Stanche di chiedere il ritorno dalla guerra dei loro mariti senza ottenere risposte, alcune donne hanno manifestato a pochi metri dal Cremlino. Nessuna di loro è stata arrestata.
La protesta delle mogli dei soldati russi che stanno combattendo in Ucraina è passata dai social network alle piazze. Per la prima volta, il 7 novembre 2023, le donne dei mobilitati si sono date appuntamento nel centro di Mosca, in Piazza Teatralnaja, a pochi metri dal Cremlino, per chiedere pubblicamente il ritorno degli uomini dal fronte. Non era ancora successo che le famiglie dei soldati manifestassero così apertamente il loro dissenso nei confronti della gestione delle truppe, in guerra da più di un anno e mezzo senza rotazioni, né congedi.
Le donne, circa una trentina, hanno approfittato di una manifestazione organizzata dal Partito comunista per i 106 anni della Rivoluzione d’ottobre, si sono unite alla folla e lì hanno srotolato i loro cartelli scritti a mano. “мобилизованным пора домой”, ovvero “È ora che i mobilitati tornino a casa”, recita uno dei manifesti riprendendo un popolare hashtag che poche settimane prima aveva fatto scattare la censura su VKontakte, il principale social network russo dove era montata la protesta.
Finora le petizioni, gli incontri con i funzionari locali e le richieste formali per ottenere la rotazione e il rientro delle truppe non hanno portato risultati: gli uomini sono sempre al fronte con l’unica certezza che chi sopravviverà tornerà a casa solo quando la guerra sarà finita.
Stanche di lottare contro i mulini a vento, le mogli dei soldati si sono quindi radunate a Mosca e hanno fatto sapere che ci saranno presto nuove manifestazioni in una trentina di altre città.
Il picchetto in Piazza Teatralnaja è durato solo cinque minuti. Ma è stato sufficiente per accendere i riflettori della stampa, attirare l’attenzione dello storico leader del Partito Comunista Gennadij Zjuganov, e creare un curioso cortocircuito nella retorica dell’indottrinamento ideologico a cui sono stati sottoposti i cittadini e le forze dell’ordine in Russia.
Un picchetto senza arresti
Gli aspetti interessanti di questa notizia sono molteplici. Innanzitutto queste persone non hanno dimostrato nessun timore a manifestare apertamente il loro dissenso: una cosa inusuale nella Russia di oggi, viste le violenze con cui erano state soffocate le precedenti proteste. In secondo luogo, la polizia non ha arrestato nessuna di loro, limitandosi a raccogliere le loro generalità: un altro fatto tutt’altro che scontato, in un Paese dove tra il 24 febbraio 2022 e il 22 ottobre 2023 sono state arrestate quasi ventimila persone per aver manifestato in pubblico opinioni contrarie alla guerra.
Inoltre, le manifestanti in piazza sono riuscite a parlare personalmente con il leader del partito Comunista Gennadij Zjuganov, presente al corteo per celebrare l’anniversario della Rivoluzione.
Ne parliamo, troviamo un accordo. Io sono d’accordo sul ritorno dei mobilitati. Ma se vincono i nazisti, allora non ci sarà vita né per noi, né per voi, né per nessun altro.
Gennadij Zjuganov
Di sicuro le parole di apparente empatia pronunciate da Zjuganov non devono generare false illusioni, vista la dimensione puramente rappresentativa dei partiti di opposizione in Russia, ma dimostrano due cose: da un lato rivelano la forza che può assumere un gruppo di persone che decidono di unirsi e lottare per una causa comune; dall’altro, evidenziano la necessità dei cittadini di trovare figure politiche alternative a cui rivolgersi. Figure che possano abbattere il muro di silenzio e disinteresse finora alzato dal governo.
D’altronde il malcontento delle famiglie dei soldati è ormai lampante. E questa volta ha bucato le telecamere, superando la censura: “Putin può risolvere la questione dei mobilitati e della loro smobilitazione con un colpo di penna. Perché non lo ha ancora fatto? — ha tuonato una delle manifestanti davanti alle telecamere —. Io non voterò (alle presidenziali di marzo 2024, ndr) per Vladimir Vladimirovich Putin perché credo che abbia preso molte decisioni sbagliate. Mio marito è in trincea da febbraio. E continua a essere là”. Il video ha realizzato quasi settantamila visualizzazioni su YouTube.
Il cortocircuito nella retorica della guerra
Tra le frasi riecheggiate durante il picchetto, ce ne sono un paio che colpiscono più di altre, e fanno capire la schizofrenia che ha contagiato la società russa nell’ultimo anno e mezzo. Per giustificare, nonostante tutto, le intenzioni “benevole” della loro protesta e la fedeltà incondizionata al governo, alcune manifestanti hanno detto alle forze dell’ordine: “Siamo donne pacifiche”. “Non siamo contrarie alla guerra”. Come a dire, non vogliamo causare fastidi al governo, non siamo contrarie alla guerra, vogliamo solo indietro i nostri uomini. Una contraddizione in termini che ha disorientato anche i poliziotti, che di fatto non hanno infilato le manette a nessuna; un’incoerenza che assume senso solo nella retorica contorta partorita dal Cremlino per giustificare l’operazione speciale in Ucraina e i morti che sta causando – almeno 120 mila i soldati russi che hanno perso la vita nei combattimenti, più di settantamila quelli ucraini, secondo il quotidiano statunitense The New York Times.
“Io non sono contraria all’Operazione speciale. Sono contraria al fatto che i ragazzi siano in guerra in modo permanente — ha raccontato un’altra manifestante —. Mio marito è stato ferito, lo hanno mandato a casa per un mese. E subito dopo la riabilitazione dovrà tornare in guerra”.
Wives of Russian soldiers rally in Moscow to demand return of their "liberators" home pic.twitter.com/RkeSEZILBt
Perché il paradosso è proprio questo: diversamente dagli oltre cinquemila criminali condannati al carcere, che in Russia hanno ricevuto la grazia e sono usciti di prigione in cambio dell’arruolamento (l’ultimo caso riguarda uno degli uomini accusati dell’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja, condannato a venti anni ma graziato dopo aver combattuto per sei mesi in Ucraina), i comuni cittadini arruolati con la mobilitazione forzata si ritrovano “sequestrati” al fronte. A tempo indeterminato. “Se una persona finisce al fronte, le possibilità di dare le dimissioni sono davvero poche, direi pressoché irrealizzabili, per via delle regole fissate nel decreto emanato per la mobilitazione”, ha spiegato in un’intervista Artem Klyga, avvocato di diritto pubblico.
È con questa consapevolezza e questa rabbia che i familiari dei soldati si stanno dunque organizzando, usando le chat sui social network per coordinare le informazioni e preparare nuovi picchetti (la chat più numerosa conta oltre settemila iscritti). In mezzo al caos nel quale è sprofondato il Paese, una cosa è certa: le proteste di queste ragazze, determinate a portare a casa i loro uomini dalla guerra a ogni costo, rischiano di espandersi a macchia d’olio. E possono diventare una spina nel fianco piuttosto fastidiosa per Putin, che alle presidenziali di marzo 2024 punta a riconfermare senza troppi problemi il suo mandato per altri sei anni.
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