L’Italia guarda al modello-Israele per l’acqua, basato su grandi opere e tecnologie avanzate. Ma anche su gravi violazioni dei diritti dei palestinesi.
Di fronte alla crisi idrica, l’Italia ha affermato di guardare al modello Israele.
Tel Aviv ha risolto i propri problemi con grandi opere e una tecnologia avanzata.
Anche sull’acqua si gioca però il conflitto israelo-palestinese, con violazioni molto serie.
Sarà il modello Israele l’esempio virtuoso che l’Italia seguirà per risolvere le difficoltà idriche che la stanno attanagliando negli ultimi mesi? Probabilmente sì, almeno a sentire le parole pronunciate dalla premier italiana Giorgia Meloni e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, al termine dell’incontro istituzionale che si è tenuto tra i due leader la scorsa settimana a Palazzo Chigi.
Un vertice nel quale, dopo aver ribadito che l’Italia continua a sostenere convintamente la soluzione dei due Stati per due popoli e aver rappresentato “tutta la nostra preoccupazione e solidarietà per gli attacchi terroristici avvenuti ultimamente“, Meloni ha affermato che “di fronte alla crisi idrica il governo è già intervenuto, (riferendosi al tavolo per l’acqua recentemente istituito, ndr) ma Israele ha già fatto un lavoro straordinario e questo credo che sia uno dei tanti settori su cui la nostra cooperazione può aumentare“.
Incassando poi la conferma del premier ultraconservatore israeliano: “Israele ha risolto i suoi problemi idrici in aree considerate insolvibili e saremo lieti di dare una mano all’Italia”.
🚨Se sceglie di sostenere il gasdotto EastMed, il #GovernoMeloni rischia di accendere la miccia di una bomba climatica e geopolitica nel Mediterraneo orientale. Il mega-progetto causerebbe gravi danni anche alla biodiversità marina 👇https://t.co/l65v4fsXES
Oltre a questo, i due leader hanno anche trovato un’intesa per la fornitura di gas di Israele all’Italia, attraverso la ripresa del progetto EastMed, il gasdotto che dovrebbe trasportare in Europa le riserve di gas del Mediterraneo orientale: un progetto di cui si parla da dieci anni e che prevede circa 1.900 chilometri di tubi sottomarini da Israele alla Grecia, con una profondità che in alcuni tratti raggiungerebbe addirittura i 3 mila metri, per collegarsi poi al tratto offshore del gasdotto Poseidon (altri 210 chilometri) dalla Grecia all’Italia, sulla costa di Otranto.
Far fiorire il deserto
Tornando all’acqua, però, è noto che dovendo fare i conti sin dalla sua nascita con scarsità di piogge e abbondanza di terre desertiche, che occupano circa il 60 per cento del territorio, Israele si è trovata da subito costretta a sviluppare piani e tecnologie molto avanzate per far fronte alla penuria di acqua. Oggi la maggior parte della sua acqua potabile proviene da impianti di desalinizzazione e la nazione ebraica è considerata leader mondiale nel settore: attualmente, infatti, Israele produce il 20 per cento di acqua in più di quella di cui necessita. Si tratta di un risultato davvero impressionante, raggiunto dopo decenni di ricerca, progettualità e investimenti. Letteralmente, il paese è riuscito “a far fiorire il deserto”.
La “startup nation” nel settore della gestione idrica
Secondo i dati dell’Israel Export Institute, sono circa 250 le aziende israeliane che sviluppano tecnologie e attrezzature per l’acqua: due terzi di queste sono startup che operano nei settori del trattamento delle acque e delle acque reflue, irrigazione, sistemi idrici, gestione della rete idrica, tecnologie di desalinizzazione e rilevamento della qualità dell’acqua.
We just received four @Watergen_Inc 🇮🇱 GEN-M machines from Israel. Each machine will provide 800 liters of water a day from thin air. These machines will be used in the hardest most affected regions in #Ukraine. Blessings and stay strong 🇺🇦 !#Anatevkapic.twitter.com/3f736WOXpJ
— Chief Rabbi Of Ukraine Moshe Azman (@RabbiUkraine) March 12, 2023
Israele 360, un portale che si occupa di informazione culturale ed economica su quella viene definita StartUp Nation, ricorda alcune delle aziende innovative nel settore idrico che hanno partecipato all’ultimo Water Innovation Technology Summit, nel 2022. Tra loro:
Asterra, una società in grado di individuare e analizzare le perdite d’acqua dai tubi sotterranei utilizzando i dati satellitari;
Kando, azienda di intelligence e analisi dei dati sulle acque reflue;
Watergen, in grado di generare acqua dall’aria;
NUFiltration, che riutilizza i dializzatori che hanno raggiunto la fine della loro vita e li utilizza come dispositivi di purificazione dell’acqua per i paesi in via di sviluppo;
Lishtot, una startup che ha sviluppato dispositivi di test per rilevare rapidamente contaminanti nell’acqua come piombo, arsenico, mercurio, rame e cloro.
Gli impianti di desalinizzazione
L’agricoltura di precisione, all’inizio, ha fatto la sua parte. Per quanto riguarda invece gli impianti di desalinizzazione, ricorda Ab Aqua Centro Studi Idrostrategici, le prime opere iniziarono nel 1999, quando il governo israeliano avviò un programma di desalinizzazione incentrato sull’osmosi inversa dell’acqua di mare. Oggi sono cinque i mega-impianti in funzione:
Ashkelon (2005) in grado di produrre 118-120 milioni di metri cubi di acqua potabile all’anno;
Palmachim (2007), che oggi produce annualmente 90-100 milioni di metri cubi;
Hadera (2009) in grado di produrre 127 milioni di metri cubi;
Sorek (2013) che produce 150 milioni di metri cubi;
Ashdod (2015), che produce ogni dodici mesi 100 milioni di metri cubi.
Altri due dissalatori dovrebbero vedere la luce entro il 2023.
Seawater RO desalination plant in Ashkelon Israel sets world record for drinking water production. pic.twitter.com/d4ktfspHXP
Nel confronto con il sistema israeliano, due dati in particolare mostrano l’incredibile ritardo che sconta attualmente l’Italia. Il primo è che Israele riutilizza in agricoltura attualmente il 90 per cento di acque reflue, ovvero le acque di scarico depurate; noi, secondo i dati di Utilitalia, solamente il 5 per cento: 475 milioni di metri cubi a fronte di un potenziale di 9 miliardi di metri cubi.
Il secondo è che gli acquedotti israeliani disperdono non più del 2 per cento dell’acqua immessa nelle reti, grazie a moderni sistemi di monitoraggio e pronto intervento per la manutenzione delle reti. In Italia il tasso di dispersione è addirittura del 42 per cento, a causa del fatto che un quarto almeno delle reti italiane ha più di mezzo secolo, e il 60 per cento più di 30 anni. Insomma, sì: dal punto di vista tecnologico, avremmo moltissimo da apprendere dal modello di Israele.
Non è tutta acqua quella che luccica
Ma è tutto oro, anzi acqua, quella che luccica? Fino a un certo punto. A livello tecnologico, quello israeliano è innegabilmente un modello all’avanguardia e da studiare, e possibilmente imitare. Ma per quanto riguarda le modalità di approvvigionamento delle scarse risorse idriche presenti nella zona, entrano in gioco altri fattori. Lo sfruttamento dell’acqua è parte integrante delle tensioni mai sopite e relative alla questione israelo-palestinese. Da sempre, Israele si appropria infatti della poca acqua presente, utilizzandola come arma politica ed economica verso i territori palestinesi.
Nel 1948 un immenso canale, noto come National Water Project, fu realizzato per deviare il corso del fiume Giordano e rifornire d’acqua la zona arida del deserto del Negev; nel 1964 Israele terminò la costruzione dell’imponente acquedotto nazionale, il National Water Carrier, per pompare l’acqua dal lago di Tiberiade e trasferirla con l’ausilio di infrastrutture idriche regionali ai territori centrali e meridionali. Il progetto però creò però fortissime tensioni con la Siria e la Giordania per via di un’ulteriore deviazione del corso del Giordano.
Fu però la guerra dei Sei Giorni, sottolinea il centro studi Geopolitica.info, a mutare i rapporti nella distribuzione idrica della zona. “Da questo conflitto infatti, Israele ottenne il controllo delle alture del Golan e della Cisgiordania e, con esse, di tutte le risorse idriche della Palestina. Da allora la situazione non è di molto mutata. Tel Aviv dispone tutt’oggi del controllo del Giordano. Nel tempo, la percentuale di terreni agricoli che i contadini palestinesi riescono a irrigare è diminuita dal 25 per cento del 1967 a circa il 5 per cento attuale”.
Lo confermano le parole di Nidal Younes, sindaco della municipalità di Masafer Yatta, un insieme di 18 villaggi palestinesi a grave rischio di occupazione da parte di Israele, che in quella zona ha deciso di installare un poligono di addestramento per l’esercito. “Non so se ridere o piangere – afferma – quando sento parlare di modello Israele: loro prendono la nostra acqua, ce la rivendono, e poi ci fanno pesare politicamente il fatto di averci concesso la nostra acqua”.
Le comunità palestinesi di #MasaferYatta alla Camera: a rischio sgombero 12 villaggi e 1.800 persone nel sud della Cisgiordania occupata. Gli abitanti: «Cosa faremo se ci cacciano? Saremo profughi che muoiono nei vostri mari»#Palestina#Savemasaferyattahttps://t.co/DMKXfTDrMC
Secondo i dati forniti da Younes, che qualche giorno fa è stato alla Camera dei deputati proprio per denunciare le violazioni in corso con gli insediamenti a Masafer Yatta, “agli israeliani vengono riconosciuti 100 litri di acqua al giorno, ai palestinesi della West Bank 25. Siamo costretti a scavare i terreni per trovare l’acqua, ma loro ci distruggono il lavoro. E quando la andiamo a comprare oltre il confine israeliano, spesso ce la confiscano”. L’obiettivo finale è chiaro: “Il nostro è un villaggio di agricoltori e allevatori, così Israele ci rende impossibile la vita impedendoci di irrigare i terreni: vogliono indurci a lasciare le nostre terre per realizzare il loro poligono di tiro”.
Gli accordi di Oslo non rispettati
Nel 2009 era stata perfino la Banca mondiale, che in quell’anno pubblicò il suo primo rapporto sulle restrizioni nello sviluppo del settore acquifero palestinese, a mettere in luce la situazione, evidenziando che nella gestione dell’acqua Israele non rispettava quanto previsto dai due Accordi di Oslo, siglati nel 1993 e nel 1995, da Ytzhak Rabin, primo ministro israeliano, e Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) con la mediazione del presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, attraverso un protocollo specifico, e cioè una “cooperazione nel campo idrico, compreso un programma di sviluppo preparato da esperti di entrambe le parti, che stabilirà anche le modalità di cooperazione nella gestione delle risorse idriche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e includerà proposte di ricerca e progetti sui diritti idrici di ciascuna parte, nonché sull’equo utilizzo delle risorse comuni”.
Effettivamente, come dice il sindaco di Masafer Yatta, la compagna nazionale idrica israeliana, Mekorot,vende ogni anno alla Palestina 30 milioni di metri cubi di acqua, che proviene in parte proprio dalla Cisgiordania, visto che gli accordi del 1995 hanno assegnato l’80 per cento della falda acquifera agli israeliani e il 20 per cento ai palestinesi. Il risultato è che oggi tra il 25 e il 40 per cento dell’acqua totale utilizzata da Israele proviene dalla Cisgiordania, e che Israele consuma l’82 per cento dell’acqua della Cisgiordania, lasciando solo le ultime gocce agli abitanti della West Bank. E ancora: i coloni israeliani che vivono in Cisgiordania consumano circa 350 litri al giorno pro capite contro i 70 – anche se con punte negative che arrivano ai soli 20 – dei palestinesi.
"Il blocco israeliano impedisce la riparazione del sistema idrico a #Gaza Il consumo di acqua x persona è sceso da circa 80 litri al giorno prima del conflitto a 50-60 L . La quantità minima giornaliera raccomandata dall'OMS è di 100 L ."#IsraeliApartheidhttps://t.co/njN1UXf4Gx
Per dare il senso dello squilibrio, basti tenere a mente che l’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda un utilizzo di circa i 100 litri per persona al giorno per mantenere i giusti livelli d’idratazione e d’igiene. Insomma, dal punto di vista dei diritti umani, il modello Israele per l’acqua ha finora moltissimo da migliorare.
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