Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
La moda deve ricucire il rapporto con le comunità indigene
Casi di appropriazione creativa e di rapporti sbilanciati nella fornitura di materie prime rendono sempre più urgente parlare di “sostenibilità culturale”.
- Nella moda non mancano episodi di “appropriazione culturale” da parte di grandi brand o designer nei confronti di diverse popolazioni indigene e locali, senza che ci sia alcun consenso, credito e compenso.
- Sono spesso sbilanciati anche i rapporti tra aziende moda e popolazioni che forniscono materie prime, non di rado di alta gamma, come alcuni tipi di fibre o lane.
- Per questo sempre più studiosi ed esperti parlano di “sostenibilità culturale” per la moda.
- A maggio 2024 sono state pubblicate le prime linee guida di collaborazione con le comunità indigene specifiche per l’industria moda, che mirano a creare partnership alla pari con una visione a lungo termine accordata tra le parti.
Il rapporto tra moda e comunità indigene e locali sembra essersi scucito da tempo. L’ultimo strappo in ordine di tempo riguarda una camicia griffata Louis Vuitton che risulta incredibilmente simile nel taglio e nei ricami a una camicia tradizionale rumena (che dal 2022 è anche un bene culturale intangibile Unesco). Tanto che La Blouse Roumaine, un collettivo online dedicato alla promozione e tutela della suddetta blusa, si è fatto sentire fino a Parigi per ricevere il giusto credito. Non è la prima volta che la moda affronta un caso di cosiddetta “appropriazione culturale”, ovvero copia senza consenso un disegno, un pattern tessile, un accessorio parte della tradizione di una popolazione indigena o di una comunità locale, citando talvolta vaghe ispirazioni folk o bohemien.
Moda e comunità indigene e locali: il nodo della proprietà intellettuale
“L’unica cosa che voglio commentare in relazione a questo caso è che nel 2021 ho fondato proprio in Romania una ong chiamata WhyWeCraft, che supporta aziende nel creare partnership di conoscenza con i custodi dell’artigianato, per lavorare insieme in modo efficace e culturalmente sensibile, assicurandosi che non avvenga alcuna appropriazione culturale”, spiega Monica Boța-Moisin, rumena, avvocata e fondatrice della Cultural Intellectual Property Rights Initiative. “Lavoriamo sulla base di un quadro contrattuale che ho creato nel 2017 e che si chiama regola delle 3C. Le 3C stanno per: consenso (consenso libero, preventivo e informato dell’artigiano, della comunità indigena o locale), credito (riconoscimento della comunità di origine e dell’ispirazione) e compenso (monetario, non monetario o una combinazione dei due)”.
Moisin si è interessata fin da subito di proprietà intellettuale, e oggi mette insieme l’eredità delle sue due nonne: una era avvocata, l’altra era appassionata di tessitura, ricamo e merletto. “Volevo creare qualcosa che aiutasse i custodi dell’artigianato della comunità locali o indigene affinché potessero collaborare in partnership con i brand della moda, valorizzando la propria identità culturale e ricevendo il giusto credito e compenso. Nel 2018 ho fatto un master in Svezia specifico sul tessile e ho capito che il mio ambito sarebbe stata la sostenibilità culturale”. Da allora ha viaggiato in tutto il mondo, in Chiapas, Laos, India, Guatemala, Uganda, per entrare in contatto con le comunità indigene e locali e capire a fondo i legami con le culture e le tradizioni creative, per poterle tutelare al meglio.
Le prime linee guida di collaborazione tra moda e comunità indigene
Tanta è la rilevanza del tema, che a maggio 2024 al Global Fashion Summit a Copenaghen sono state presentate le prime linee guida di collaborazione con le comunità indigene specifiche per l’industria moda. Gli “Indigenous partnership principles for the fashion, apparel, and textile industries” sono stati creati dopo una lunga consultazione e il coinvolgimento diretto di rappresentanti indigeni da tutto il mondo, su richiesta delle ong Conservation International, specializzata in conservazione della natura e biodiversità, e Textile Exchange, una no profit con l’obiettivo di guidare la transizione sostenibile del settore tessile, con il sostegno del gruppo del lusso Kering. Il risultato sono 12 principi che invitano le aziende alla collaborazione trasparente, alla pari, al giusto compenso, a creare delle vere e proprie partnership, sia che si tratti di creatività, che di fornitura di materie prime, o di tessili e semilavorati.
L’industria moda ha, infatti, spesso costruito un rapporto impari con le comunità indigene e locali anche per quanto riguarda l’approvvigionamento di materie prime, talvolta molto preziose, come alcune lane: di recente un giornalista di Bloomberg ha svolto un’inchiesta sulle ombre del rapporto dell’azienda italiana Loro Piana, parte del gruppo francese del lusso LVMH, e una comunità delle Ande peruviane che fornisce loro la fibra di vigogna, un animale andino.
Cosa significa “sostenibilità culturale” e perché se ne parla
Uno dei maggiori studiosi di sostenibilità culturale e “decolonizzazione” del sistema moda occidente-centrico è l’italiano Francesco Mazzarella, originario di Agrigento, laureato al Politecnico di Torino, oggi docente (reader) in Design for social change al Centre for sustainable fashion della University of the arts London (il suo attuale progetto di ricerca si chiama proprio “Decolonising fashion and textiles”).
Lo intercettiamo appena prima di un suo viaggio in Vietnam e Australia, per visitare diversi progetti in corso in alcune comunità indigene e locali. “Mi sono sempre interessato di artigianato, ma la svolta è stata la tesi magistrale in Brasile, dove sono entrato in contatto con i processi di sviluppo sostenibile e di innovazione sociale focalizzati sulle comunità artigianali. Durante il mio dottorato mi sono concentrato su moda e tessile nello specifico, come veicoli per il cambiamento sociale“, racconta da Londra. “In ambito sostenibilità si citano sempre tre pilastri interdipendenti – persone, pianeta, profitto – ma in realtà alcuni studiosi ne aggiungono un quarto, la cultura. Per sostenibilità culturale si intendono quei sistemi tolleranti che identificano e promuovono la diversità del patrimonio culturale, delle credenze, delle pratiche, delle storie, in connessione con le persone e il territorio”.
Mazzarella, che lavora a stretto contatto anche con le comunità di rifugiati a Londra sempre in ambito moda e artigianato, ha un approccio volto “a ribaltare le dinamiche di insegnamento sulla sostenibilità dal nord al sud del mondo, per mostrare quanto possiamo imparare dalle comunità indigene e locali in termini di sostenibilità culturale e di resilienza comunitaria. Le comunità devono diventare parte attiva dei processi di sviluppo sostenibile e innovazione sociale e non essere trattati come semplici destinatari di strategie top-down”. Conclude sottolineando la necessità di una visione a lungo termine quando si parla di collaborazione con comunità indigene e locali: “Capita spesso che i designer si rechino personalmente in queste comunità per realizzare una collezione, magari con un progetto puntuale e temporaneo, ma se ne vanno senza innescare un impatto a lungo termine, anzi creando false aspettative sul futuro, senza sviluppare qualcosa insieme di più duraturo”.
L’attivismo dei creativi indigeni e la voce delle comunità locali
Dalle stesse comunità indigene e locali si alzano sempre di più voci di creativi e figure di leader che vogliono proteggere la propria eredità culturale e creativa nel tessile e nel design. Tra di loro, la designer brasiliana Dayana Molina e la nigeriana Nkwo Onwuka hanno entrambe collaborato alla stesura dei sopracitati “Indigenous partnership principles”, ma anche Carla Fernandez, che con il suo marchio vuole preservare e rivitalizzare il patrimonio tessile delle comunità indigene del Messico. Oppure, ancora, House of Tengri è un raro esempio di brand tessile che acquista fibre naturali di alta gamma direttamente da agricoltori e pastori, pagando loro prezzi competitivi e instaurando rapporti duraturi, in una catena di fornitura etica e trasparente.
Tra le diverse personalità, c’è anche Niha Elety, designer e attivista per la sostenibilità culturale. Nata a Hyderabad, nell’India centrale, a 11 anni si è trasferita con la famiglia negli Stati Uniti. Nel 2022 ha fondato il brand etico Tega Collective: “Il progetto è nato dall’esigenza di amplificare le voci delle comunità Adivasi (indigene dell’Asia meridionale) e il loro artigianato. Volevo collaborare direttamente con loro, perché vedevo che il loro lavoro creativo veniva riprodotto in massa da altre persone, senza alcun credito. In ogni collezione di abbigliamento collaboriamo con artigiani unici, mettendo in evidenza le loro fibre native, le tinture indigene, i modelli di tessitura a telaio e i simboli. Il 15% dei nostri proventi viene devoluto alle comunità con cui lavoriamo per ogni collezione, per eliminare la tradizionale gerarchia di potere e profitto. Il 3% dei profitti è devoluto a organizzazioni che sostengono la rigenerazione delle comunità indigene e le iniziative di restituzione della terra”.
Conclude Elety: “La sostenibilità culturale amplifica e trasmette le conoscenze e le pratiche culturali alle generazioni future, onorando le persone e il lavoro che ci hanno preceduto. Nella moda, l’artigianato tessile svolge un ruolo fondamentale nel preservare le eredità culturali e nel dare forma a identità culturali distinte attraverso l’abbigliamento tradizionale di varie comunità globali e gruppi indigeni. I marchi di moda possono collaborare con le comunità artigianali indigene come partner, invece di rubare il loro lavoro. Ciò significa collaborare con comunità che stanno già cercando di trarre profitto dal loro artigianato, orientarsi verso sistemi localizzati, ripristinare le pratiche di coltivazione delle fibre autoctone e l’uso degli indumenti, ampliare l’estetica che idolatriamo e fare i conti con il modo in cui valutiamo l’abbigliamento”.
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