Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Moda e biodiversità sono più legate di quanto sembri
Moda e biodiversità: qual è il loro legame e cosa si può fare affinché questo settore rispetti il delicato equilibrio del pianeta.
Siamo abituati a pensare che la moda e la biodiversità siano due concetti completamente distanti, ma non è affatto così. La biodiversità può essere definita come la ricchezza di vita sulla Terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera. A questa immensa varietà – che include anche l’abbondanza e l’interazione tra le diverse componenti del sistema – il settore tessile attinge costantemente. Un tema che diventa ancora più delicato per la moda di lusso perché particolarmente dipendente dalle materie prime di alta qualità, provenienti da sistemi naturali geograficamente limitati. E spesso fragili.
Cosa c’entra la biodiversità con la moda
Ci sono diversi modi attraverso i quali la moda ha a che fare con la perdita di biodiversità del nostro Pianeta. A cominciare dalla scelta delle fibre tessili: nel 2021 ne sono state prodotte 113 milioni di tonnellate in tutto, quasi il doppio rispetto a vent’anni prima, secondo Textile Exchange.
Il poliestere, da solo, rappresenta più della metà della produzione totale, cioè 61 milioni di tonnellate. È un materiale artificiale, fabbricato a partire dai combustibili fossili. E, di lavaggio in lavaggio, rilascia microplastiche che finiscono in mare (arrivando addirittura all’Artico). Si stima che il lavaggio dei capi sintetici sia la fonte addirittura del 35 per cento delle microplastiche primarie, cioè quelle rilasciate direttamente in mare e non derivate dalla frammentazione di oggetti più grandi.
Al secondo posto, con 24,7 milioni di tonnellate, c’è il cotone. Per accelerare la crescita della pianta, spesso si fa largo uso di prodotti chimici. Sebbene le coltivazioni di cotone occupino solo il 3 per cento dei terreni agricoli, quindi, si stima che consumino l’11 per cento dei pesticidi e il 24 per cento degli insetticidi usati nel mondo. Tra cui il famigerato glifosato, che diversi studi ritengono responsabile di una lunga lista di danni alla salute dell’uomo e degli ecosistemi, e i neonicotinoidi, dannosi per le api a tal punto da essere stati vietati nell’Unione europea.
Al terzo posto il poliammide, meglio noto come nylon, un’altra fibra sintetica prodotta – come il poliestere – dai combustibili fossili, con tutto ciò che ne consegue in termini ambientali.
Fuori dal podio, anche se di poco, con 5,8 milioni di tonnellate nel 2021, un’altra fibra sintetica, stavolta però cellulosica. Si tratta della viscosa, prodotta dalla polpa di legno degli alberi trattata con la soda caustica, una sostanza altamente corrosiva. Ogni anno, circa 120 milioni di alberi vengono abbattuti a tale scopo. Abbiamo citato dunque quattro fibre tessili, ciascuna con il suo impatto sul pianeta. Meritano poi un capitolo a parte le fibre animali, come lana, cuoio (che talvolta arriva dall’Amazzonia), seta, piume.
Quello descritto fin qui è soltanto il primo passaggio della lunga e intricata filiera che continua con la tessitura, la tintura, il finissaggio, il confezionamento del capo, il packaging; tanti passaggi che servono per trasformare queste fibre negli abiti che finiscono nel nostro guardaroba. Ogni stabilimento industriale si inserisce in un contesto già esistente, un contesto che può essere più o meno antropizzato, più o meno delicato (pensiamo per esempio alle fabbriche che sorgono vicino ai corsi d’acqua o aree protette). Una fabbrica può essere edificata da zero, consumando suolo; oppure può nascere dalla riconversione di uno spazio dismesso. Può scaricare in un fiume le acque reflue contaminate, o può adottare tecnologie avanzatissime per depurarle e reimmetterle nel ciclo produttivo.
Gli esempi potrebbero continuare ancora a lungo, perché le problematiche sono tante e per ciascuna si può intervenire in modo mirato. Per questo il Fashion Pact ha scelto la biodiversità come secondo pilastro.
La biodiversità nel Fashion Pact
Lanciato nel 2019 in occasione del summit del G7 a Biarritz, il Fashion Pact è un accordo volontario sottoscritto dalle principali aziende della moda a livello mondiale, tra cui il Gruppo Prada, Gucci, Chanel, Adidas e molte altre. Il suo obiettivo principale è quello di ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda, promuovendo pratiche sostenibili in tutta la catena del valore, ovvero le attività operative legate al processo di trasformazione delle materie prime in prodotti finiti e alla loro gestione.
Il Fashion Pact si concentra su tre aree principali:
- contrastare il riscaldamento globale attraverso un piano per azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050;
- ripristinare la biodiversità proteggendo gli ecosistemi naturali e le specie animali e vegetali che vi abitano;
- difendere gli oceani mediante iniziative concrete come la riduzione graduale della plastica nel packaging.
Il documento sottolinea quanto la biodiversità sia stata a lungo messa in secondo piano rispetto ad altri temi, primo fra tutti il riscaldamento globale. Ma l’attenzione cresce in fretta, tanto più perché la crisi climatica e quella della biodiversità sono due facce della stessa medaglia e vanno quindi affrontate insieme.
Nel concreto, i firmatari del Fashion Pact si sono impegnati a intraprendere due azioni. La prima è quella di mettere a punto un piano pensato ad hoc per il proprio business. Questa precisazione è fondamentale perché, come ricordato, due aziende dello stesso comparto possono avere filiere – e quindi impatti sulla natura – completamente differenti tra loro. “Questo passaggio fondamentale consentirà un’azione efficace progettando una strategia basata sulla scienza che delinea dove, perché e cosa devono fare le aziende per ottenere i risultati desiderati in termini di biodiversità”, si legge nel documento.
La seconda azione invece si focalizza sulle foreste che in passato sono state sacrificate per lasciare spazio ai campi di cotone, per esempio, oppure per ricavare la cellulosa da trasformare in viscosa o altre fibre simili. I primi firmatari del Fashion Pact si sono infatti impegnati nel supportare l’obiettivo deforestazione zero e di gestione sostenibile delle foreste, tutto questo entro il 2025.
Cosa può fare la moda per la biodiversità: l’esempio del Gruppo Prada
“Le specie vegetali e animali stanno scomparendo a un ritmo sempre più rapido a causa dell’attività dell’uomo. Assicurare un futuro prospero per il settore della moda significa quindi garantire un futuro agli ecosistemi naturali del Pianeta. Stiamo facendo la nostra parte per arginare questa perdita, promuovendo un cambiamento positivo e significativo”. A dirlo è Lorenzo Bertelli, a capo della Responsabilità sociale d’impresa del Gruppo Prada. Una realtà che, proprio sulla biodiversità, ha messo in campo un impegno declinato su tre pilastri.
Il primo, evitare e ridurre, si concentra sull’identificazione e la riduzione degli impatti negativi sull’ambiente. A cominciare dalle fabbriche, pensate seguendo i principi del design sostenibile e riqualificando (ove possibile) edifici già esistenti. L’esempio più distintivo di questo approccio è quello delle fabbriche giardino, progettate dall’architetto Guido Canali, di Montegranaro nelle Marche e di Montevarchi, Valvigna e Levanella (il polo logistico del Gruppo Prada) sul territorio toscano.
Questo pilastro include la diminuzione dell’impronta emissiva e dell’impiego di risorse e materiali inquinanti, di pari passo con un maggiore utilizzo di energie rinnovabili. Qui si inseriscono progetti dal grande successo, non solo commerciale. Come la collezione Prada Re-Nylon, frutto della collaborazione con l’azienda italiana Aquafil: al posto del nylon vergine, capi e accessori sono realizzati in Econyl, un filo di nylon che viene rigenerato a partire da reti da pesca, vecchi tappeti e scarti industriali. Questo materiale è autenticamente circolare perché, oltre a evitare il consumo di idrocarburi a monte, può essere ulteriormente riciclato senza alcuna perdita di qualità, grazie anche al sistema di recupero degli scarti di produzione gestito dallo stesso Gruppo Prada. Un altro progetto degno di nota è Upcycled by Miu Miu, collezione di capi vintage scelti in negozi e mercatini di abbigliamento di tutto il mondo, rielaborati e reinterpretati secondo i codici estetici del brand.
Il secondo pilastro, ripristinare e rigenerare, si focalizza sul recupero degli ecosistemi naturali già danneggiati e sul ripristino della biodiversità. Ciò include la promozione della biodiversità nei processi di produzione e la creazione di progetti di conservazione dell’habitat naturale, anche al di fuori della sua catena di fornitura diretta, nonché la promozione di attività che favoriscano la diversità biologica. Un esempio pratico è l’acquisto di 28mila crediti di carbonio che contribuiscono a proteggere foreste in Brasile, Zimbabwe e Indonesia. Tornando in Italia, c’è anche il Gruppo Prada tra i partner di Forestami, con cui la Città metropolitana di Milano vuole piantare tre milioni di alberi entro il 2030.
L’ultimo pilastro, trasformare, fa della promozione di una cultura sostenibile il suo fine preponderante, sia all’interno dell’azienda che nell’intero settore, tramite l’adesione a iniziative come il Fashion pact, ma anche attraverso il continuo dialogo con Science based targets network (Sbtn), gruppo di organizzazioni che lavora per modellare l’impatto del settore privato sulla natura utilizzando obiettivi basati sulla scienza, e la Taskforce for nature-related disclosures, composta da 40 membri che rappresentano istituzioni finanziarie, aziende e fornitori di servizi di mercato con oltre 20 miliardi di dollari di attività.
La sostenibilità si fonda su tre pilastri
Per il Gruppo Prada, la biodiversità è uno degli elementi che compongono una strategia di sostenibilità che affonda le sue radici ben prima della firma del Fashion Pact e si fonda su tre pilastri: Planet, People e Culture.
Il pilastro Planet riguarda la tutela degli ecosistemi e la riduzione dell’impatto ambientale delle attività. In quest’ottica, il Gruppo Prada si è posto l’obiettivo di diventare net-zero entro il 2050, cioè di azzerare le proprie emissioni nette di gas serra, attraverso l’utilizzo di fonti rinnovabili (che nel 2021 sono state il 53 per cento dell’elettricità acquistata) e l’efficientamento energetico. Inoltre, ha implementato sistemi di gestione dell’acqua e dei rifiuti.
Il pilastro People si concentra sul benessere degli oltre 13mila dipendenti, con il miglioramento delle condizioni di lavoro lungo tutta la catena del valore, e sulla tutela dei diritti umani e delle comunità. Un fattore alquanto rilevante visto che il settore tessile nel mondo dà lavoro a oltre 70 milioni di persone, di cui l’80 per cento donne. A far parte di questo impegno anche la promozione della diversità e dell’inclusione, visto che il 57 per cento delle donne impiegate nel Gruppo Prada ricoprono ruoli manageriali e sono 107 le nazionalità dei dipendenti.
L’impegno del Gruppo Prada in materia di Cultura spazia dalla promozione delle arti, al centro dell’attività di Fondazione Prada, alla ricerca scientifica, fino al sostegno di giovani talenti e all’educazione, ancor più importante se legata ai temi della sostenibilità. Questo è l’obiettivo del progetto Sea Beyond, condotto dal Gruppo in partnership con la Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco, per diffondere i principi di ocean literacy e educare alla preservazione del mare.
Per quanto la strada da fare sia ancora lunga e piena di sfide, fortunatamente molte aziende del tessile e della moda hanno intrapreso un percorso virtuoso per la tutela degli ecosistemi animali e vegetali all’interno della loro catena del valore. Azioni come quelle promosse dal Gruppo Prada, e da altre realtà nazionali e internazionali, sono primi importanti passi verso il rispetto del sistema fragile e bisognoso di equilibrio che è il nostro Pianeta.
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