I dati emersi dall’ultimo rapporto Ismea, l’ente pubblico che analizza il mercato agro-alimentare, ci obbligano a riflettere sul costo del cibo e su come buona parte del prezzo pagato non arrivi agli agricoltori.
Chi è Edward Mukiibi, il nuovo presidente di Slow Food. La nostra intervista
La sua elezione a presidente di Slow Food rappresenta il riconoscimento di un lavoro lungo anni, nel solco della sostenibilità e simbolo della volontà di dare forma al futuro dell’agricoltura rigenerativa.
Il sistema agricolo intensivo alimenta i cambiamenti climatici producendo emissioni e inquinamento, ma ne è anche vittima con i raccolti che vengono distrutti dagli eventi meteorologici estremi o bruciati dalla siccità. Con l’aggravarsi della crisi climatica come si può, allora, garantire la sicurezza alimentare per tutti e farlo in modo sostenibile per il Pianeta e le persone? Abbiamo raccolto il punto di vista di Slow Food nelle parole di Edward Mukiibi che il 16 luglio scorso, durante l’ottavo Congresso internazionale del movimento, è stato eletto nuovo presidente di Slow Food, carica fino a quel momento ricoperta dal fondatore Carlo Petrini.
Chi è Edward Mukiibi, il nuovo presidente di Slow Food
Edward Mukiibi nasce in Uganda nel 1986 – l’anno in cui viene fondato Slow Food – da una famiglia che gestisce da sempre una fattoria.
Agronomo con una laurea triennale in Agricoltura e gestione del territorio conseguita presso la Makerere University di Kampala (Uganda) e un master in Gastronomia all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo (Cn), è anche un educatore nel campo dell’alimentazione e dell’agricoltura ed è impegnato nella diffusione e promozione di progetti sociali in questi ambiti.
Dal 2014 ha ricoperto la carica di vicepresidente di Slow Food, mentre l’elezione a presidente rappresenta il riconoscimento a un lavoro lungo anni, nel solco della sostenibilità, e simbolo della capacità e della volontà di dare forma al futuro dell’agricoltura rigenerativa.
Mukiibi ha ricevuto il premio per la sostenibilità Ray Charles black hand in the pot della Dillard University di New Orleans e un’onorificenza da parte del Consiglio comunale della città di Detroit, negli Stati Uniti. Inoltre, è stato incluso nella categoria “Educatori” della classifica 50 Next Awards dalla rivista Forbes, che ha individuato gli under 35 anni che stanno plasmando il futuro della gastronomia.
Quali sono le sfide a cui i sistemi agricoli e alimentari devono rispondere oggi?
Il mondo intero oggi è alla ricerca di risposte alle sfide che si stanno affrontando: l’emergenza climatica, i conflitti, la perdita di biodiversità e l’insicurezza alimentare. Storicamente, da oltre un secolo, le attività di produzione del cibo legate al commercio internazionale, alle monocolture, alla produzione industriale sono state predatorie delle risorse naturali, incuranti nei confronti dell’ambiente e della salute delle persone.
Un sistema alimentare buono, pulito e giusto invece esiste ed è realizzabile. I disastri creati dal sistema alimentare globale potrebbero essere quantomeno mitigati e a lungo termine risolti se tutti comprendessero il concetto che ispira Slow Food, il cui obiettivo è risolvere le sfide globali attraverso il lavoro e la mobilitazione delle comunità a livello locale.
Le problematiche non sono sempre le stesse da continente a continente. Quali sono le priorità su cui intervenire?
Siamo preoccupati per la velocità con cui stiamo perdendo la biodiversità non solo nei campi, ma anche nei nostri piatti, il che rende la nostra alimentazione e le nostre diete dipendenti da pochi prodotti omologati. Stiamo lavorando con i cuochi per riportare la biodiversità nel piatto. Non basta parlare, dobbiamo riportare in tavola ciò che stiamo perdendo e aprire una discussione collettiva sulla ricchezza che stiamo mettendo a rischio.
Slow Food promuove approcci rigenerativi alla produzione alimentare, tra cui la promozione dell’agroecologia, la costruzione di sistemi agricoli tradizionali basati sull’agroforestazione, la conservazione e la tutela della biodiversità alimentare locale e degli ecosistemi fragili. È evidente che la soluzione non può essere la stessa per ogni continente, territorio e latitudine: questo è l’approccio delle multinazionali che porta alla distruzione della biodiversità e alla perdita delle tradizioni alimentari. Il giusto approccio invece è differenziato e nasce dal basso, dall’esperienza dei produttori locali e dall’attivazione dei cittadini nell’adottare scelte e comportamenti favorevoli all’ambiente. Il nostro lavoro è molto concreto: non ci limitiamo a parlare di cambiamenti climatici partecipando a conferenze, ma agiamo attraverso migliaia di comunità che lavorano concretamente per promuovere l’agroecologia, la permacultura e i sistemi agricoli tradizionali.
Come il sistema alimentare può combattere la crisi climatica invece di alimentarla?
La crisi climatica è attuale, accade ora e deve essere presa in considerazione in ogni azione politica futura. Il settore agricolo deve capire che, anche in tempi di crisi imminente, trascurare le zone di protezione ecologica e aumentare la quantità di agricoltura industriale non può essere la soluzione. L’alimentazione e l’agricoltura sono tra i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici. A livello globale, i sistemi alimentari sono responsabili del 60 per cento della perdita di biodiversità territoriale, di circa il 24 per cento delle emissioni di gas serra, di circa un terzo dei suoli degradati e dello sfruttamento completo di almeno il 90 per cento delle popolazioni ittiche commerciali. I ricercatori prevedono che anche se le emissioni di combustibili fossili venissero bloccate ora, le emissioni del sistema alimentare mondiale renderebbero impossibile raggiungere gli attuali obiettivi internazionali sui cambiamenti climatici.
Secondo i ricercatori, le emissioni derivanti dalla sola produzione alimentare potrebbero spingere le temperature mondiali oltre 1,5 gradi Celsius entro la metà di questo secolo e oltre 2 gradi Celsius entro la fine del secolo. Ma questo non deve necessariamente accadere. Il cibo e l’agricoltura possono essere la soluzione invece di essere il problema. Abbiamo bisogno di una vera e propria transizione dalla monocoltura industriale e dall’allevamento intensivo di animali a pratiche agricole sostenibili e agroecologiche. Gli habitat devono essere ripristinati e le aree agricole devono diventare un vettore di recupero della biodiversità. Gli agricoltori devono essere sostenuti dai governi e dalle istituzioni in questa necessaria transizione dall’uso elevato di pesticidi all’agroecologia, che si basa sulla biodiversità locale.
Cosa ne pensa di soluzioni come le colture acquaponiche e le vertical farm?
L’agricoltura non è solo produzione, è anche paesaggio fruibile, turismo di qualità, gastronomia. Le serre, le colture acquaponiche e tutte quelle forme di produzione che presuppongono di fare a meno della terra, del suolo, sono omologazione totale, perdita di biodiversità. La situazione oggi è che il suolo come risorsa è al limite dell’esaurimento. L’anno scorso la Fao ha dichiarato che se non si inverte questo modello di sviluppo agricolo, nel giro di dieci anni vivremo una situazione drammatica per la sovranità alimentare e l’alimentazione in tutto il pianeta. C’è un problema di fertilità del suolo, che si sta riducendo drammaticamente.
I dati a disposizione parlano chiaro: negli ultimi 70 anni abbiamo distrutto i tre quarti dell’agrobiodiversità che i contadini avevano selezionato nei 10mila anni precedenti. Poche multinazionali hanno preso il controllo del cibo, brevettando semi ibridi, fertilizzanti, pesticidi e diserbanti. Va assolutamente recuperato un impiego di tecniche tradizionali che fanno parte dell’agroecologia. Le coperture, il sovescio, la pacciamatura, la rotazione con le leguminose, sono tutte tecniche antiche ma fondamentali che – se non si praticano – devono essere sostituite con l’immissione di fertilizzanti chimici da fonti fossili, ciò che implica una concatenazione di elementi tutti negativi per l’emissione di CO2.
L’agricoltura ipertecnologica presuppone grandi investimenti e una concentrazione del potere economico. Significa immaginare un modello agricolo fatto di aziende sempre più grandi, concentrazioni sempre maggiori. È un’idea di agricoltura concepita per le multinazionali.
Qual è la visione che Slow Food vuole portare avanti in merito ai sistemi alimentari? Cosa significa cibo “buono, pulito e giusto” nel 2022? Il biologico che ruolo ha per voi in questo?
Slow Food immagina un mondo in cui tutte le persone possano mangiare cibo buono per loro, buono per chi lo coltiva e buono per il pianeta. Nel futuro che immaginiamo, siamo strettamente legati agli ecosistemi resilienti che ci circondano; tutti rispettano e promuovono la diversità di persone, culture, luoghi, cibi e gusti. Il sistema alimentare cambia perché noi cambiamo.
Ognuno di noi, nelle sue attività quotidiane, sperimenta già frammenti del mondo che vorremmo: gli orti sono piattaforme per l’apprendimento multigenerazionale; le comunità di produttori trasformano i prodotti in via di estinzione in beni economici; i mercati contadini mettono in contatto l’urbano e il rurale; le campagne di sensibilizzazione utilizzano il cibo per promuovere importanti questioni sociali e ambientali; i raduni e gli eventi riuniscono persone di ogni età e provenienza; le cucine diventano spazi sociali di educazione, riflessione e azione per ridisegnare il nostro rapporto con il cibo. Ciò per cui dobbiamo lavorare è che tutte queste azioni si realizzino ogni giorno. In tutto il mondo sono già stati implementati modelli che hanno dimostrato di avere un impatto positivo straordinario. Dobbiamo costruire sistemi alimentari che siano resilienti di fronte alle crescenti avversità ambientali e sociali, a partire dai contesti più vulnerabili.
Il biologico di per sé è un valore, ma non deve modularsi sul modello industriale delle monocolture e delle grandi esportazioni. L’agroecologia è il sistema produttivo che Slow Food promuove, e vi è incluso il biologico, ovvero la produzione senza sostanze chimiche di sintesi.
In tema di carne, si parla molto di produzione in laboratorio e di alternative vegetali, cosa ne pensa? Può un sistema a pascolo garantire cibo per tutti? O, in generale, ci può essere cibo buono, pulito e giusto a sufficienza per tutti?
C’è sempre stato un mix tra agricoltura e allevamento, per cui parte della fertilizzazione arrivava dagli animali. Questo equilibrio simbiotico nel modello industriale si è rotto. Anche con le nuove tecnologie cellulari che riproducono la consistenza e il sapore della carne o dei prodotti animali in generale, si va verso una produzione tecnologica sempre più intensiva, basata sulla monocoltura agricola e sul tentativo di riprodurre alimenti che in realtà non hanno alcun legame culturale o gastronomico con il territorio, il che rappresenta una minaccia crescente per i prodotti locali tradizionali e per la sopravvivenza delle stesse comunità rurali.
Detto questo, non dobbiamo nemmeno perdere di vista l’orrore degli allevamenti intensivi, che sono insostenibili a causa del livello di inquinamento e di produzione di CO2 nell’ambiente. Per non parlare dell’enorme sofferenza degli animali, che vengono trattati come se fossero parti di una catena di montaggio. Non dobbiamo perdere di vista nessuno degli aspetti che compongono il quadro. È chiaro che il cosiddetto mondo sviluppato non può continuare a consumare le attuali quantità di carne e prodotti animali.
Alcuni allevatori gestiscono i loro animali in spazi aperti, nel rispetto del loro benessere, e dovrebbero essere sostenuti e incoraggiati in ogni modo possibile. Dobbiamo fare una grande operazione culturale per recuperare la capacità di cucinare noi stessi in modo prevalente nella nostra dieta materie prime vegetali. Un sistema agroalimentare sostenibile non può fare a meno degli animali. Di sicuro però il consumo dei loro prodotti deve diminuire drasticamente e la scelta deve indirizzarsi verso allevamenti sostenibili in cui gli animali vivono secondo i loro bisogni etologici. Ne beneficerà sicuramente anche la nostra salute.
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