La comunità energetica nata all’inizio degli anni Duemila è diventata un porto sicuro nella Florida esposta alla minaccia degli uragani, grazie a una pianificazione efficiente basata su innovazione e fonti rinnovabili.
I migranti climatici negli Stati Uniti dimostrano che anche i paesi ricchi sono vulnerabili agli eventi estremi
Nel 2022 uragani, alluvioni, tornado e incendi hanno costretto oltre 3 milioni di statunitensi a lasciare le loro case, diventando migranti climatici.
- I migranti climatici sono persone costrette a lasciare le proprie case a seguito di eventi estremi.
- Negli Stati Uniti sono stati 3,4 milioni nel 2022: si tratta di migranti interni, perché non hanno lasciato il paese.
- Molti di loro appartengono a qualche minoranza: etnica, di reddito ma anche sessuale.
- Ciò dimostra che anche i paesi ricchi devono pianificare meglio le proprie politiche territoriali di insediamento.
Nel 2022, i disastri naturali causati dai cambiamenti climatici hanno costretto circa 3,4 milioni di persone negli Stati Uniti a lasciare le loro case. Il dato è rilevante per due motivi: di solito, quando si parla di migranti climatici (in questo caso migranti interni) ci si riferisce a paesi in via di sviluppo, non certo a paesi industrializzati come gli Usa. Inoltre, è molto più frequente che ad abbandonare le proprie case siano persone appartenenti alle minoranze, il che si ricollega al tema della giustizia climatica.
Il 16 per cento dei migranti climatici statunitensi non può rientrare nelle proprie case
La stragrande maggioranza dei migranti climatici americani è stata colpita da uragani, seguiti da inondazioni, incendi e tornado. Quasi il 40 per cento di loro è riuscito a tornare a casa entro una settimana, mentre il 12 per cento è stato evacuato per più di sei mesi. Ma c’è una quota considerevole, il 16 per cento circa, di persone che non sono più rientrate nelle proprie abitazioni e non potranno farlo in futuro.
Sono numeri che nessuno si aspetterebbe da un paese industrializzato e ricco come gli Stati Uniti. Ciò dimostra quanto la crisi climatica interessi tutto il mondo, sebbene alcune zone, anche all’interno degli Usa stessi, siano più vulnerabili di altre. In Florida, per esempio, si contano quasi 900mila sfollati, in Louisiana più di 360mila. Ma ciò dimostra anche quanto un paese così “avanzato” come gli Usa stia sottovalutando la sua esposizione agli eventi meteorologici estremi. E i danni da essi generati. La National oceanic and atmospheric administration (Noaa), l’agenzia federale statunitense che si occupa di oceanografia, meteorologia e climatologia, calcola che i 18 eventi estremi del 2022 abbiano avuto un costo di almeno 1 miliardo di dollari.
Chi guadagna meno ha più probabilità di essere sfollato
Gli eventi estremi non sono imprevedibili. Gli avvertimenti della comunità scientifica però vengono spesso ignorati, anche nelle politiche territoriali di insediamento. Questa scarsa attenzione si traduce in danni materiali a cose e persone che potrebbero essere, se non evitati, almeno mitigati.
Il fatto è che gli effetti più disastrosi di queste politiche si abbattono con maggior forza sulle minoranze, cioè su quei segmenti della popolazione statunitense che sono già vittime di disparità sociali. Condizioni economiche e appartenenza etnica sono due fattori che incidono sulla qualità della vita e, di conseguenza, sul grado di protezione offerto dalla comunità territoriale.
Una correlazione dimostrata anche dalle stime: coloro che guadagnano meno di 25mila dollari all’anno hanno un tasso di evacuazione più alto di qualsiasi gruppo economico, così come sono maggiori le probabilità tra i residenti neri e ispanici rispetto ai residenti bianchi.
Afroamericani e ispanici i principali migranti climatici negli Usa
L’ultimo rapporto dell’Agenzia per la protezione ambientale (Environmental protection agency, Epa) è del 2021 e rappresenta uno degli studi sui migranti climatici e sulla giustizia ambientale più avanzati realizzati fino ad oggi. L’Epa mostra il grado di esposizione agli effetti climatici di quattro fasce di popolazione socialmente vulnerabili, definite in base a reddito, livello di istruzione, etnia ed età, e quantifica sei tipi di impatti, compresi quelli sulla salute dovuti a cambiamenti nella qualità dell’aria e alle temperature estreme, considerando anche il rischio di disoccupazione per i lavoratori esposti alle intemperie e le minacce di inondazioni alle proprietà.
L’Epa indica che gli individui neri e afroamericani affronteranno gli impatti maggiori dei cambiamenti climatici per tutti e sei gli impatti analizzati nel rapporto, rispetto a tutti gli altri gruppi demografici. Come racconta il sito Greenreport, che ha analizzato nel dettaglio lo studio, con 2 gradi di innalzamento delle temperature questi due segmenti di popolazione avrebbero il 34 per cento in più di probabilità di vivere in aree con i più alti aumenti previsti di asma infantile. Avrebbero inoltre il 40 per cento in più di probabilità di vivere in aree con i più alti aumenti previsti di decessi dovuti a temperature estreme.
Ispanici e latini rappresentano un’elevata percentuale di lavoratori nelle industrie esposte alle intemperie e al caldo estremo, come l’edilizia e l’agricoltura. Con 2 gradi di riscaldamento globale, questa fascia di individui avrebbe il 43 per cento in più di probabilità di vivere in aree con le maggiori riduzioni previste delle ore di lavoro a causa delle temperature asfissianti. Per quanto riguarda i trasporti, hanno circa il 50 per cento in più di probabilità di vivere nelle aree con i maggiori ritardi stimati del traffico dovuti alle più frequenti inondazioni costiere.
C’è correlazione anche tra omosessualità e vulnerabilità al clima
In pochi probabilmente lo sospettano, ma anche chi si identifica nella comunità Lgbtqia+ è colpito in modo più sproporzionato dagli eventi climatici estremi rispetto ad altri. Il 4 per cento degli adulti Lgbtqia+ ha dovuto lasciare la propria casa rispetto all’1,2 per cento delle persone eterosessuali cisgender, secondo i dati raccolti dall’ufficio di censimento statunitense. Questo fenomeno ha una spiegazione sociale: gran parte della comunità Lgbtqia+, appunto, è composta da cittadini afroamericani, transgender e a basso reddito, quindi risulta più esposta ai disastri climatici.
Sarebbe il caso di considerare e rapportare il grado di vulnerabilità di tali soggetti nel contesto di pianificazione e preparazione agli eventi estremi. Eppure, non solo i piani di adattamento risultano poco efficaci in generale ma nemmeno hanno un occhio di riguardo rispetto ai soggetti più “deboli”, dedicando loro la giusta attenzione e il giusto sostegno economico.
Per mitigare gli effetti del clima è necessario diminuire le disuguaglianze
Per questo, gli impegni di chi si batte per la giustizia ambientale sono concentrati sul tema di un più equo sostegno economico verso le comunità svantaggiate. I segnali politici ci sono ma vanno intensificati. Durante le sue prime settimane in carica, infatti, il presidente Joe Biden ha emesso l’ordine esecutivo denominato Tackling the climate crisis at home and abroad che, per la prima volta nella storia, vuole garantire che almeno il 40 per cento dei benefici degli investimenti per il clima e l’energia pulita vada a favore delle comunità svantaggiate.
Si tratta di un fenomeno che interessa da vicino anche l’Italia. Sul tema della disuguaglianza degli impatti climatici si è concentrato un recente studio condotto da un team di ricercatori italiani dell’università Sant’Anna di Pisa: i dati indicano che l’86 per cento dei paesi analizzati diventerà più povero entro la fine del secolo a causa del riscaldamento globale e che le disuguaglianze di reddito aumenteranno. Ciò riguarderà maggiormente i paesi in via di sviluppo ma anche l’Italia sarà coinvolta, poiché in Europa crescerà il gap tra i paesi del nord e quelli mediterranei.
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