Moda fermentata: perché i batteri potrebbero rappresentare una soluzione per il tessile sostenibile

L’industria tessile si sta attrezzando per innovare se stessa e trovare soluzioni meno impattanti: la fermentazione rappresenta l’ultima frontiera moda.

  • La moda fermentata rappresenta l’ultima frontiera nelle sperimentazioni per quello che riguarda la moda sostenibile.
  • L’azione dei batteri su elementi di origine vegetale è in grado di creare delle fibre tessili completamente bio-based, facilmente riciclabili e biodegradabili.
  • Dai brand affermati con tanto di certificazioni alle sperimentazioni universitarie, il panorama delle molecole fermentate nel tessile si sta progressivamente ampliando, lasciando ben sperare per il futuro della moda etica e a basso impatto ambientale.

La fermentazione, diciamolo, sta prendendo la scena mondiale. Succede nella ristorazione, oggi non c’è locale di alta gamma che non introduca un pizzico di acidità nei suoi menù grazie ai fermentati, ma succede anche nella moda. L’azione dei batteri che è alla base della fermentazione infatti, è in grado di agire sui cibi tanto quanto su elementi che possono essere trasformati in fibre tessili e, soprattutto, è qualcosa che fa senza grosso dispendio di CO2. La trasformazione batterica non inquina e non produce emissioni e, se fosse applicabile su larga scala, potrebbe rappresentare una svolta per il tessile sostenibile. Gli enzimi microbici infatti, che sono potenti catalizzatori, possono sostituire le sostanze chimiche durante diverse fasi di lavorazione, come ad esempio la tintura, ed essere impiegati nel trattamento dei rifiuti solidi e delle acque reflue.

L’azione dei batteri può sostituire i coloranti chimici

Ad oggi esistono oltre 100 mila coloranti disponibili in commercio, quasi tutti sintetici, e il 90 per cento dei nostri abiti è tinto sinteticamente: questo significa dispersione nell’ambiente di sostanze come le formaldeidi o la paraffina clorurata, che sono estremamente tossiche sia per le persone che vi entrano in contatto durante il processo di lavorazione, che per l’ambiente nel quale inevitabilmente vengono riversate e, non da ultimo, anche per le persone che le indossano. L’uomo tinge i suoi abiti fin dall’antichità ma, prima, lo faceva utilizzando esclusivamente coloranti di tipo naturale che venivano ricavati da piante, insetti o molluschi. Il color porpora ad esempio, nuance tipica delle tuniche romane, veniva ricavata grazie ad un pigmento estratto da un mollusco, il murice comune. Fu il chimico britannico William Henry Perkin a scoprire il primo colorante di origine sintetica, nel 1856. Inoltre, se l’industria tessile consuma acqua per nove trilioni di litri all’anno, il processo di tintura ne è responsabile per sei. Va da sé che ritornare ad un tipo di tintura il più possibile naturale sarebbe un toccasana per l’ambiente.

MODA FERMENTATA
La fermentazione è un processo che vede la trasformazione di sostanze organiche per mezzo dell’azione di batteri © iStock

Alcuni microrganismi ad esempio possono produrre biopigmenti ed essere utilizzati al posto dei coloranti sintetici: la chimica toglie, la chimica dà, verrebbe da dire. Se infatti è stato un progresso dal punto di vista chimico quello che ha introdotto l’utilizzo dei coloranti sintetici, sarà la scoperta di altri processi a rendere fattibile utilizzare l’azione dei microorganismi per colorare e fissare la tintura sugli abiti. Colorifix, ad esempio, è una società che sfrutta una tecnica che prevede l’utilizzo di un colore prodotto naturalmente che viene poi fatto moltiplicare da un microrganismo ingegnerizzato. Dal colore creato da un organismo in natura: un animale, una pianta, un insetto o un microbo, viene sequenziato il Dna individuando i geni esatti che portano alla produzione del pigmento scelto che, poi, viene tradotto in un codice genetico che può essere riprodotto per produrre il pigmento esattamente come viene prodotto in natura. A questo punto entra in scena nel processo la melassa di zucchero, un sottoprodotto dell’industria dello zucchero, tramite cui viene avviato un processo di fermentazione in grado di moltiplicare il microorganismo in questione e renderlo così utilizzabile su larga scala.

I microorganismi e la moda sostenibile

La crescente consapevolezza dell’impatto ambientale dell’industria tessile ha orientato la ricerca verso nuovi materiali sostenibili per migliorare le prestazioni ambientali dei prodotti: i progressi nella scienza microbiologica degli ultimi decenni, in particolare nel metabolismo microbico, hanno promosso lo sviluppo di tessuti e biofabbricati derivanti dai microrganismi. L’azienda biotecnologica Modern Synthesis, ad esempio, ha sviluppato un biomateriale dalla fermentazione batterica che può essere utilizzato per creare un’alternativa ai tessuti tradizionali per l’abbigliamento in grado di generare un basso impatto di carbonio. Il biomateriale in questione è stato sviluppato nel laboratorio londinese dell’azienda coltivando la nanocellulosa a partire da materie prime di scarto come zuccheri provenienti da varie fonti come gli scarti di frutta o altri rifiuti agricoli: i batteri che crescono si nutrono di questi zuccheri producendo naturalmente nanocellulosa. I batteri, durante il processo di fermentazione, convertono infatti lo zucchero in fibre chiamate nanocellulosa, un materiale leggero che è otto volte più resistente dell’acciaio, più rigido del Kevlar e capace di legarsi per creare sottili trame: il materiale che ne risulta è molto leggero e simile al nylon. Produrre una fibra tessile a partire da scarti alimentari o vegetali consente di abbattere le emissioni di carbonio e l’utilizzo dell’acqua anche rispetto alle fibre naturali come il cotone, responsabile di un enorme dispendio idrico.

Al momento l’unica società che sia stata in grado di produrre su larga scala grazie alla fermentazione e abbia anche ottenuto brevetti (160) è la giapponese Spiber, produttrice di un materiale che ha chiamato Brewed Protein, ovvero proteine fermentate. Brewed Protein, utilizzata tra gli altri anche da brand high end come A Cold Wall, è una fibra che viene prodotta attraverso la fermentazione di ingredienti a base vegetale e al momento è l’unica realizzata tramite un processo di fermentazione microbica disponibile su scala industriale. L’idea iniziale, che ha dato l’impulso per ben diciassette anni di ricerca, era quella di ricreare un materiale che fosse simile alla seta creata dai ragni per realizzare le loro tele, ideale in termini di leggerezza e resistenza. Il progetto iniziale ha poi virato sulla creazione di fibre a base proteica basate sulla fermentazione di prodotti di origine vegetale in grado di utilizzare il 94 per cento in meno di acqua e di ridurre del 97 per cento i danni ambientali.

MODA FERMENTATA
La kombucha è tè fermentato che si ottiene da dischi di lieviti e batteri e dalla fermentazione dello zucchero © iStock

Una studentessa dell’Università dell’Idaho ha fatto dei mocassini con la kombucha

La kombucha è un té fermentato molto comune in Asia che si ricava a partire dal té, appunto, e da degli starter chiamati scoby che, in sostanza, sono dischi fatti da colonie di lieviti e batteri. Asiah Brazil-Geyshick, una studentessa di abbigliamento, tessuti e design all’Università dell’Idaho, ha realizzato un paio di mocassini, una borsina e un portafoglio, utilizzando degli scoby di kombucha essiccati che ha cucito a mano. Materiali come questi hanno diversi limiti, tra cui il fatto di non essere impermeabili e soprattutto instabili al contatto con l’acqua. La studentessa in questione ha trattato gli scoby con la glicerina per renderli resistenti, ma chiaramente si tratta di prototipi che al momento difficilmente potrebbero essere realisticamente prodotti e commercializzati. Questo tipo di sperimentazioni però sono utili per dare un’idea, è il caso di dirlo, del fermento intorno a questi argomenti. Il settore tessile è in un momento in cui è costretto a reinventare se stesso e, chi è davvero interessato a trovare dei nuovi modi per realizzare tessuti, è aperto a qualsiasi tipo di idea, anche la più bizzarra.

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