Il 27 novembre aprono le candidature per la seconda edizione di Women in Action, il programma di LifeGate Way dedicato all’imprenditoria femminile.
Da Giano bifronte a Pinocchio. Le multinazionali con disturbi di identità
Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”. Pinocchio, come
Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”. Pinocchio, come tutti sanno, è il personaggio di legno inventato da Collodi: sa essere buono, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie, e nell’immaginario popolare è anche simbolo di bugia, con il suo naso che si allunga a dismisura quando mente, fino puntualmente a cacciarsi nei guai.
Aziende Pinocchio Bifronte: le multinazionali farmaceutiche
Ecco quattro brevi storie – ma se ne potrebbe citare molte, moltissime altre – di aziende con un atteggiamento che fonde bene le due figure simboliche sopra richiamate, al punto da generarne probabilmente una terza: il Pinocchio bifronte. A leggere cosa raccontano di sé, sono tutte multinazionali straordinarie, con clima interno di lavoro piacevole, e orientate al bene della comunità.
Partiamo da Big pharma facendo qualche nome: Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead. Queste e altre aziende sembrano in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”: sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, ma quante di queste si traducono poi in comportamenti concreti?
Si dibatte spesso del redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini – circa 20 miliardi di dollari di incassi all’anno – ma soffermiamoci per un attimo sulla denuncia di Medici senza frontiere: in India le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti (benché le multinazionali del pharma dichiarino di essere “dalla parte di medici e pazienti”), in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le Big pharma amano manipolare i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce povere della società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici.
Le pressioni sempre più sfacciate e insistenti di Big pharma potrebbero tuttavia modificare lo scenario in modo certamente non favorevole ai pazienti, come ha denunciato Silvia Mancini di Medici senza frontiere: “Le cose stanno cambiando, e presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche.
Impiegati usa e getta
Spostiamoci dall’India agli Stati Uniti, con l’eclatante inchiesta del New York Times, Impiegati usa e getta, sul colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”.
L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il Ceodella Apple, Tim Cook, il primo posto come Ceo più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede “guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo”.
Creare obbedienza con la paura
Dagli Stati Uniti, diamo un’occhiata in casa nostra, con la storia di un’azienda apparentemente molto attenta, secondo le solite dichiarazioni sui bilanci sociali, buone per comunicati e conferenze stampa, ai risvolti etici e sociali della propria attività: Enel.
Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma con gli studenti dell’Università Luiss, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In riposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire”. Dimenticatevi ogni buon corso di leadership e di motivazione del personale, perché il principio cardine secondo Starace è il seguente: “Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”.
Come mai questi “illuminati” principi di leadership aziendale non sono declinati sui siti web aziendali e sul bilancio sociale Enel, firmato paradossalmente dallo stesso Starace, dove al contrario si fa un gran parlare di “coinvolgimento”, “creazione di valore”, “collaborazione”, “piani di sviluppo individuali delle persone” e addirittura di “wellness aziendale”.
Gay-friendly – a corrente alternata
Ultima storia, quella di Fiat, o meglio Fiat Chrysler automobiles (Fca), che ha segnalato con un comunicato stampa in olandese, poi tradotto in inglese per i mercati esteri, ma mai proattivamente diffuso in Italia, di aver sostenuto attivamente il Gay pride di Amsterdam, grazie anche alla lodevole sensibilità personale sui temi Lgbt di Cristiana Alicata, responsabile di Fca Olanda. In effetti, come certifica il portale Gay.it, l’auto che più di tutte “ci ha messo il muso” per la comunità Lgbt è la Fiat 500: è stata per ben due volte eletta Gay car of the year, e come le migliori drag queen la baby di casa Fiat “ha saputo travestirsi e trasformarsi come una vera regina del palcoscenico, assumendo colori ispirati a Barbie e Gucci”. In occasione appunto del Gay pride di Amsterdam è stata dipinta completamente di rosa, con l’hashtag #welovepink e ha sfrecciato orgogliosa sulle acque dei canali della capitale olandese. Già per altri Gay Pride, questa volta negli Stati Uniti, la 500 prese le tinte della bandiera arcobaleno, troneggiando tra carri e partecipanti alle parate che celebravano la legalizzazione del matrimonio egualitario in America, e, ancor prima, si distinse nell’Orgullo di Madrid del 2010 con 5 modelli speciali a rappresentanza di diverse “specie della fauna Lgbt”, quali Drag, Leather, Lesbo, Orso e Cool. Si era “travestita” con paillette, cuoio, pelliccia, rossetto e persino gli specchietti in palla da discoteca, che ne avevano decorato la carrozzeria, per richiamare in modo scherzoso alcuni stereotipi del mondo queer.
Ma tutto questo orgoglio gay sparisce purtroppo quando si varcano i confini del Bel Paese, che tra l’altro – troppo spesso qualcuno lo dimentica – alla Fiat ha dato i natali. Nel bilancio sociale della multinazionale dell’auto la parola “Lgbt” o simili non compare infatti neppure una volta, se non indirettamente e molto genericamente nella sezione in lingua inglese Culture of diversity and inclusion, quando si cita tra le molte associazioni alle quali la Fabbrica italiana automobili Torino aderisce anche la californiana Gay and lesbian alliance.
“Trovo sconcertante questo comportamento ambiguo. Evidentemente, per quanto un’azienda sia grande, in quanto con Dna italiano resta sempre e comunque un’azienda ‘provinciale’ ”, ha dichiarato Fabio Canino, presentatore Rai e noto attivista Lgbt, che della promozione della “pink economy” ne ha fatto una vera e propria battaglia, anche nel suo ultimo libro dal titolo Rainbow Republic, aggiungendo: “Posso solo augurarmi che prima o poi anche la Fca riesca a mettere la freccia e a sorpassare i pregiudizi che evidentemente dimostra ancora in Italia verso il mondo Lgbt”.
Nei prossimi anni scopriremo se questo è solo l’inizio di un percorso di maturazione culturale interno, iniziato in Olanda e negli Stati Uniti, e che si manifesterà poi anche nel nostro Paese.
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Mettiamo le multinazionali sul lettino
Ebbene, che siano le aziende citate in quest’articolo, piuttosto che Shell, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali per miliardi di dollari nel Golfo del Messico, o la banca “attenta alle persone” che poi vende obbligazioni tossiche rovinando decine di migliaia di famiglie e facendo suicidare vari imprenditori, c’è da chiedersi quanto spazio separa la verità dalla finzione. Quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini. Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano. Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche. Che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte migliorando il percepito, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business.
Abbiamo citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o Disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quella principale. Le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune. Probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Il problema tuttavia è mettere le multinazionali sul lettino: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un Trattamento sanitario obbligatorio con camicia di forza, come quello che ha costretto Volkswagen a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del recente Dieselgate, a seguito dei miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato.
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