Dal 17 al 23 giugno, Survival International mobilita l’opinione pubblica con una settimana dedicata ai diritti dei popoli incontattati.
Il museo Upopoy in Giappone è il primo dedicato alla popolazione indigena Ainu
Il museo nazionale Ainu Upopoy ha aperto i battenti. Ora la popolazione indigena Ainu di Hokkaido è riconosciuta, ma molte persone non hanno ancora accesso ai diritti fondamentali.
Il 12 luglio il museo e parco nazionale Ainu Upopoy ha aperto a Shiraoi, a Hokkaido, la principale isola settentrionale del Giappone. L’apertura al pubblico era stata posticipata per mesi a causa della pandemia di coronavirus. Costruito sulle rive del suggestivo lago Poroto, il museo Upopoy è stato fondato per promuovere la scoperta e la comprensione del popolo Ainu, indigeno di Hokkaido.
Conosciuto anche come uno spazio simbolico per l’armonia etnica, questo è il primo museo nazionale in Giappone che mostra e celebra una cultura diversa da quella esplicitamente giapponese. Upopoy, che in lingua ainu significa “cantare in un grande gruppo”, è destinato a diventare il centro della cultura ainu e offrirà uno spazio per la scoperta di una grande varietà di usi e tradizioni. Il patrimonio culturale è stato portato alla soglia dell’estinzione da più di un secolo di assimilazione coloniale e politiche discriminatorie portate avanti dal governo giapponese, il quale solo di recente ha varato la legge del 2019 per il primo riconoscimento legale degli ainu in quanto popolazione indigena del Giappone, con una propria lingua, credenze e costumi.
Il museo Upopoy dedicato alla cultura ainu
Nell’era dei movimenti Black lives matter, Me Too e della lotta globale per la protezione dei diritti degli indigeni il governo giapponese ha subìto pressioni sempre maggiori per il riconoscimento e la promozione della cultura ainu. Il museo Upopoy avrebbe dovuto aprire i battenti in concomitanza con le Olimpiadi del 2020 a Tokyo, è costato più di 182 milioni di dollari ed è stato promosso ampiamente. In tutto il paese e oltre i confini sono stati esposti e condivisi poster e video di persone in abiti tradizionali con motivi geometrici brillanti e appariscenti. Dalla metropolitana di Tokyo a una mostra a Londra, l’apertura del museo Upopoy è stata largamente promossa e prima della pandemia si puntava ad attrarre un milione di visitatori l’anno. Un numero che dimostra il potenziale del centro culturale come meta turistica.
“Il museo ha una funzione educativa, per cercare di diffondere la cultura indigena. È anche uno spazio per correggere alcune opinioni fuorviate riguardo il popolo Ainu” spiega Mark Winchester, membro associato della fondazione per la cultura ainu. Il complesso si estende per centomila metri quadri, divisi in tre aree distinte. La prima è costituita dall’edificio del museo nazionale, che ospita le esposizioni in una costruzione enorme, moderna e dal design impressionante.
La seconda area è il parco nazionale dell’armonia etnica, cosparso di ricostruzioni dei villaggi tradizionali, kotan, con abitazioni chiamate cise, questa area è designata anche alle cerimonie all’aperto e agli spettacoli di luce. Infine, l’area più discussa è il memoriale, che ospita una raccolta di resti umani che erano stati prelevati dalle tombe nel corso di secoli per essere studiati e che ora verranno conservati nel sito Upopoy.
La questione dei resti del popolo Ainu
Ad oggi più di 1.600 resti di ainu sono stati estratti dalle tombe in tutta Hokkaido. Le estrazioni molto raramente sono avvenute con il consenso libero e informato delle comunità locali, questo ha causato uno scontento considerevole nelle comunità ainu. Per decenni i ricercatori giapponesi e internazionali hanno tenuto questi resti per fare ricerca, conservandoli in magazzini universitari. Prima dell’apertura del museo le persone hanno potuto fare domanda di restituzione degli antenati per i resti esumati, i resti per cui nessuno ha fatto richiesta sono stati spostati al museo Upopoy.
Diverse comunità si sono però lamentate del fatto che il processo per fare domanda costituiva un ostacolo significativo e che il trasferimento al museo Upopoy costituisce un altro spostamento forzato dei resti. “Gli antenati sono stati spostati con la forza dai loro luoghi natii a nuovi insediamenti, poi i corpi seppelliti in questi nuovi luoghi sono stati esumati senza il permesso del popolo e sono stati tenuti all’interno di alcune università”, afferma Hiroshi Maruyama, fondatore del centro per gli studi ambientali e delle minoranze etniche (CEMiPoS). “Ora i resti di questi antenati vengono raccolti nell’edificio memoriale di Upopoy. Questo costituisce un terzo trasferimento forzato per la popolazione”.
Questo problema è stato al centro di discussioni animate e molte comunità e attivisti continuano a esprimere la propria opposizione al trasferimento di resti umani a Upopoy, sostenendo che solo i ricercatori giapponesi ne trarranno benefici, e non il popolo Ainu.
Gli ainu e il Giappone, una storia complicata
Il furto di terreni di sepoltura sacri è solo un aspetto della discriminazione e della repressione subita dagli ainu, che sono soggetti a politiche di assimilazione da più di un secolo, a partire dall’era Meiji (1868-1912). Lo sradicamento della cultura non ha coinvolto solo usi e costumi, ma ha anche reso illegali i metodi tradizionali di sostentamento della popolazione.
Leggi contro la caccia e la pesca sono state introdotte già nel 1876 e non sono mai state abrogate. In più la legge sulla protezione degli “ex-indigeni” del 1899 ha consolidato le politiche di assimilazione, a partire dal titolo stesso della legge, in cui “ex” implica che l’identità sia ormai fusa a quella del Giappone moderno. Questo processo di annientamento culturale ha degli effetti particolarmente evidenti nell’evoluzione della lingua ainu, che è scomparsa quasi completamente.
“Un risultato delle politiche di assimilazione è che pochissime persone parlano ainu al giorno d’oggi, coloro che erano cresciuti circondati dalla lingua ainu sono morti verso la metà del novecento” spiega Jeffrey Gayman, professore nel dipartimento di educazione interculturale nella facoltà di comunicazione e media dell’Università di Hokkaido, il quale ha anche svolto un sondaggio molto importante sullo stato di trasmissione della lingua nel 2012. Verosimilmente sono rimasti solo cinque parlanti madrelingua e le persone che parlano ainu l’hanno imparato passivamente ascoltando i propri nonni. La maggior parte di queste persone hanno ora 80 o 90 anni”.
Dall’assimilazione al riconoscimento
Dopo le riforme del secondo dopoguerra il governo giapponese ha iniziato un processo graduale per ribaltare le proprie politiche razziste basate sull’eugenetica e sul desiderio di dipingere la nazione come etnicamente uniforme. Nel 2019 decenni di riforme hanno raggiunto il culmine con la legge di riconoscimento degli ainu.
Il museo Upopoy è parte integrante di questo processo e nel 2009 il Concilio per la promozione ainu (presieduto dal segretario a capo del gabinetto del Giappone) ha affermato che “uno spazio simbolico per l’armonia etnica” è la chiave per una politica basata sul riconoscimento della popolazione indigena Ainu.
Però questo nuovo approccio ha generato anche delle controversie. “L’Upopoy è il pezzo forte delle nuove politiche nei confronti degli ainu, e viene anche citato nella legge del 2019 come nuovo fulcro per la rinascita della cultura”, afferma Gayman, “il che in termini di autodeterminazione e sviluppo della comunità degli indigeni è un controsenso, lo stato giapponese ha privato le persone della loro terra, dei diritti di accedere alle risorse naturali, dei sistemi educativi e delle tradizioni politiche, sociali ed economiche. E ora pretende che la cultura ainu, così come viene definita dallo stato, possa essere rivitalizzata solo attraverso un museo. Tutto ciò è quantomeno ironico”.
L’attivista Shikada Kawami, ex curatrice del museo Asahikawa City, ha rilasciato un comunicato nei giorni che hanno preceduto l’apertura del museo, in cui ha riassunto molte delle rimostranze: “Il museo Upopoy è un altro esempio di come il Giappone esercita il proprio potere sugli ainu. Molti resti umani rubati sono stati portati nel memoriale. I ricercatori giapponesi trarranno beneficio da ciò, ma le ferite profonde di molte famiglie in lutto non verranno alleviate. Alcune persone giapponesi ci biasimano perché vogliamo di più di un museo. In altre parole, sostengono che dovremmo essere soddisfatti e grati per il museo Upopoy. Non so fino a che livello molte persone si rendano conto di quanto veniamo ancora sfruttati e discriminati. Penso che dovremmo studiare di più la nostra cultura, la storia, la lingua e i diritti umani”.
Una questione di diritti
Gli attivisti accusano il governo giapponese di dipingere un’immagine statica del popolo Ainu, di appropriarsi dell’identità culturale ainu per la sua attrattiva commerciale, ignorando i diritti della popolazione locale, così facendo “protezione diventa sinonimo di mercificazione”, continua Maruyama.
Il fallimento nel fornire una serie di diritti sulla terra, la caccia e la pesca si è rivelato particolarmente problematico, perché in questo modo la “cultura ainu” viene confinata a una proiezione del passato e non viene fornito un accesso alle risorse necessarie per vivere secondo le tradizioni nel presente. “La cultura ainu non si limita alla lingua, alle cerimonie e alle danze”, spiega l’attivista Tahara Ryoko, presidente dell’associazione Donne Ainu. “È la vita stessa ainu. Tutto quel che accade nella vita quotidiana delle famiglie è cultura ainu”. Promuovere un’idea apolitica della cultura ainu e contemporaneamente intralciare i diritti politici ed economici è problematico. Specialmente perché gli usi, le credenze e le cerimonie ainu sono intrinsecamente legate alla natura e alla terra in cui questo popolo ha vissuto per secoli.
Gli attivisti sostengono che il riconoscimento dello status indigeno debba essere accompagnato dalla concessione di diritti. “Purtroppo gli ainu stanno perdendo la connessione con la terra e l’acqua perché è stato proibito loro di pescare e cacciare” spiega Maruyama. “Questo limita la cultura a canzoni, danze, lavori artigianali e manufatti: dei prodotti”.
Questo processo è particolarmente evidente nel caso di Satoshi Hatakeyama, il presidente settantasettenne dell’associazione Monbetsu, che è stato oggetto di un’indagine penale per aver praticato la pesca del salmone nel fiume Mobetsu senza il permesso governativo di Hokkaido. “La pesca del salmone è stata praticata dai nostri antenati per moltissimo tempo”, ha detto Hatakeyama ai giornalisti durante una conferenza stampa. “Se il governo centrale ci riconosce lo status di popolo indigeno, allora deve pensare seriamente alla restituzione delle terre e delle risorse e a un risarcimento”.
“Il diritto alla pesca per le comunità indigene è garantito dalla legge internazionale”, aggiunge Maruyama. “Il governo dovrebbe sbrigarsi a varare leggi per restituire i diritti a queste persone, ma questo tema ancora non è stato nemmeno discusso. Le azioni di Hatakeyama erano volte a presentare il problema pubblicamente e sono state dettate da necessità”.
Promozione culturale o omogeneizzazione?
È innegabile che il museo Upopoy abbia contribuito alla visibilità nazionale e internazionale degli ainu, e questo può costituire un passo nella giusta direzione. Per molte persone è motivo di orgoglio e soddisfazione. È una struttura moderna, in cui innumerevoli persone possono scoprire la cultura ainu e dove gli ainu stessi possono praticare alcune importanti tradizioni, anche per trasmetterle alle nuove generazioni. Per altre persone invece si tratta della continuazione logica del processo di assimilazione, in cui a un riconoscimento simbolico non corrisponde una volontà di estendere i diritti per preservare veramente la cultura. Senza questi diritti alcuni ainu ritengono che sia impossibile mantenere la propria identità culturale e temono che questa identità verrà rinchiusa in statiche immagini del passato, mercificata e venduta in forma di stereotipi e false rappresentazioni.
È difficile non essere colpiti dallo spettacolo ipnotico di luci durante la cerimonia di apertura del museo Upopoy, in cui le fiabe tradizionali prendono vita nella forma di cartoni anime accompagnati da musica tradizionale riadattata con ritmi veloci e strumenti elettronici. Allo stesso tempo la domanda sorge spontanea: stiamo assistendo all’evoluzione della cultura ainu o al suo assoggettamento alla narrativa dominante?
Probabilmente, come spesso accade, la verità sta nel mezzo.
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