Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Moda e identità di genere: la Gen Z guida la rivoluzione
Superare la connotazione tra maschile e femminile è una conquista della moda gender fluid che dobbiamo alla Gen Z.
Se oggi la Gen Z può rivendicare il fatto di aver dato la spallata finale alle barriere di genere (nella moda si intende), il percorso fatto verso la fluidità di genere, ovvero quello che oggi viene definito gender fluid, ha radici ben più lontane e coinvolge almeno dieci generazioni. Sì perché se oggi possiamo rivendicare la libertà di non sentirci incasellati in un genere di appartenenza anche attraverso l’abbigliamento, lo dobbiamo anche a tutti i passaggi che ci sono stati prima e che hanno visto come protagoniste soprattutto le donne, la cui ribellione al sistema patriarcale ha coinvolto anche la moda.
C’è stato un momento in cui eravamo cacciatori-raccoglitori, ci vestivamo con le pellicce degli animali che mangiavamo che avevano, come unica funzione, quella di ripararci dal freddo. Forse quello è stato l’unico momento in cui i “vestiti” erano solo “vestiti”, non appena la società ha iniziato a comporsi e a stratificarsi per come la conosciamo adesso, l’abbigliamento di qualunque tipo ha iniziato ad avere dei significati ulteriori rispetto al solo utilizzo. Nel momento in cui hanno iniziato ad esistere le gerarchie, e conseguentemente differenze di qualunque tipo tra le persone, gli abiti hanno iniziato ad arricchirsi di trame di senso ulteriori. Per moltissimo tempo però le differenze nell’abbigliamento sono state funzionali perlopiù a individuare status diversi, più che generi diversi.
Identità di genere e moda: una storia che affonda le sue radici nel Medioevo
Ci sono dei momenti nella storia del costume che sono considerati degli spartiacque in tema di conquiste di genere ma, per migliaia di anni, uomini e donne si sono vestiti più o meno nello stesso modo, che si trattasse di pelli di animali o tuniche. Gli storici del costume fanno infatti risalire alla fine del Medioevo il differenziarsi dei costumi in fatto di abbigliamento tra uomo e donna. Questo ha coinciso più o meno con la spartizione della concezione familiare e lavorativa nelle classi meno abbienti: all’uomo servivano abiti comodi e resistenti per il lavoro nei campi, alle donne no come scrive Frédéric Monneyron nel suo saggio “Il vestito e le identità sessuali nella cultura occidentale”.
Il ventesimo secolo è stato, a ben vedere, quello che ha portato i cambiamenti più rapidi in fatto di abbigliamento, basti pensare al fatto che ogni decade ha uno stile ben riconoscibile. In questo caleidoscopio di stili ci sono stati degli spartiacque, concretizzati perlopiù da designer ribelli e rivoluzionari, ma anche da artisti, cantanti e attori che con le loro intuizioni o con il proprio stile hanno accompagnato lotte e portato cambiamenti nella società.
Gabrielle Chanel, meglio conosciuta come Coco, compì la sua rivoluzione non tanto introducendo, quanto rendendo desiderabili i pantaloni per un pubblico femminile. La stilista che ha inventato la minigonna, Mary Quant, è stata molto importante per le lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta. David Bowie ha influenzato il mondo della moda con il suo stile, che oggi chiameremmo fluido, e Jean-Paul Gaultier nel 1984 fece scalpore mandando in passerella i modelli di una collezione maschile con gonne di svariate forme e dimensioni.
Coco Chanel a parte da un certo punto in poi è stato normale, anzi in certi casi auspicabile, che le donne si vestissero con abiti maschili, ad esempio negli ambienti lavorativi: fanno scuola le giacche over di Melanie Griffith in “Una donna in carriera”, film che nel 1989 fu candidato a ben sei premi Oscar e ne vinse uno come miglior colonna sonora. Il cosiddetto “power dressing” è stato, ed è tuttora, uno strumento importante per le donne che ricoprono posizioni lavorative di rilievo o per quelle impegnate in politica.
L’utilizzo del guardaroba maschile da parte delle donne è stato funzionale all’appropriazione di ruoli sociali prima riservati esclusivamente agli uomini, come il lavoro e lo sport. A volte succede però che il sistema moda sia più veloce nel captare dei cambiamenti in atto rispetto a quanto la società stessa non sia pronta a recepire, perciò è passato molto tempo prima che le intuizioni di un Bowie o di un Jean-Paul Gaultier non venissero più bollate come freak-show, ma si prenderessero la scena su red carpet blasonati come quelli della Mostra del cinema di Venezia o su palchi nazionalpopolari come quello di Sanremo.
Gender fluid e unisex non sono la stessa cosa
Intanto sgombriamo il campo: quando si parla di collezioni unisex non ci si sta riferendo all’identità di genere, ma al fatto che lo stesso identico capo possa essere adattabile sia a un corpo femminile, che a un corpo maschile. Quando si parla di moda gender fluid si fa rimento al fatto di rifiutare la categorizzazione rigidamente binaria tra uomo e donna e si rivendica la libertà di esprimere liberamente il proprio essere attraverso capi o modi di vestire, di pettinarsi o di truccarsi a prescindere da quale sia il genere biologico di appartenenza. Questo significa che, esattamente come i pantaloni a un certo punto hanno smesso di appartenere a un immaginario prettamente maschile, le gonne oggi stanno smettendo di essere associate a un immaginario univocamente femminile.
“La moda dovrebbe essere senza genere. Il modo in cui ti vesti è il modo in cui ti senti, il modo in cui vivi, ciò che leggi, le tue scelte” Alessandro Michele, che ha guidato Gucci dal 2015 fino allo scorso novembre, è stato lo spartiacque definitivo per il mondo della moda maschile, il designer che, con il suo successo planetario e le sue intuizioni, ha reso cool l’abbattimento delle distinzioni di genere nella moda.
Confezionare un abito da sera con tanto di strascico e cristalli ricamati per Jared Leto in occasione del Met gala del 2019 è stato a tutti gli effetti un atto politico. Gli esempi ultimamente poi sono moltissimi: Brad Pitt con un completo composto da giacca e gonna di lino sul red carpet berlinese del film “Bullet Train” e Timothée Chalamet alla Mostra del cinema di Venezia con una jumpsuit rosso fuoco disegnata per lui da Haider Ackermann con scollo all’americana e schiena totalmente scoperta. Per non parlare dei concerti di Harry Styles.
La Gen Z sta guidando i consumi gender fluid
Quello a cui stiamo assistendo però non rimane confinato sui red carpet o sulle passerelle delle fashion week, ma l’abbattimento delle barriere di genere nella moda sta a tutti gli effetti orientando i consumi, in particolare delle nuove generazioni. La piattaforma globale di shopping online Lyst ha rilevato che le ricerche di capi che includono parole chiave agender sono aumentate del 33 per cento nell’ultimo anno. Nello specifico, Lyst ha registrato picchi di ricerche per quanto riguarda T-shirt, gonne e collane di perle oversize, quelle che indossa A$AP Rocky, per intenderci.
Tutto questo non può essere derubricabile a mero trend, ma è specchio di un cambiamento in atto nella società, esattamente come quando le donne hanno iniziato a rivendicare la possibilità di indossare giacche dal taglio maschile e pantaloni. Oggi gonne, maglie che lasciano intravedere i capezzoli, gioielli di ogni tipo e long dress si stanno spogliando della loro connotazione squisitamente femminile per abbracciare un pubblico più ampio.
D’altra parte Gucci non è l’unica maison del lusso a starsi declinando in maniera no gender: nel 2020 Marc Jacobs ha lanciato la capsule collection “Heaven”, che lui stesso ha descritto come una linea di abbigliamento per “ragazze che sono ragazzi e ragazzi che sono ragazze e per tutti coloro che non lo sono”. Ancora Stella McCartney ha creato “Shared” una linea di abbigliamento genderless e sostenibile ispirata allo streetwear. “Un vestito è un vestito, una gonna è una gonna, una giacca è una giacca, un rossetto è un rossetto. Tendiamo a voler dare un genere a tutto: il nostro intero mondo è costruito su un costrutto binario” dice Rob Smith, fondatore di Phluid Project per spiegare quale sia l’intento del suo brand. “Il nostro obiettivo è quello di consentire alle persone di esprimersi nel modo in cui si sentono a proprio agio, nel modo in cui si sentono autentici”.
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