Per abbattere l’impatto ambientale dell’agricoltura, il governo della Danimarca ha deciso di convertire in foreste il 10 per cento dei campi coltivati.
La comunità del Mozambico che conduce da sola la sua battaglia contro il carbone
Dal 2011 una miniera di carbone intossica la città di Moatize, in Mozambico. La popolazione si è organizzata con il monitoraggio ambientale per rivendicare i propri diritti.
con il contributo del fotografo Stefano Sbrulli
Nel nordovest del Mozambico c’è una città dove se si lascia una pannocchia di mais fuori dalla finestra, dopo qualche giorno diventa nera. La polvere impiega pochissimo tempo a offuscare le sue sfumature gialle, dandole lo stesso colore cupo di tutto il paesaggio attorno, come i tetti, le strade, il cielo. La fuliggine arriva da una miniera di carbone gestita dalla società brasiliana Vale S.A, uno dei siti più grandi del mondo. Sempre più persone in città si stanno ammalando, soprattutto di asma e cancro ai polmoni, senza che vi sia una motivazione accertata.
“La vita qui è difficile”, spiega Vicente, uno degli abitanti di Moatize, “le persone stanno male a causa della vicinanza della miniera, la comunità protesta continuamente per la qualità dell’aria”. Dimostrare l’ovvio, cioè che la causa di tutti i problemi stia proprio nelle modalità di estrazione del carbone, non è però semplice. Le analisi sugli agenti inquinanti sono lunghe e costose, nell’area manca personale formato sul tema della contaminazione ma anche del diritto ambientale. Gli abitanti di Moatize hanno allora deciso di organizzarsi da soli per far valere la loro causa, grazie anche all’aiuto di alcune organizzazioni non governative.
Moatize, una comunità stravolta dal carbone
C’è un prima e un dopo carbone a Moatize. Questo piccolo centro di 40mila abitanti scarsi della provincia di Tete, nella regione nordoccidentale del Mozambico, ha sempre avuto un’economia di sussistenza, fondata sull’agricoltura, l’allevamento e la pesca. In un paese dove quasi la metà dei 29 milioni di abitanti si trova sotto la soglia di povertà, Moatize costituisce una delle aree più critiche da questo punto di vista. Se già quindi i suoi abitanti non se la passavano bene, quanto successo a partire dal 2006 non ha fatto altro che rendere più difficile la loro condizione.
Nel 2006 il gruppo brasiliano Vale S.A ha ottenuto le concessioni per sfruttare una miniera di carbone su un terreno di 23mila ettari. Il problema è che su quest’area si trovavano centinaia di case, che sono state demolite, mentre oltre 1.300 famiglie sono state trasferite forzosamente in altri quartieri. Le nuove abitazioni si sono rivelate un incubo per molti, tra la distanza dal fiume, i terreni non coltivabili e risarcimenti promessi e mai arrivati. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Nel 2011 la società ha acceso gli impianti e i colori e i suoni di Moatize sono cominciati a cambiare. Montagne di carbone oggi oscurano l’orizzonte cittadino, le esplosioni fanno tremare quotidianamente i muri delle case, ricoperte di crepe, mentre un esercito di uomini e mezzi va e viene dagli impianti.
Intanto l’area sotto il controllo della multinazionale brasiliana ha continuato a crescere, con l’apertura di nuovi impianti. Le previsioni di produzione per il 2020 per la miniera sono di 15 milioni di tonnellate, contro gli 11,7 milioni del 2017. Alla Vale S.A da anni sottolineano come l’attività estrattiva sia un volano economico per il territorio, dal momento che offre lavoro ai suoi abitanti e genera ricchezza. In realtà, un’intera città si sta ammalando senza che la società prenda provvedimenti.
Un decennio di polvere
“La miniera è molto vicina all’area abitata dalla popolazione. A causa delle attività che portano avanti lì dentro, una parte delle particelle si disperde nell’aria e le persone corrono un rischio sanitario molto alto”. A parlare è Daniel, un abitante di Moatize. I tetti, i balconi, le strade, i pavimenti, tutto in città è ricoperto da uno strato perenne di polvere di carbone, soprattutto durante i sei mesi della stagione secca. Le verdure che finiscono in tavola, così come i pesci, hanno un colore nerastro perchè ricoperti di polvere, mentre anche i corsi d’acqua non vengono risparmiati. Gli abitanti di Moatize, intanto, continuano a respirare aria tossica.
I limiti giornalieri per le polveri sottili stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sono 50 ug/m3 per i PM10 e 20 ug/m3 per i PM2,5. A Moatize nei mesi secchi si registrano valori quotidiani di 104 ug/m3 di PM10 e 94 ug/m3 di PM2.5. Durante le esplosioni nella miniera i valori sono saliti fino a 310 ug/m3. La quantità totale di particolato registrata è sempre superiore ai 200 ug/m3 e raggiunge addirittura i 500 ug/m3 in alcuni giorni. Sono valori paragonabili con quelli di ambienti chiusi di lavoro, un po’ come se la popolazione di Moatize lavorasse in miniera tutti i giorni.
“Se vogliamo fare un confronto per comprendere la situazione a Moatize, basti pensare che i livelli di inquinamento lì sono 20-30 volte peggiori rispetto a quelli di Taranto, dove si trova l’ex Ilva. Si tratta di una situazione veramente critica, la popolazione respira polvere di carbone 24 ore su 24, per sei mesi all’anno, quando non c’è la stagione delle piogge”, sottolinea Flaviano Bianchini, direttore di Source International, ong che difende i diritti delle comunità davanti alle multinazionali estrattive. A Moatize c’è stato per la prima volta nel marzo del 2019. “Il dialogo con l’azienda finora ha prodotto scarsi risultati, le istanze della popolazione locale non sono mai state prese in considerazione. La produzione va avanti senza che vengano presi provvedimenti, cavalcando l’onda del ricatto dei posti di lavoro. È un po’ l’eterno dilemma, occupazione da un lato e inquinamento dell’altro”.
Nè l’azienda nè il governo del Mozambico, in effetti, hanno mai fornito informazioni alla comunità di Moatize sull’impatto ambientale e sanitario dell’attività di estrazione. Una mancanza che, insieme all’assenza di membri della comunità nelle discussioni relative allo sfruttamento delle risorse naturali del posto, costituisce una violazione dei diritti umani così come riconosciuti su scala nazionale e internazionale.
La via dell’auto-organizzazione
Il problema di Moatize è doppio. C’è la coltre nera che copre tutta la città, ma c’è anche la difficoltà della comunità locale a dimostrare, al di là dell’impatto visivo, che la miniera sta intossicando il centro urbano e che esiste una correlazione tra l’attività estrattiva e la crescita di casi di asma e tumori, soprattutto ai polmoni. Le analisi sulla qualità dell’aria, sull’inquinamento delle acque e degli alimenti e sulle malattie che ne derivano richiedono tempo, personale esperto e tante risorse. Anche mettere in piedi una class action per far valere i propri diritti richiede competenze apposite. Tutto questo a Moatize mancava, almeno fino a qualche mese fa.
Per sbloccare la situazione critica, la ong Source International, assieme al Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) e all’Agenzia svedese per la protezione dell’ambiente (Sepa), si sta adoperando sul territorio con il suo personale esperto per insegnare agli abitanti le attività di monitoraggio ambientale. “In questi anni abbiamo sviluppato strumenti per la raccolta dei dati di facile utilizzo, così che possano essere maneggiati dalle comunità senza troppi problemi”, sottolinea Bianchini, che dà un nome preciso a questa pratica: community monitoring. “L’obiettivo è che dopo un periodo di formazione e qualche mese di affiancamento con il nostro personale, la popolazione arrivi a effettuare il monitoraggio ambientale in modo autonomo, senza dipendere da enti esterni”.
In questi mesi la popolazione sta prendendo confidenza con i parametri relativi alla qualità dell’acqua e dell’aria, così da prelevare campioni da mandare in laboratorio. Ma non finisce qui, perché l’insegnamento investe anche il lato legale, dal momento che gli abitanti vengono formati su quelli che sono i loro diritti e su come farli valere alla luce dei dati che emergono dalle loro rilevazioni. “Ho imparato molte cose di cui non ero a conoscenza”, sottolinea Daniel, uno dei circa 60 abitanti coinvolti nel training, “per esempio quando parlavamo del materiale particolato, ho scoperto che in realtà le mie conoscenze a riguardo erano sbagliate”. Gli fa eco Vicente, un altro abitante: “è come una scuola, grazie alla quale possiamo portare i nostri rilevamenti e confrontarci con tutti gli altri con una solida base di dati”.
Pensare che un’azienda come quella che opera nella miniera di Moatize possa interrompere le proprie attività, dopo tutti i soldi che ha investito, è utopico. Ma non è questo l’obiettivo. “È possibile e credibile che per via del nuovo atteggiamento dei cittadini e del lavoro delle comunità, la multinazionale possa decidere di investire risorse per ridurre il suo impatto ambientale”, sottolinea Bianchini. Qualcosa che è già successo altrove, come in Messico, in Perù e in Guatemala, dove il training di Source International ha portato a risultati concreti in termini di riconoscimento dei diritti dei cittadini. “Credo che il community monitoring sia la chiave del futuro”, spiega Bianchini. “L’inquinamento a livello locale è molto diffuso e pensare che ovunque ci siano istituzioni internazionali ed enti che se ne occupino non è realistico. La soluzione può essere allora quella di dare a tutti la possibilità di effettuare monitoraggio ambientale per far valere i propri diritti. Ci vorrà molto tempo perché ciò avvenga su scala massiva, ma si tratta di un tema sempre più di attualità”.
“L’inquinamento a livello locale è molto diffuso e pensare che ovunque ci siano istituzioni internazionali ed enti che se ne occupino non è realistico. La soluzione può essere allora quella di dare a tutti la possibilità di effettuare monitoraggio ambientale per far valere i propri diritti”.
— Flaviano Bianchini, direttore Source International
Il caso Moatize potrebbe insomma fare scuola. Decine di cittadini impegnati nel monitoraggio ambientale in modo indipendente, così da far valere i propri diritti davanti a una multinazionale estrattiva incapace fino a ora di ascoltarli. Che processi di questo tipo possano essere un metodo efficace per la lotta all’inquinamento e per tutelare le comunità, se ne sono accorti anche alle Nazioni unite. Presto pubblicheranno una guida open-source e multilingue sul community monitoring, redatta da Source International, perchè si replichi un po’ in tutto il mondo quanto sta avvenendo a Moatize. Può essere l’inizio di una piccola rivoluzione ambientale, in cui ogni cittadino reciterà il ruolo da protagonista.
Stefano Sbrulli, fotografo e documentarista, è stato a Moatize nel 2019 nell’ambito del progetto di monitoraggio partecipativo realizzato da Source International e promosso dall’Undp e dall’Agenzia svedese per la protezione dell’ambiente.
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