendo la dispersione di microfibre nelle acque reflue e nell’ambiente. Il trattamento delle acque reflue può intercettare fino al 98 per cento delle microplastiche, ma solo il 56 per cento delle famiglie risiedenti nell’Unione europea è collegato a impianti avanzati. Inoltre, molte microplastiche finiscono nei fanghi di depurazione, spesso usati in agricoltura, con possibili effetti sugli ecosistemi. Regolamentazioni più severe e soluzioni innovative sono necessarie, poiché il filtraggio totale è improbabile e la rimozione delle microplastiche dagli oceani è quasi impossibile.
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