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È morta Vivienne Westwood: stilista, attivista per l’ambiente e punk
È morta a 81 anni a Londra Vivienne Westwood, designer eclettica e attivista, regina della cultura punk e votata alla causa ambientale
- Vivienne Westwood è morta a Londra all’età di 81 anni.
- La designer è stata la principale promotrice dell’estetica e della cultura punk, alla quale ha sempre affiancato anche l’impegno politico.
- Dalla metà degli anni 2000 Vivienne Westwood ha dirottato il suo impegno di attivista su tematiche sempre più legate alla crisi climatica e alla tutela dell’ambiente.
Difficile dire per cosa Vivienne Westwood verrà ricordata maggiormente, se per il suo impegno politico, fulcro del lavoro degli ultimi anni, o se per essere stata la promotrice dell’estetica punk. Stilista quasi per caso Westwood è da sempre stata animata da una incredibile passione, quella che l’ha resa la designer di riferimento della Londra underground prima e quella che l’ha portata a schierarsi e a prendere posizioni scomode poi.
“Vivienne ha continuato a fare le cose che amava, fino all’ultimo momento, disegnando, lavorando alla sua arte, scrivendo il suo libro e cambiando il mondo in meglio. Ha condotto una vita straordinaria. La sua innovazione e il suo impatto negli ultimi 60 anni sono stati immensi e continueranno nel futuro” con queste parole e dal profilo Instagram del brand è stata data la notizia della sua scomparsa. E poi ancora: “Il mondo ha bisogno di persone come Vivienne per cambiare in meglio”.
Vivienne Westwood, gli inizi, McLaren e il punk
Nata l’8 aprile del 1941 nel Derbyshir, in un paese britannico il cui nome sembra uno scioglilingua, Tintwistle, arrivò a Londra nel 1957 insieme alla famiglia, dove si iscrisse alla scuola d’arte, ma solo per un semestre. Non aveva una formazione formale in termini di moda, ma imparò come si fanno gli abiti da adolescente, seguendo i modelli e smontando abiti di seconda mano che trovava nei mercatini per capirne taglio e costruzione. Era intuitiva e geniale, ma soprattutto rifiutava le convezioni.
Nonostante la moda la amasse aveva iniziato a lavorare come maestra elementare dopo essersi separata dal suo primo marito, Derek Westwood. È solo negli anni Sessanta, momento in cui incontrò e intrecciò una relazione con Malcolm McLaren, che all’epoca era manager di vari gruppi musicali tra cui i Sex Pistols, che Vivienne Westwood misa in pratica quello che aveva imparato sezionando abiti vintage e dando libero sfogo alla sua creatività. Il turning point della sua vita arrivò quindi nel 1971, quando insieme a McLaren aprì Let it rock, un minuscolo negozio in Kings Road a Chelsea che è diventato in breve tempo la mecca di tutti gli amanti dell’estetica punk e di moltissimi musicisti.
Spille da balia, fantasia tartan, immagini della regina: il suo profondo amore per il suo paese e per la cultura britannica non le hanno impedito di prendere quei canoni estetici e rimaneggiarli, dissacrandoli il più delle volte, ma utilizzando sempre la sua chiave ironica e sovversiva per dar voce alla critica sociale e per schierarsi dalla parte di chi è in difficoltà. Mescolando riferimenti storici, sartoria classica e aspetti romantici con abiti provocatori e messaggi duri e apertamente politici, Westwood è diventata una delle designer più amate del Regno Unito e ha contribuito attivamente a costruire, ma soprattutto a cementificare e tenere viva l’estetica e la cultura punk, portandola fino in passerella. La prima sfilata del suo brand eponimo, nel 1981, aveva infatti un titolo più che evocativo, Pirates. Qualche anno dopo poi lancia uno dei suoi capi più iconici, intriso ancora una volta di critica sociale e lotta femminista: lo Statue of Liberty corset, un elemento intimo e di costrizione del guardaroba delle dame del XVIII secolo che la designer ha reso uno strumento provocatorio di rivendicazione sessuale.
Una stilista attivista
Nonostante il brand Vivienne Westwood sia diventato con gli anni un business da svariati milioni di sterline, la designer non ha mai perso di vista la sua vena di attivista e non ha mai smesso di schierarsi politicamente. Nel 1989 è apparsa sulla copertina della rivista Tatler vestita da Margaret Thatcher, mentre lo strillo recitava: “Questa donna una volta era una punk”. Ancora: il rapporto e anche la critica alla monarchia è sempre stato un elemento chiave del suo pensiero tanto che, quando nel 1992 le è stata conferita la medaglia dell’Ordine dell’Impero Britannico dalla regina Elisabetta in persona, Westwood si presentò a Buckingham Palace per ricevere l’onorificenza indossando un tailleur grigio, ma una volta fuori fece una piroetta di fronte ai fotografi per mostrare al mondo che non indossava le mutande.
È stato poi intorno alla metà degli anni 2000 che Westwood ha iniziato a interessarsi sempre di più alla crisi climatica, rivolgendo la sua attività politica su tematiche sempre più legate alla sostenibilità ambientale. Nel 2007 ha pubblicato un manifesto intitolato Active Resistance to Propaganda, in cui scriveva: “Abbiamo una scelta: diventare più colti, e quindi più umani – o non scegliere, di essere l’animale distruttivo e autodistruttivo, il vittima della nostra stessa intelligenza”. È stata una delle prime designer del lusso a prendere posizioni tanto radicali riguardo all’ambiente e ai consumi. “Dico solo alla gente, smettetela di comprare vestiti”: il suo era un atteggiamento anti consumista a tutto tondo. “La cultura è l’antidoto alla propaganda” diceva, e con i suoi abiti cercava in primo luogo di fare cultura.
Cultura ma anche azione: nel 2015, guidò un finto carro armato fino alla casa dell’allora primo ministro David Cameron, nell’Oxfordshire, per protestare contro il fracking e lo stesso anno, in occasione della presentazione della collezione Vivienne Westwood Red Label SS 2016, trasformò la passerella in una vera e propria manifestazione, con tanto di cartelli e modelle sporche di greggio. Il motivo scatenante era stata la concessione da parte di Cameron di ventisette nuove licenze per praticare il fracking nel nord della Gran Bretagna. Ancora, nel 2012 aveva annunciato, alla cerimonia di chiusura delle Paralimpiadi di Londra, il suo progetto ambientalista srotolando uno striscione contenente il nome dell’iniziativa: “Climate Revolution”, nel 2013 aveva disegnato il logo di Greenpeace Save the Arctic e negli anni ha supportato le cause di Amnesty International.
Nel 2021, insieme ad altri designer britannici come Stella McCartney ed Erdem, era stata firmataria di una lettera aperta a Boris Johnson in cui si chiedeva di vietare la vendita delle pellicce in tutto il paese: Westwood è stata una delle stiliste più attive della campagna, forte dell’hashtag #FurFreeBritain. Nello stesso anno a Firenze, quando le è stato conferito il premio alla carriera durante la Florence Biennale, ha letto la sua Lettera per salvare il pianeta, che recitava così: “Questa è la mia opportunità per far capire al mondo cosa succede. Finora non avevo la soluzione, ora ce l’ho. La soluzione è che dobbiamo cambiare l’economia. Certo dobbiamo fermare le guerre, ma soprattutto cambiare l’economia, perchè crea inquinamento”. Fino all’ultimo ha poi continuato ad aggiornare il blog da lei firmato, No man’s land, dove raccoglieva riflessioni, spunti di attivisti e lettere di persone comuni: appena il mese scorso aveva rilasciato una dichiarazione di sostegno ai manifestanti per il clima che avevano gettato della zuppa su “I girasoli” di Van Gogh, scrivendo: “I giovani sono disperati. Indossano una maglietta con la scritta: Just Stop Oil. Stanno facendo qualcosa”.
Vivienne Westwood e la sostenibilità
Da quando la designer si è avvicinata alle tematiche ambientali e la salvaguardia del pianeta e i diritti degli animali sono diventati una priorità Vivienne Westwood ha incentrato la sua produzione su una filosofia cruelty-free e i suoi capi sono privi di pelli e pellicce d’origine animale, è un’attiva sostenitrice della Peta, ovvero People for the ethical treatment of animals, l’associazione ambientalista che più impatto ha avuto sul mondo della moda. Essendo pienamente consapevole di far parte di un sistema, come quello del tessile, altamente inquinante, la stilista aveva da molto tempo iniziato a cercare di minimizzare l’impatto del proprio brand sull’ambiente, scegliendo di utilizzare materiali naturali e lavorati in maniera da inquinare il meno possibile e sensibilizzando al contempo i consumatori sull’importanza della qualità degli abiti piuttosto che della quantità.
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