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Il mito della moda etica e made in Italy vacilla sotto i colpi del caporalato
Nonostante i recenti scandali, che la moda made in Italy sia etica di per sé è una credenza diffusa. Una piccola filiera virtuosa sta cambiando le regole.
- Negli ultimi due mesi la procura di Milano ha indagato su diversi casi di caporalato e sfruttamento del lavoro in opifici sparsi per la Lombardia, che producono moda e pezzi di pelletteria per alcuni grandi brand del lusso.
- Questi casi di cronaca hanno sollevato perplessità sulla filiera della moda made in Italy, tradizionalmente considerata etica di per sé, soprattutto nel settore lusso.
- Ethicarei è un esempio di filiera del lusso etico. Si occupa di confezionamento tessile, produzioni di pelletteria e calzature, facendo matching tra organizzazioni profit e no-profit, con lo scopo di aumentare l’inclusione e il coinvolgimento delle comunità svantaggiate.
Scandali moda made in Italy. L’ultimo coinvolto, in ordine di tempo, è stato il marchio Dior. Poche settimane prima, Alviero Martini e Armani. L’inchiesta della procura di Milano su episodi di caporalato, sfruttamento del lavoro e abusi in opifici sparsi per la Lombardia ha colpito nomi importanti (e secondo Reuters ci sarebbero un’altra dozzina di brand coinvolti). Quello che nell’ultimo caso, quello di Dior, ha colpito maggiormente, oltre alla reiterazione dello stesso schema di commissioni e subappalti mal controllati, sono stati i prezzi. Come riporta il quotidiano italiano Corriere della Sera: “Il prezzo del modello di borsa in pelle di Dior contrassegnato ad esempio del codice PO312YKY? Alle clienti costa 2.600 euro in negozio, ma Dior prima spende soltanto 53 euro per comprarlo dall’opificio”.
Una filiera di sfruttamento e abusi che comprendono – come hanno riportato diversi quotidiani – lavoro in nero, mancanza di adeguate misure di sicurezza, operaie e operai che mangiavano e dormivano direttamente in fabbrica, senza turni di riposo, e lavoravano di notte (le indagini hanno portato anche a un monitoraggio dei consumi di energia notturni). Sempre come riporta Corriere: “La vicenda fotografata dalle indagini – tirano le somme gli inquirenti – è in verità un campanello di allarme sintomatico di una più estesa e diffusa organizzazione della produzione: non si tratta di fatti episodici e limitati, ma di un sistema di produzione generalizzato e consolidato”.
Il made in Italy non etico nelle cronache mondiali
L’ultimo in ordine di tempo è stato un lungo articolo sul quotidiano economico britannico Financial Times, ma il caso è stato riportato su tutti i maggiori giornali internazionali nelle ultime settimane. In particolare, quando l’ultimo caso è uscito sulle cronache nazionali, Business of Fashion, stimata rivista di settore dedicata agli addetti ai lavori del fashion globale, ha pubblicato un open-ed dal titolo The Myth of Ethical Luxury a firma dell’italiana Caterina Occhio, sustainability advisor per aziende del lusso, consulente delle Nazioni Unite, nonché membro del board of director di World fair trade organization (Wfto). “Era arrivato il momento di metterlo per iscritto, quello che in fondo sappiamo tutti. Tutti quelli che lavorano nella moda in Italia conoscono il substrato di appalti poco trasparenti, ben presenti nella cosiddetta produzione made in Italy”. Il titolo fa riferimento alla radicata convinzione che un bene di lusso, quindi con un prezzo elevato, sia stato naturalmente prodotto in condizioni etiche e rispettabili, soprattutto se fatto in Italia. “In realtà, già nel 2020 la ong olandese Fairwear Foundation sottolineava nel report Italy Risk Assessment che il nostro Paese non era affatto esente da situazioni di abuso nella filiera moda. Il focus erano le piccole medie imprese di proprietà cinese, ma poi il report allargava a tutto campo, includendo anche forme di lavoro casalingo non regolamentato”.
L’Italia ospita migliaia di piccoli produttori che coprono dal 50 per cento al 55 per cento della produzione globale di beni di lusso (secondo Bain Consultancy, altri dati sono addirittura più alti), spesso in aziende di medie e piccole dimensioni, specializzate in una determinata lavorazione. Il sistema moda del lusso, per quanto goda ancora di un’aura di fascino, è ormai allineato a modelli di produzione veloce e con volumi imponenti vicini a quelli del fast fashion, con diverse collezioni all’anno e una diversificazione di business che va dagli accessori al makeup: “La realtà è che molti player del lusso operano più come il fast fashion di quanto vogliano ammettere. Da anni ormai, i prodotti “esclusivi” vengono prodotti e venduti a milioni, in un passaggio alla produzione di massa ad alto margine che ha comportato una maggiore pressione sui produttori e maggiori rischi di sfruttamento della manodopera”, ha scritto Occhio nel suo articolo.
Quando gli audit di controllo nelle fabbriche non funzionano
Ma come possono accadere ancora episodi come questi delle ultime settimane? “Il problema della filiera è rappresentato principalmente dal secondo livello, i subcontractor. Alcuni brand e gruppi chiedono al contractor principale di pre-approvare quelli a cui subappaltano. Tutte le aziende italiane coinvolte nel sistema moda dovrebbe avere un Codice Etico, come delineato dal decreto legislativo 231/2001, e un manuale di procedure per la selezione dei fornitori. Quando lo leggi con attenzione capisci se sono seri da due dettagli fondamentali. Innanzitutto, gli audit di controllo non devono essere annunciati, mentre la maggior parte lo sono. Annunciati vuol dire che dicono al fornitore con settimane di anticipo quando andranno in azienda. Gli audit semi annunciati, invece, indicano un range di tempo di due settimane in cui si eseguirà l’audit. Le uniche serie, ovviamente, sono le visite non annunciate, che possono essere anche fuori dall’orario di lavoro, per capire se gli operai stanno, ad esempio, lavorando di notte oppure dormono nell’opificio. E dopo questi audit andrebbero non solo pubblicati i risultati, ma anche un conseguente piano di correzione, quando necessario. La trasparenza è un passo fondamentale per essere credibili”.
Il caso di Ethicarei
Un anno fa Caterina Occhio, con altre quattro socie, ha fondato Ethicarei, la prima filiera etica in Italia garantita dal World fair trade organization. Ethicarei si occupa di confezionamento tessile, produzioni di pelletteria e calzature, facendo matching tra organizzazioni profit e no-profit e tra scuole e ambienti di lavoro, con lo scopo di aumentare l’inclusione e il coinvolgimento delle comunità svantaggiate nelle aziende e brand. Continua Occhio: “Ethicarei voleva lanciare un segnale, ancora prima che i casi venissero ufficialmente alla luce. La moda, il lusso, possono e devono fare meglio e iniziare a introdurre l’imprenditoria sociale in maniera sistematica e non saltuaria nel proprio modo di operare. Dall’altra parte, le imprese sociali con cui collaboriamo, tra cui la storica cooperativa Alice attiva nelle carceri milanesi e Cartiera a Bologna, specializzata in inclusione lavorativa di persone con percorsi di migrazione o fragilità, si impegnano ad alzare il livello di qualità per fornire un prodotto all’altezza degli standard del lusso. È un gap che stiamo tentando di colmare, ogni giorno”.
Ethicarei ha collaborato con brand della moda made in Italy come Zanellato, Emporio Armani, Aspesi e il francese Chloè. Il loro motto è “Made in Italy, made in Dignity”. Una parola, dignità, che ritorna anche nel report dedicato alla filiera moda stilato da Campagna Abiti Puliti, dal titolo “Il salario dignitoso è un diritto universale. Una proposta per l’Italia, a partire dal settore moda”. Il report, presentato la prima volta nel 2022 e aggiornato annualmente, indaga il fenomeno complesso della povertà lavorativa in Italia, che comprende anche contratti di lavoro instabili e insicuri, oltre al calcolo di un salario dignitoso, che nel 2024 equivale, secondo i calcoli di Campagna Abiti Puliti, a 11,50 euro netti all’ora o 2mila euro netti mensili che, ipotizzando una settimana lavorativa standard di quaranta ore settimanali.
Sul tema filiera, l’Unione europea ha varato a fine aprile, tra le tante difficoltà e compromessi, la cosiddetta Csddd (Corporate sustainability due diligence directive, detta anche supply chain law), che porterà le aziende più grandi ad assumersi responsabilità rispetto agli impatti negativi concreti e potenziali sull’ambiente e sui diritti umani delle proprie attività lungo la catena del valore. Nel caso dell’Italia la moda deve e può farsi avanti per risolvere casi di abusi sistematici e modificare modelli di comportamento che ancora oggi vengono raramente messi in discussione. Con la sua potenza comunicativa e il suo impatto culturale, la moda può e deve fare altre scelte per cambiare il suo impatto.
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