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La Milano verde secondo il “progettista urbano” Giuseppe Marinoni
Milano è detta “la verde” per l’insieme dei progetti, dai parchi agricoli alla forestazione urbana, che la rendono oggi un caso unico nel panorama italiano. L’intervista all’architetto Giuseppe Marinoni.
Giuseppe Marinoni, architetto e progettista urbano, ha pubblicato Milano la verde, il libro dove analizza le pratiche che hanno contribuito all’evoluzione della forma urbana di Milano dagli anni Settanta ai nostri giorni. Appassionato di strategia di progettazione della città e della relazione fra spazi aperti e costruito, dopo il dottorato in Progetto e politiche urbane ha vinto, con Pierluigi Nicolin, il concorso per l’area Garibaldi-Repubblica ed è stato coinvolto dal Comune di Milano per realizzare il masterplan di base, il piano attuativo dell’area di porta Nuova. Lo abbiamo incontrato per parlare dei progetti del verde di Milano e della forma della città futura, due temi strettamente connessi.
Quali sono le caratteristiche della figura del progettista urbano rispetto all’architetto urbanista?
Più che un architetto e un urbanista mi definirei un “progettista urbano”, una figura che all’estero è abbastanza diffusa e ha una sua specificità, mentre da noi in Italia si muove un po’ tra le discipline dell’architettura e dell’urbanistica senza una sua precisa identità. Il progettista urbano è colui che pensa alla città in termini di spazi aperti e pensa di darle forma a partire proprio dall’idea di concepire lo spazio aperto sia come pubblico sia come privato. Quindi, in un certo senso, gli edifici che devono avere una particolarità architettonica devono rispondere a una serie di principi insediativi, affinché si possa costruire lo spazio aperto.
Nella tradizione anglosassone c’è lo urban designer, anche se questo parte dalla messa in forma degli edifici, mentre la tradizione europea diffusa in Francia, Germania, Olanda è quella di partire dalla definizione degli spazi aperti. Mi riconosco di più in questo approccio, e soprattutto nel concepire un progetto urbano come un progetto flessibile. Non si definisce la forma degli edifici, ma si definiscono dei principi che poi serviranno da guida alla concezione di edifici che saranno ideati da architetti diversi sotto la regia progettuale in genere svolta dal progettista urbano, che diventa il coordinatore di queste parti di città.
Milano è “la verde” ma, secondo lei, manca una visione complessiva del progetto della città che c’è al contrario c’è in altre realtà europee. Perché?
A Milano manca una visione complessiva della città, benché sia la punta di tutto ciò che sta avvenendo in Italia. O meglio, di ciò che in tutte le altre città, eccetto forse Torino, non sta avvenendo; un po’ perché non c’è un mercato immobiliare interessante come c’è a Milano, un po’ perché gli attuali attori della trasformazione urbana sono gli investitori e sia quelli stranieri che quelli italiani considerano Milano come l’unica piazza interessante su cui investire.
Il problema della carenza della visione strategica non è solamente milanese, ma prevalentemente italiano, legato a come si concepisce la disciplina urbanistica. Ancora oggi, intendiamo l’urbanistica come strutturazione delle norme. Tutte le leggi, sia centrali che regionali, cercano di promuovere i piani regolatori o, come si chiamano in Lombardia, i pgt (piani di governo del territorio) come degli elementi normativi su cui decidere le sorti della città. Negli altri Paesi avviene in modo diverso: c’è un’urbanistica strategica o di controllo qualitativo delle trasformazioni. Strategica nel senso che esprime dei contenuti espressi dalle politiche urbane, dove deve andare una certa città, e questo si coniuga con i progetti urbani, come e in che forma quest’idea politica alta deve declinarsi all’interno delle forme della città, cioè spazi aperti e spazi urbani.
Un esempio di cos’è una politica urbana: Francoforte, una città non particolarmente bella che negli anni Ottanta era ancora molto segnata dalle ricostruzioni malfatte del periodo postbellico. L’amministrazione decise che la città doveva diventare la piazza finanziaria dell’Europa continentale. Alla fine in parte ci riuscirono. Attrassero le banche, la Banca centrale europea. La città non è riuscita a vincere la competizione con Londra, che rimane la piazza finanziaria più importante a livello Europeo e mondiale, ma è diventata un centro finanziario di rilievo. Per realizzare quell’obiettivo occorreva che la città, fino ad allora poco più di una piccola cittadina della provincia tedesca, cambiasse immagine. Vennero costruiti in quegli anni circa duecento grattacieli, un po’ seguendo il modello di Manhattan e un po’ di Canary Wharf, che si stava allora costruendo a Londra. Sono stati attuati progetti politici e urbani che convergevano nel garantire alla città un salto di qualità nei suoi aspetti di attrattività internazionale, di immagine e di qualità architettonica.
Questa è la differenza. Francoforte ha attuato dei progetti perché l’idea si realizzasse, non solo delle leggi e delle norme come sarebbe stato fatto in Italia. Quello che manca da noi è dare valore strategico al progetto urbano come elemento su cui basare le alte politiche urbane compito delle amministrazioni, ma nello stesso tempo riflettere sulle forme della città.
Quindi è necessario avere a monte un progetto politico chiaro di cosa deve diventare la città prima di pensare alla sua forma?
La forma della città diventa espressione delle forme delle politiche.
Che cosa diventerà Milano nei prossimi trent’anni e che forma vorrà prendere?
Non possiamo sempre pensare che la forma di Milano sia in un certo senso un prodotto quasi casuale di diversi investitori che una volta vogliono costruire alto, una volta basso, una volta poi fanno il braccio di ferro con l’amministrazione per decidere se mettere più o meno verde. Occorre che ci sia un progetto anche della forma, che esprima simbolicamente quei valori.
Questo a mio parere non sta ancora avvenendo. Se guardiamo il nuovo pgt 2030 sono unicamente delle intenzioni e, spesso, ruotano intorno a questa moda per così dire “verdolatrica”: se parli di verde tutto va bene e se invece parli di forma della città, che in parte deve avvenire anche attraverso il costruito, allora si scade subito nell’immobiliare. La città si deve fare anche con le risorse degli investimenti immobiliari guidati. Purtroppo questo a Milano non si vede ancora.
È un problema di definizione economica?
Non solo, è anche simbolico e di progetto. Cosa vuole diventare Milano tra venti o trent’anni? A Milano c’è la moda, il design, la farmacologia, la città della salute. Milano è tante città, è la capitale dell’editoria e dell’economia in Italia, ha molte sfaccettature. Bisognerebbe capire come cogliere queste opportunità e rilanciarle nella compagine internazionale. Ciò è avvenuto in un modo quasi casuale perché gli investitori sono interessati a Milano. Ci sono fondi di investimento privati, pubblici, esteri che vogliono investire centinaia di milioni. Sarebbe un’opportunità se questo potesse convogliarsi all’interno di una visione di rilancio simbolico e strategico della città pensando ai suoi confini allargati. Per ora la città metropolitana è ancora un fantasma. Se si innescasse tutto questo all’interno di una visione simbolica della città potrebbe essere un’occasione per ripensare alla visione della città nel suo insieme. Quello su cui insisto è che le alte politiche si devono intrecciare con l’idea di dare forma alla città, con la morfologia urbana e la progettazione qualitativa della città.
L’idea pubblica non può passare attraverso le proposte occasionali che fanno i privati, che diventano le “macchie di leopardo” di cui parla Gian Arturo Ferrari nel libro, che però alla fine fanno scomparire la figura del leopardo. Dipende da un fatto di cultura generale. Da una parte in Italia c’è ancora l’idea che l’urbanistica si faccia con le norme. Così si regola la fisiologia della città ma non si dà forma alla città, che è possibile realizzare solo se si formulano visioni strategiche.
Molte città europee parlano di obiettivi strategici delle città da qui al 2050. Spesso, soprattutto nelle città che si sono dilatate su scala metropolitana come Parigi o Amsterdam, le politiche urbane sono legate anche alle trasformazioni infrastrutturali, quindi capire come si evolve e si implementa il sistema dei trasporti pubblici. Occorrono dei progettisti urbani, non solo architetti che costruiscono gli edifici e urbanisti che pensano che il problema sia regolamentare la città attraverso norme e leggi.
Nel suo libro Milano la verde si parla della recente riscoperta dell’acqua che la città per molto tempo sembrava aver dimenticato…
Oggi Milano, città d’acqua, che pur galleggiando su canali e fontanili, per oltre un secolo sembrava aver dimenticato la sua natura irrigua, ha riscoperto l’acqua come bene da salvaguardare e preservare. Non a caso in questi ultimi anni agli interventi di forestazione urbana e di preservazione del verde, inaugurati con Boscoincittà, si sono aggiunti progetti legati ai temi dell’acqua. Reinterpretando in termini poetici anche questioni pratiche legate alla regolazione dei flussi dei corsi d’acqua e delle sorgive, si sono creati veri scenari paesaggistici come il parco delle Cave, capace di rovesciare un territorio depauperato da un’attività estrattiva praticata negli anni passati senza la necessaria sensibilità ambientale, in un paesaggio di certo inedito in prossimità del centro di Milano. E questa scoperta dell’acqua la troviamo poi anche nelle recenti realizzazioni su progetto di Carlo Masera al parco Nord. Dove bacini d’acqua artificiali più ampi di Milano – dopo lo storico Idroscalo – contribuiscono a regolare le acque del fiume Seveso e al contempo sollecitano nuovi usi e rinnovano l’immagine paesaggistica.
Anche la trasformazione in positivo del fenomeno degli orti urbani è un dato interessante…
Da elementi abusivi che per anni hanno contribuito al degrado di aree residuali e frange infrastrutturali, nella contemporanea concezione, si contraddistinguono, anche grazie a una progettazione di qualità e a una gestione sapiente dei processi di autocostruzione, come elementi di qualificazione paesaggistica e di rigenerazione sociale di ampie porzioni di parchi.
Ci sono pareri diversi sul progetto per la trasformazione degli scali ferroviari: qual è la sua posizione?
L’indice edificatorio definisce quanti metri quadrati di superficie costruita si possono fare in relazione alla superficie territoriale: a Milano per il progetto degli scali ferroviari abbiamo un indice generalizzato dello 0,5 (molto basso). In città come Parigi, Amsterdam, Londra, o anche più piccole della scala di Milano come Barcellona, Monaco, Colonia sugli scali ferroviari in genere si concentrano alte volumetrie, circa quattro volte gli indici edificatori degli scali milanesi. Per il semplice motivo che gli scali sono già ampiamente infrastrutturati trovandosi in genere in centro città per la loro origine storica e inglobati dall’urbanizzazione; ci arriva il treno, sono collegati con il sistema dei trasporti; per tutta una serie di vicissitudini ci arriva anche la metropolitana quindi sono interrelati al sistema dei trasporti urbani. In generale gli scali di tutti le città per come si sono evolute sono quei luoghi maggiormente raggiungibili dal sistema del trasporto pubblico sia urbano che extra urbano. Inoltre sono aree che stanno all’interno dell’urbanizzazione.
Secondo me si dovrebbe adottare un indice edificatorio superiore. In Europa abbiamo dei casi dove si sono costruite delle parti di alta qualità della città negli ultimi vent’anni in cui l’indice edificatorio è di quattro o cinque volte superiore rispetto a quello di Milano. Forse, per gli scali, sarebbe stato più saggio seguire l’esempio di queste città straniere. Sono parti di città già in costruzione, quindi si possono valutare i benefici morfologici e sociali di tali esiti: esempi virtuosi di nuove centralità concepite con i criteri della città compatta, dove una ricchezza morfologica consentita da una progettazione urbana, architettonica e paesaggistica di qualità permette di generare spazi urbani come viali alberati, piazze, parchi e giardini.
Città compatta ad alta densità fisica e ad alta intensità sociale e di usi, nella mescolanza di funzioni: residenza, uffici, commercio, istituzioni pubbliche, università e monumenti contemporanei. Questi esempi virtuosi si sarebbero potuti agevolmente applicare anche a Milano, pensando la sua trasformazione nei prossimi decenni, anche nell’ipotesi di una sua crescita futura in abitanti e city users – se valgono anche per Milano le previsioni di crescita riferite alle grandi città europee e mondiali.
Qual è la sua visione dello sviluppo della città nei prossimi anni?
La proiezione di molti studi è che nel 2050 la popolazione mondiale sarà per il 70 per cento nelle città. Dobbiamo pensare che queste città devono crescere in numero di abitanti e se non si vuole allargare il perimetro della città bisogna per forza densificare la città costruendo nei cosiddetti brown fields, che sono aree dismesse, industriali che a Milano non ci sono quasi più, tranne le caserme e gli scali. Se pensiamo negli scali di fare solo verde e qualche volumetto allora non pensiamo con lungimiranza a una crescita eco-sostenibile.
Un modo ecologico è fare sì che le persone vivano più concentrate, lavorino dove vivono e trovino quello che serve per la vita in generale, il tempo libero, lo svago nella città e si possano muovere il meno possibile. Si dice che le città sono energivore, ed è vero, ma l’energia, i consumi e l’inquinamento sono più dovuti agli spostamenti. Per gli urbanisti quello che consuma maggiormente energia è il cosiddetto sprawl (fenomeno urbanistico connotato dalla crescita rapida e disordinata delle aree della città), villette disseminate dappertutto, per intenderci quello che è avvenuto negli anni cinquanta in America. È consumo di suolo ma anche un modello energivoro di consumo del territorio. Quindi bisogna concentrare gli abitanti della città. Per gli scali sarebbe una visione strategica concentrare un’alta volumetria lì per poter preservare il territorio intorno. Gli studi scientifici stanno, invece, dimostrando che i grandi parchi di cintura se sono collegati al sistema dell’agricoltura e ai grandi parchi territoriali contribuiscono a riequilibrare l’ecosistema terrestre, mentre i giardini urbani servono più che altro alla popolazione per migliorare la qualità della loro vita quotidiana.
Qual è la sua opinione sulla forestazione urbana?
L’idea della forestazione urbana arriva prevalentemente dalle megalopoli asiatiche che superano i dieci o più milioni di abitanti. Qui la distanza tra un ipotetico centro baricentrico e la campagna che sta attorno è di trenta o più chilometri. È chiaro che lì le opere di forestazione urbana hanno un senso perché si cerca di ricavare delle ampie porzioni verdi non edificate all’interno di un tessuto super compatto. È un po’ come dire Central park nei confronti di Manhattan che è lunga venti chilometri per dieci. È chiaro che senza Central park non avrebbe niente di verde. Ma a Milano da piazza del Duomo al parco Sud agricolo Milano, che è uno dei parchi agricoli più grandi d’Europa, ci sono quattro chilometri, altrettanto poca distanza dal parco Nord Milano, dal Boscoincittà, dal parco Forlanini. Questi sì veri “polmoni verdi”, che per la loro estensione e continuità fisica con la campagna attorno e il sistema dei parchi regionali contribuiscono veramente al riequilibrio ambientale, migliorando il microclima della città metropolitana e concorrendo alla diminuzione dell’effetto serra del Pianeta.
Il problema è dunque far in modo di preservare sempre più le aree agricole del parco Sud ma per preservarle, se devo far crescer comunque la città, questi volumi li devo mettere da qualche parte, quindi a mio parere è molto meglio costruire di più nello scalo di porta Romana che sta a due chilometri dal Duomo e da due dal parco Sud che non nel parco Sud. Per preservare tutte le frange inedificate intorno alla citta, dal parco Nord al parco Sud, bisogna concentrare il costruito all’interno.
Boscoincittà può essere considerato il prototipo di “forestazione urbana”: l’obiettivo è di realizzare grandi superfici boscate nelle aree periurbane, con tecniche di coltivazione che consentono di limitare i costi, sia di realizzazione che di gestione. Sono aree spesso sottratte all’attività pianificatoria come aree protette, o spazi marginali e periferici considerati poco appetibili per o sviluppo immobiliare.
Cosa manca dunque a Milano?
La città deve poter crescere per avere più abitazioni accessibili a più strati di popolazione. Quello che adesso manca a Milano è l’abitazione per il ceto medio. C’è il social housing e poi ci sono le case di lusso. Mancano abitazioni a tremila euro a metro quadro per lo strato della popolazione media. Bisogna dunque pensare a dei nuovi brown fields (terreni non attualmente in uso), che indico nel libro, legati all’idea di urbanizzare gli svincoli delle tangenziali e delle autostrade. Questa può apparire come un’idea marziana. Ma arriva da Parigi, Londra, Amsterdam. Gli svincoli, costruiti generalmente negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati oramai inglobati nell’urbanizzazione e hanno vicino il sistema di infrastrutture, trasporti e parchi territoriali. Se occorre pensare a una nuova centralità queste sono aree prevalentemente pubbliche interessanti da considerare.
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