Drogata e stuprata per anni, Gisèle Pelicot ha trasformato il processo sulle violenze che ha subìto in un j’accuse “a una società machista e patriarcale che banalizza lo stupro”.
La Polonia accoglie i rifugiati ucraini, ma respinge tutti gli altri
Mentre accoglie i cittadini ucraini, la Polonia costruisce il muro contro i migranti che fuggono da altre guerre. Siamo stati al confine con la Bielorussia per conoscere chi li aiuta.
Mentre il mondo applaude la Polonia per l’apertura delle frontiere ai civili che scappano dall’Ucraina, dietro ai riflettori il paese sta mettendo in atto una vera e propria selezione dei migranti. Se sei ucraino puoi passare, se la tua pelle è un po’ più scura, se la tua provenienza è da un po’ più lontano, invece, non hai diritto di accoglienza.
La Polonia ha infatti recentemente ha approvato i respingimenti illegali: i migranti provenienti dal confine bielorusso non solo vengono costantemente respinti oltre la frontiera, ma vengono anche picchiati, lasciati morire di freddo e di fame tra gli alberi fitti della foresta. La Polonia è quel territorio che ha creato una zona interdetta per impedire agli attivisti di intervenire a sostegno dei profughi, e per evitare che i giornalisti documentino quanto accade lungo la linea che separa l’Europa dalla Bielorussia. È quella parte di Occidente che sta costruendo un muro di frontiera.
Vorremmo dire che oggi la Polonia ha scelto di comportarsi in un modo diverso, più umano, ma non sarebbe la verità. “Continuiamo a ricevere richieste di assistenza da persone che fuggono da conflitti armati che hanno luogo in altre parti del mondo, tra cui Siria, Yemen e Afghanistan“, denuncia l’ong Grupa Ganica, che lavora alla frontiera.
Incapaci di utilizzare le vie legali per entrare in Polonia, queste persone rischiano la vita nelle foreste di confine.
“Incapaci di utilizzare le vie legali per entrare in Polonia, queste persone rischiano la vita nelle foreste di confine. Al confine bielorusso, a differenza di quello ucraino, la guardia di frontiera non accetta domande di protezione internazionale e non offre riparo; ricaccia le persone in Bielorussia, un Paese che sostiene l’invasione russa dell’Ucraina. E mentre secondo la Convenzione di Ginevra ogni persona in fuga da persecuzioni e violenze dovrebbe avere il diritto a un rifugio sicuro, queste due frontiere – quella della Bielorussia e quella dell’Ucraina – rendono chiaro che la possibilità di esercitare questo diritto dipende dalla nazionalità della persona che cerca protezione”.
Storie di accoglienza in Polonia
Tra la popolazione polacca, però, c’è anche chi ha scelto di non fare distinzioni. Chi sta dedicando la propria vita in funzione dell’accoglienza. Di andare contro al governo e alle forze dell’ordine per aiutare. Abbiamo incontrato alcune di queste persone, che sono la diretta testimonianza del vero atteggiamento polacco nei confronti dei migranti.
Quando chiediamo a Jakub di raccontarci gli ultimi sei mesi della sua vita qualcosa in lui prende il sopravvento. Le mani iniziano a tremare. Le spalle si chiudono. Lo sguardo si perde. “È stato intenso”, dice in modo quasi compulsivo. “Io sto bene, ma è stato intenso”. Intenso. Questa parola continua a ripetersi, come se non ce ne fossero altre abbastanza forti per descrivere quello che i suoi occhi hanno visto. Quello che le sue orecchie hanno ascoltato. Jakub ha 33 anni, è polacco, ha vissuto in giro per il mondo. Quando i migranti sono arrivati nella sua terra si è sentito in dovere di aiutarli. Letteralmente. “Sapevo di poter essere utile, utile come mai prima nella mia vita”.
È un interprete, parla l’arabo, fa parte del movimento Grupa Granica, e questo gli ha permesso di aiutare tante persone. Di spiegare loro cosa fare, come farsi rispettare. Come sopravvivere. Mentre scrivo i miei appunti controlla ogni parola. Parla fluentemente l’italiano, fatica a fidarsi di noi. E in qualche modo non ho difficoltà a capire perché.
“Certi giorni, mentre preparavo lo zaino per stare tutta la notte nella foresta, mi chiedevo se fossi diventata pazza. Lasciavo i miei figli a casa da soli per andare ad aiutare degli sconosciuti. Non dormivo più. Poi, però, quando arrivavo lì, tra gli alberi, e vedevo tutte quelle persone, quei bambini al freddo, disperati, mi dicevo che no. Non ero io a essere fuori controllo. È il sistema a essere folle”. Il tono della voce di Kasia, una mamma single di 40 anni, si abbassa mentre pronuncia queste parole.
Quando si arriva al confine tra la Polonia e la Bielorussia si viene travolti un’ondata di sofferenza. Per le strade si sente il rumore dei mezzi militari. A ogni incrocio ci sono le luci blu della polizia, i posti di blocco della guarda di frontiera. Camionette, auto, mezzi militari. Le persone camminano a testa bassa, fanno finta di non vedere. Di non sentire. L’aria è gelata, quasi quanto le menti di coloro che negli ultimi mesi hanno dedicato anima e corpo ai migranti in fuga dalla Bielorussia. Qui, infatti, tanti cittadini si sono spesi per aiutare coloro che riuscivano a oltrepassare il confine e, quando non intercettati dalle forze dell’ordine, si nascondevano tra i fitti alberi di una foresta che sembra non avere fine. Portavano loro zuppe calde, acqua, giubbotti, scarpe. Alle volte gli offrivano un divano su cui riposarsi. Un posto dove smettere di tremare.
Non parliamo degli attivisti. O meglio: non proprio. Parliamo di chi al confine ci è nato, ci è cresciuto, o semplicemente ha deciso di viverci. Parliamo di chi, di fronte a tanta disperazione, ha deciso di non voltarsi dall’altra parte. Di non fare finta di niente. “Non abbiamo avuto scelta. Questa cosa ci è arrivata addosso come uno tsunami, e noi non abbiamo potuto fare altro che aiutare. È stata una guerra. C’è stato un momento in cui mi sentivo in colpa ad abbracciare i miei figli. Mi sentivo in colpa nei confronti dei bambini che vedevo nella foresta, spaventati, e che io non potevo abbracciare. Così ho smesso di farlo anche con i miei”, ci ha confessato una donna mentre lottava contro le lacrime che iniziavano a gonfiarle gli occhi.
Non abbiamo potuto fare altro che aiutare. È stata una guerra.
I migranti in arrivo da altre guerre
A partire da agosto 2021, infatti, migliaia di migranti si sono riversati al confine tra Bielorussia, Polonia, Lituania e Lettonia grazie alla concessione dei visti turistici da parte del governo di Minsk. Si tratta di persone provenienti da Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan, ma anche Senegal, Ghana e perfino Cuba. Uomini, donne, bambini senza una vera e propria destinazione se non quella di riuscire a entrare nell’Unione europea. Di crearsi un futuro che diversamente non potrebbero avere.
“In tre settimane ho fatto più di dieci interventi. Alcuni anche di quattro ore. Dopodiché ho dovuto smettere. Non riuscivo più a dormire, a mangiare. Sono dovuta andare all’ospedale per farmi aiutare: è stato troppo per me”. La situazione, in certi casi, si è rivelata insostenibile. “Si sentivano continuamente le sirene della polizia passare, i mezzi militari sulle strade. Sembrava di essere in guerra. Anzi, eravamo e torneremo in guerra. La crisi non è finita. Ora viviamo un periodo di pausa per colpa del freddo. Con l’arrivo della primavera tutto rincomincerà, anche perché l’India e la Russia stanno prendendo accordi che porteranno le persone verso l’Unione europea”, ci dicono, ricordandoci di voler rimanere anonime.
Con l’arrivo della primavera tutto rincomincerà.
Raccontare cos’hanno visto, come sono intervenute, infatti, può portare loro numerosi problemi con le forze dell’ordine: alcuni hanno oltrepassato la zona interdetta per fornire assistenza. Hanno portato fuori i rifugiati, hanno dato loro un posto in cui riposarsi.
Nonostante il clamore mediatico, mentre si viaggia sul confine è difficile notare delle lanterne verdi, quelle luci diventate simbolo della disponibilità ad aiutare i migranti. “Per noi che abitiamo qui sono una trappola: accenderla significa avere un posto di blocco fisso di fronte a casa”. E questo è proprio quello che è successo a una delle donne che abbiamo incontrato. Ci ha fatto vedere la sua e poi, uscendo di casa, forse per distrazione, l’ha lasciata accesa. Al suo rientro la polizia la stava aspettando. “Cosa ci fate qui? Non c’è mai stato un posto di blocco in questa zona”, ha chiesto alle guardie di frontiera. “Eseguiamo gli ordini”, è l’unica risposta che è riuscita ad avere.
Le lanterne verdi sono diventate simbolo della disponibilità ad aiutare i migranti.
Ogni volta che ci sediamo nei salotti dei cittadini e iniziamo a chiacchierare, la paura di rispondere diventa palpabile. Molti nascondono i propri cellulari in delle scatole di ferro, timorosi di poter essere in qualche modo ascoltati, spiati. Sanno di aver agito in modo illegale in questi mesi, sanno quello a cui potevano andare incontro.
Ma nonostante questo non hanno mai smesso: “Se le persone muoiono dietro casa tua tu devi aiutarle: non c’è scelta. È semplice”, ci racconta Kasia Wappa. “Non siamo eroi o qualcosa del genere. È una questione di necessità. Vedi così tanta sofferenza, vedi le persone nascondersi, scappare, morire. E tu fai quello che puoi. Delle volte io e i miei amici abbiamo portato a casa alcuni migranti in braccio, a causa delle loro condizioni. Mi sono chiesta cos’avrei fatto se fossero morti nel mio salotto. Non è una situazione normale. C’è qualcosa di folle in ciò che abbiamo vissuto. Ogni volta che uscivo di casa mi sembrava di essere in un film. Molti di noi hanno sviluppato problemi con il cibo, con il sonno. Io piango continuamente. Alcuni cercano di nascondere le emozioni per farsi vedere forti, ma è impossibile. Quando vedi certe cose è impossibile rimanere fermi”. Mentre Kasia parla la sensazione è quella di essere tornati indietro di settant’anni, quando si nascondevano gli ebrei dai nazisti.
Se le persone muoiono dietro casa tua tu devi aiutarle.
Immaginate una mattina di svegliarvi e di vedere il vostro paesino, un paesino da 2.760 abitanti, completamente militarizzato, senza un reale motivo. Di non poter più vagare liberamente tra la foresta che vi ha sempre concesso attimi di fuga dalla quotidianità. Quando ci si incammina tra gli alberi, in particolare in inverno, sembra di entrare in una valle incantata. Non esistono rumori. La luce si intrufola timida tra i rami delle piante. La neve accarezza il terreno. Un’immagine quasi fiabesca, se non fosse che proprio lì, lì dove le persone erano abituate a passare il proprio tempo, ora muoiono di freddo i migranti.
Bialowieza è una meta turistica. A causa della zona interdetta, creata per “proteggere” il Paese dai migranti in arrivo, però, oggi i cittadini si trovano in seria difficoltà. Le visite sono completamente bloccate, gli alberghi hanno le serrande abbassate, e i pochi rimasti aperti sono pieni di forze dell’ordine. Le porte dei ristoranti sono chiuse. Nella strefa nessuno entra e nessuno esce. Per strada passano quasi esclusivamente i mezzi militari. Sui marciapiedi camminano i soldati e la polizia. “Come si fa a vivere così? Ci sono più militari che abitanti”.
Ci sono più militari che abitanti.
E non parliamo solamente di Bialowieza, bensì anche di tutti i villaggi che si trovano lungo i 450 chilometri che confinano con la Bielorussia. Lì le notti si sono tradotte in ore di paura, di tensione. Il timore di aiutare le persone che si nascondono tra gli arbusti è diventato un sentimento fisso, soprattutto per il dubbio che possa tradursi in favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nei villaggi tutti si conoscono, ma nessuno parla di cosa fa al proprio vicino. Vige il silenzio, anche se alle volte qualche chiacchiericcio c’è.
Qualcuno ha ammesso di non aver mai avuto il coraggio di soccorrere nessuno perché aveva sentito dire che se lo avesse fatto, sarebbero andati a bruciargli la casa. Al contrario, sono stati proprio i migranti ad aiutarlo: prima di riprendere il viaggio gli hanno lasciato in giardino dell’acqua e degli alimenti. Probabilmente ciò che qualche volontario aveva consegnato loro, e che non erano riusciti a consumare nella fretta di ripartire.
Se da una parte, quindi, le persone si sono mobilitate per aiutare chi si trovasse in difficoltà, mettendo a rischio se stessi e soprattutto la loro salute mentale, dal governo polacco non è successo lo stesso. Anzi, Varsavia sta facendo in modo di lanciare il messaggio che il Paese farà di tutto per “proteggere” i propri confini e i propri cittadini da questa “pericolosa invasione”. Eppure, nel giro di sei mesi sono arrivati circa 15mila migranti. Si può parlare di tante cose, ma sicuramente non di invasione. L’unica vera crisi che la Polonia sta affrontando è quella che evidenzia la mancanza di umanità dimostrata dalle istituzioni.
E lo fa anche oggi, quando si mostra un Paese accogliente con i profughi ucraini, mentre abbandona tutti gli altri. Il simbolo di un’Europa che sceglie di chiudere le proprie porte a chi non ritiene abbastanza degno di aiuto. Cosa ne sarà dei profughi abbandonati lungo il confine bielorusso? E di coloro che, per aiutarli, oggi sono traumatizzati? Come spiegheranno la selezione che stanno mettendo in pratica? Servirebbe più umanità per risolvere la situazione, la stessa mostrata con i profughi ucraini. Perché il prezzo che i cittadini e i migranti stanno pagando è destinato ad alzarsi sempre di più. Esattamente come il muro che li dividerà.
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